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RSA e case di riposo: numeri o persone?
La gestione di un’RSA deve conferire il massimo valore all’ultimo periodo della vita dei suoi ospiti. Un obiettivo che rischia di eclissarsi dietro la gestione ospedaliera e la marea del COVID-19.
“Quale fosse il senso della vita è la prima domanda che mi sono fatta entrando come presidente della Fondazione Istituto Geriatrico ‘La Pelucca Onlus’ di Sesto San Giovanni, che si occupa di fragilità degli anziani in un’ottica di multiservizi. È un tema che ricorre continuamente sia per gli ospiti che per i parenti, ma lavorando ogni giorno lì dentro mi ero accorta che c’è come un orizzonte che cambia e che può essere anche una deriva positiva. La signora Giulia, 93 anni e la ricordo ancora benissimo, mi ripeteva sempre che a lei aveva salvato la vita poter entrare lì dentro perché era rimasta vedova, non aveva figli e per un anno era stata a casa da sola, tristissima.”
Di Maria Cristina Bombelli, che conosco per tutto il lavoro che porta avanti dagli anni Ottanta sui temi dell’inclusione nella cultura del lavoro – e il cui nome è indissolubile con quello di Wise Growth, da lei fondata – questa parentesi di lavoro dal 2008 al 2016 mi mancava proprio ed è uscita spontaneamente mente parlavamo al telefono di tutt’altro. Ragionavamo di donne, poi di un libro che mi stava suggerendo di leggere fino ad arrivare non so come alla sua esperienza di presidente dentro una RSA.
Certi ambiti di lavoro bruciano più del fuoco: la gestione degli anziani, come dei bambini, arriva alla ribalta delle cronache nazionali quasi sempre sottobraccio alla malagestione o a qualche altro capitolo amaro. Il 2020 ce lo ha sbattuto in faccia.
RSA: i management all’esame di coscienza
Come si possa rispettare la vita di un anziano è il crinale più impervio.
“La rivoluzione demografica è il secondo aspetto dirompente che vedi gestendo una RSA, e per me è stato di gran lunga più istruttivo di tante letture e tanti studi. La persona più anziana che ho visto morire aveva 103 anni, non aveva figli, e i suoi nipoti ne avevano quasi 85: insomma, persone molto anziane che si prendono cura di persone molto anziane. Dentro il tema del caring ci si dimentica spesso in Italia di questo aspetto, per non parlare di chi non ce l’ha proprio una famiglia alle spalle: c’è tanta fatica e tanta solitudine nella cura.”
Numeri da tenere sotto controllo, rette da incassare, somministrazione di farmaci, igiene degli ospiti, letti da rifare, bilanci da far tornare, personale da gestire: chi sta nella cabina di regia di una RSA è strozzato dall’operatività che giorno dopo giorno satura l’umanità. Ed è il paradosso del prendersi cura, l’inevitabile che alberga nella maggior parte delle strutture, la menzogna madre che finisce per rinnegare il senso della vita. Per questo le parole di Maria Cristina Bombelli sono tanto dirette quanto necessarie.
“Sorvolando sui casi di maltrattamenti che ogni tanto escono fuori nei confronti degli anziani, e ogni volta mi chiedo come sia possibile visto che i controlli dovrebbero essere per tutti rigorosi e costanti, c’è una grande verità che affligge le strutture: il personale è quasi sempre al limite. Però c’è anche un altro aspetto di cui non si parla mai perché fa male dirlo e ammetterlo e cioè che il personale tende a oggettivizzare. Il lavoro diventa una routine, una serie di azioni da mattina a sera, sempre le stesse, l’automatismo e l’ansia di metterle una dietro l’altra per rispettare mansioni e protocolli. Alla fine l’anziano sparisce, sia dietro il poco tempo che resta al personale dopo l’operatività, sia dietro le scarse relazioni umane che si instaurano. Servirebbe molta più educazione e formazione in quel senso. Io avevo fatto in modo di strutturare le relazioni umane più forti grazie ai volontari esterni. Quante volte ho visto coi miei occhi membri del personale rifare il letto con inerzia e parlare tra di loro, magari anche in una lingua straniera, mentre il paziente diventava un vero e proprio manichino. Non è pensabile, ogni gesto verso gli anziani ha bisogno di essere rieducato. Urge tanta formazione relazionale anche mentre gli danno da mangiare o lo lavano”.
Le chiedo se certi requisiti attitudinali vengano misurati in partenza sul personale o se siano ameno oggetto di formazione nel corso del loro lavoro. “No, non sempre. Io da formatrice di lungo corso ovviamente ci ho provato, nella mia esperienza di presidente della RSA, e lo abbiamo fatto a lungo. E poi bisogna insistere e valutare e misurare, curare il personale, mettersi nei suoi panni: se si salta questo passaggio, è come non aver fatto la minima formazione. Puoi gestire queste fasi anche con dei parametri in chiave positiva per capire come stanno le cose e se stanno cambiando, usare il gioco e l’immedesimazione con figure positive, far vedere le cose al personale dal punto di vista dell’anziano, che poi è il cuore della diversity. Nessun lavoro è fatto bene se non si consapevolizza; figuriamoci se si lavora con la solitudine e con la malattia dell’altro”.
E si torna al tema del poco tempo e poco personale, ai costi, all’efficienza delle strutture e ai conti da far tornare: la salute è diventata una voce di bilancio e quel bilancio è in mano ai consigli di amministrazione che comunque trovano sponde di supporto anche nello Stato o nel comune o nelle ASL, oltre ovviamente alle rette delle famiglie.
“Sappiamo bene che la sanità è una materia regionale, e questo rende ancora più complesso provare a riorganizzare in modo organico una cultura manageriale che è ferma e rigida. Ma ancora una volta, ripeto, si può cambiare se si mette in cima alla lista del management la questione dell’innovazione organizzativa”.
È la parola elasticità che mi colpisce nell’ascoltarla, mi colpisce perché la rimarca con un timbro tutto suo fin quasi a dilatarla per incarnarne il senso. “Le RSA sono istituzioni totali e il rischio, se non si presta davvero attenzione alle persone, è che quelle persone finiscano quasi carcerate. Dico tutto questo ben sapendo che è forte da comunicare ma finché non lo vediamo non riusciamo a darci un obiettivo diverso, più umano. Il tempo che resta al di là della gestione operativa degli anziani è pochissimo, lo sappiamo – igiene personale, cibo, farmaci, visite, pulizia degli spazi – ma non possiamo farci limitare dall’inganno che si è sempre fatto così. Bisogna provare a evolvere il modello, sperimentare dinamiche differenti magari facendolo partire per piccoli gruppi o piccoli reparti, insomma personalizzare di più l’assistenza. Bisognerebbe arricchire il tempo degli anziani in RSA con progetti più individuali, farli riabituare ad avere una memoria e un presente, e soprattutto qualcuno che dedichi loro il tempo dell’ascolto, che invece è quasi sempre negato. Una volta si andava in casa di riposo e sembrava quasi una pensione mentre oggi è tutto ospedalizzato e sul piano della gestione si è passati da una gestione quasi alberghiera a una gestione sanitaria che ha voluto dire anche un cambiamento forte delle competenze interne e dell’audience. Audience cambiata vuol dire che con una RSA pensata come ospedale tu hai di fronte persone con le patologie e i quadri clinici più disparati, quindi sei chiamato ancora di più a personalizzare l’assistenza. Tutto è ancora troppo standardizzato: eppure ogni essere umano è diverso e dovrebbe avere il diritto di esserlo anche da vecchio, anche a fine percorso”.
La regione toglie infermieri alle RSA: la guerra tra poveri che spacca pubblico e privato
Dalla Lombardia alle Marche, da una RSA a una casa di riposo. Massimo Piergiacomi è il presidente dell’Opera Pia Ceci a Camerano, in provincia di Ancona: la struttura nasce addirittura nel 1912. Il modello del Ceci è quello delle IPAB: istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, che dal 1890 rappresenta lo strumento istituzionale di riferimento per l’esercizio di forme pubbliche di beneficenza. 103 posti letto convenzionati e un 2020 gestito con maniacalità estrema per garantire la sicurezza degli ospiti, del personale, della struttura. Un esempio di buona gestione che i media locali avevano più volte citato durante le tragedie italiane delle RSA soprattutto lombarde.
Purtroppo alcune settimane fa il COVID-19 ha messo piede anche al Ceci. Chiedo al presidente come sia cambiato il lavoro di gestione di una casa di riposo a cavallo delle emergenze, quali e quanti costi siano lievitati, come siano stati capaci di tenere alto il rispetto degli anziani, seppur costretti a isolarli dalle famiglie.
“Abbiamo resistito al COVID-19 per più di undici mesi, chiudendo all’esterno la struttura il 4 marzo 2020 e riaprendo a metà giugno; poi avevamo chiuso i primi di ottobre e riaperto dieci giorni prima di Natale: per noi è voluto dire soprattutto impegnarci a non privare gli ospiti dei contatti a distanza coi parenti. Per prima cosa, quindi, abbiamo attrezzato la casa di risposo per collegamenti in videochiamata garantendolo a tutti almeno una volta a settimana, e in alcuni casi anche di più. Una novità assoluta per noi, che inizialmente abbiamo tamponato chiedendo supporto alla nostra animatrice, predisposta sia per carattere che per cultura generale e per età a gestire gli strumenti digitali e a supportare gli altri. Progressivamente le abbiamo fatto formare una parte dei nostri OSS. E poi devo dire che la nostra pagina Facebook ha contribuito moltissimo a farci da canale di comunicazione tra dentro e fuori; abbiamo organizzato molte dirette social e anche questo ci ha permesso di tenere vivo il rapporto con le famiglie e con la comunità. La pagina è aperta da oltre cinque anni e lo dico perché questo aspetto ci ha permesso di avere un vantaggio prezioso: bisognerebbe sfruttare le risorse del digitale e non farsi trovare impreparati”.
Chiusa l’intervista, sono andata a verificare la pagina Facebook del Ceci e in effetti è altissimo il livello di interazioni e di commenti, il calore da fuori verso dentro e, dettaglio non da poco, nessun tenore polemico o risentito nonostante il lutto legato al recente decesso di alcuni ospiti. A conferma che, quando si lavora bene, anche davanti alle tragedie è giusto non confondere le responsabilità.
Torniamo alla questione dei costi e di cosa comporti, in termini di bilancio, affrontare un anno come il 2020 per una casa di riposo. “Avendo superato il 2020 indenni dal COVID-19, in base ai criteri previsti dalla Regione Marche a supporto dei maggiori oneri, tutto sommato la somma che ci era stata comunicata – circa 120.000 euro – ci era sembrata una copertura importante per dare risposta a cosa aveva voluto dire mettere in sicurezza ogni cosa e ogni passaggio. Abbiamo sostenuto spese davvero impensabili fino all’anno prima in materia di DPI e personale, quasi un coefficiente di dieci a uno. Proprio in queste ore invece il dibattito tra noi gestori è molto caldo perché, della tranche relativa al secondo semestre 2020, la regione al momento ha garantito solo 38.000 euro degli 80.000 previsti. Si è riservata di integrare non appena verranno intercettati altri fondi, ma la nostra preoccupazione resta alta, tanto più per noi che al Ceci abbiamo incontrato il COVID-19 da febbraio e quindi sappiamo già di dover sostenere costi e gestioni ancora più onerosi. Ma la sofferenza maggiore, nelle Marche come in buona parte d’Italia, è la carenza di infermieri”.
“Il nostro Comitato degli enti gestori sta portando avanti una diatriba con la Regione Marche in questo periodo perché c’è in corso una guerra tra poveri: sia le strutture private come la nostra sia le regioni hanno necessità di personale infermieristico e, quando la regione apre le porte con bandi pubblici, proprio come è successo a febbraio nelle Marche, inevitabilmente sa di prelevare quel personale da strutture private già in sofferenza come la nostra. So bene che la regione ha diritto e dovere di riorganizzare al meglio i suoi organici, ma deve essere consapevole del meccanismo malato di base. Noi da sempre siamo in contatto con scuole e università per intercettare gli infermieri ancor prima che chiudano il corso di studi, ma la questione di fondo è più complessa: si sarebbe dovuta fare da tempo una programmazione scolastica di lungo periodo, perché non si può lavorare sempre in emergenza e si sapeva da tempo quanto la sanità fosse in sofferenza.”
“Negli anni passati si era pensato che razionalizzare il sistema degli ospedali pubblici volesse dire ridurre i posti letto e di conseguenza, e in proporzione, ridurre il personale: non era affatto così. E ora che il sistema pubblico ha bisogno di reintegrare d’urgenza, farà leva sul fatto che un posto di lavoro nel pubblico sarà sempre più attrattivo che nel privato. E allora, ad andare in emergenza, saranno strutture come le nostre”.
Photo credits: Tiago Muraro on Unsplash
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