Bologna da qualche tempo è anche il palcoscenico su cui si sta svolgendo la drammatica rappresentazione di una delle più importanti aziende del territorio: il colosso Unipol, che impiega più di diecimila persone. Da quando l’Amministratore Delegato Carlo Cimbri ha deciso di rilasciare al Sole 24 Ore un’intervista illuminante in cui ha dichiarato che “lo smart working non è la nuova normalità”, richiamando in ufficio tutti i dipendenti, le notizie negative sull’azienda bolognese si moltiplicano al punto tale che si ha il sospetto che vengano volutamente programmate come se ci fosse un calendario editoriale delle gaffe.
C’è difatti da chiedersi quale sia il senso di certe decisioni del tutto autolesioniste, considerando – nel caso specifico – che in Unipol lo smart working è stato utilizzato per oltre quattro anni dai dipendenti, fino a pochi mesi fa, e questo non ha impedito di raggiungere i migliori risultati di sempre, superando abbondantemente il miliardo negli ultimi due anni.
Non siamo vergini vestali per ignorare il fatto che Unipol non è la prima né sarà l’ultima azienda che rimastica “valori” e “attenzione alle persone”, salvo rivelare ben altri scenari. Il mondo imprenditoriale italiano è ricchissimo di esempi di lungimiranza di questo genere, fra aziende e imprenditori a cui la pandemia non ha insegnato nulla.
Tuttavia, è anche vero che ogni azienda privata ha il diritto di definire la sua strategia e di raccoglierne benefici e conseguenze.
Al momento pare però che le conseguenze siano superiori ai benefici, perché se già le dichiarazioni dell’AD di Unipol erano state ribattute dappertutto offrendo l’immagine di un pensiero manageriale profondamente retrogrado, a complicare il tutto ci si è messo l’ufficio del personale, che – su sollecitazione dei sindacati di fronte alle rimostranze dei lavoratori – ha proposto un’ipotesi di settimana corta che corta non è, in alternativa allo smart working. E anche qui si è aperta una crepa, poiché, per non si sa quale logica punitiva tipica di certe direzioni del personale che amano il confronto conflittuale costante, la proposta della settimana corta di Unipol prevede 4 giorni lavorativi di 9 ore l’uno per liberare il venerdì. E laddove qualche dipendente non riuscisse a garantire le nove ore settimanali, deve comunque recuperarle.
Già di per se la proposta non ha alcun senso logico se configurata in un contesto sociale e lavorativo in cui, dopo la pandemia, le Persone hanno obiettivi molto diversi e una considerazione del lavoro meno totalizzante rispetto a prima, impegnando molte aziende nella revisione di politiche del personale non più attuali (almeno quelle che sono atterrate nel Nuovo Mondo) e a elaborare programmi di attrazione e fidelizzazione più convincenti. Chiedere ai dipendenti di lavorare un’ora in più al giorno non solo è controproducente per l’azienda, che avrà collaboratori già sfiniti da otto ore di riunioni, videochiamate, processi e gestione ordinaria di un business non particolarmente creativo né innovativo, ma non risolve le necessità di genitori o di chi ha qualcosa da fare “oltre al lavoro”, perché quando esci dall’ufficio alle 19,30 la vita ormai è già passata.
Così non solo alimenti la scarsa produttività, ma anche l’insoddisfazione generale; non credo ci voglia un genio per capirlo.