Vado via. Non felice, ma vado via

In seguito alla “lettera di una ragazza che sogna un posto di lavoro più umano“, pubblicata un paio di settimane fa, abbiamo ricevuto tante risposte e messaggi di vicinanza in cui altri lettori di SenzaFiltro hanno voluto condividere con noi e con la lettrice la loro situazione. Rob: “Contava più la presenza e la totale […]

In seguito alla “lettera di una ragazza che sogna un posto di lavoro più umano“, pubblicata un paio di settimane fa, abbiamo ricevuto tante risposte e messaggi di vicinanza in cui altri lettori di SenzaFiltro hanno voluto condividere con noi e con la lettrice la loro situazione.

Rob: “Contava più la presenza e la totale abnegazione alla società

Dopo molti anni passati nel reparto amministrativo in una società multinazionale mi è stato chiesto di ricoprire un ruolo tecnico vista la crisi aziendale e la mancanza di fondi per nuove assunzioni facendo passare il cambio di ruolo come un opportunità di crescita e investimento sulla persona.

Mi sono ritrovato a lavorare dalle 10 alle 12 ore al giorno senza straordinari con un inquadramento da segretaria (come indicato sul documento ufficiale depositato) con dovuta reperibilità non pagata anche fuori orario, senza possibilità di avere smart working al contrario delle disposizioni aziendali.

Ero alle dipendenze di un manager per cui contava più la presenza e la totale abnegazione alla società che l’effettiva urgenza o priorità. Il work balance era un miraggio come gli incoraggiamenti e i riconoscimenti per il lavoro svolto.

Situazione segnalata più volte al reparto HR, con loro relativo ridimensionamento dell’accaduto e colpevolizzazione del sottoscritto. Al momento delle mie dimissioni invece di domandarsi il motivo della mia decisione sono state fatte ancora più pressioni, indicando come la società avesse investito fiducia nella mia figura ed economicamente in tempo formativo speso (mai avvenuto).

Spero che questa mia testimonianza possa essere oggetto di riflessione per i vostri lettori

Marco: “Il concetto di emergenza è diventato fin troppo abusato

Mi rifletto molto nelle parole di quella ragazza, in quanto anch’io, come suo coetaneo, trovo incomprensibile come possa essere accettato e scontato dedicare la propria esistenza al lavoro a discapito della propria vita privata, sia in termini di tempo che di salute mentale.

Complice i miei avvenimenti personali, nonché il pugno imprevedibile derivato dalla pandemia mondiale, ho raggiunto la conclusione che non c’è risorsa più inestimabile a nostra disposizione del tempo. Sto rivalutando il mio concetto di futuro e mi sto concentrando più sul vivermi il presente, modus operandi che mi ha portato a fare delle considerazioni sul mondo del lavoro di oggi.

Ho 28 anni e posso vantare 8 anni di esperienza lavorativa. Mi posso ritenere fortunato: non ho dovuto patire le angherie dei superiori, non sono stato soggetto a soprusi di nessun tipo e posso affermare di essermi trovato tendenzialmente bene nei contesti aziendali con cui sono venuto a contatto. Mi tormenta solo un pensiero, che trovo comune e costante a tutte le generazioni che si sono avvicendate nel mondo del lavoro: dare per scontato e giusto immolarsi per il lavoro.

È diventata ormai consuetudine diffusa ed accettata scendere a compromessi a causa del lavoro, in quanto considerata una risorsa rara che permette l’accesso ad una fonte di reddito, ormai idolatrato quasi fosse un elemento elargito per concessione divina.

È quotidiano patire ore nel traffico per raggiungere una scrivania, mangiare qualcosa in fretta e furia oppure saltare direttamente il pranzo, rimanere in ufficio fino ad orari impropri e “rimanere sul pezzo” nel weekend e in ferie per rispondere alla e-mail o chiamata “urgente”.

Il concetto di emergenza è diventato fin troppo abusato e ormai non ha più l’accezione originale che dovrebbe avere. Finora l’unica situazione straordinaria che ha richiesto un approccio non convenzionale è stato il Covid, che ha infranto i meccanismi precedentemente considerati intoccabili. Nella negatività che ha scatenato questo evento a livello mondiale, pensavo che l’unica svolta positiva potesse avvenire a livello lavorativo, con un risveglio collettivo che mettesse in evidenza i limiti di questo modello malato che inevitabilmente schiaccia la nostra vita personale.

Nella maggior parte dei casi, è stato uno specchio per allodole, dato che molti stanno tornando all’impostazione dogmatica pre-Covid.

Si parla di grandi dimissioni e anch’io ne faccio parte. Dinnanzi ad un sistema così contorto, ho adottato un approccio classificabile come folle: mi sono dimesso dal mio attuale posto di lavoro a tempo indeterminato e ben retribuito senza avere una alternativa, con la speranza di trovare quel lavoro che garantisca un equo equilibrio tra vita privata e lavoro. In un mondo che richiede sempre più di dedicare anni al lavoro, è arrivato il momento di una rivoluzione culturale che permetta di riappropriarsi del proprio spazio e godersi il tempo che ci è stato concesso. Poiché non è dato sapere quanto ce ne è stato concesso, non possiamo permetterci il lusso di perderlo.

A corredo di queste mie tante parole, invito alla lettura della poesia “Ho contato i miei anni” di Mário de Andrade, che di certo può riassumere al meglio il mio pensiero.

Vi ringrazio anticipatamente per l’attenzione e la pazienza.

Susanna: “Un mix di differenti problematiche culturali

Il gruppo di cui faccio parte ha una policy di smartworking che prevede da 4 a 8 gg al mese, sulla base delle intese raggiunte individualmente con il proprio responsabile.

Il mio responsabile è l’AD, io sono l’unica donna del suo Board (donna, quarantenne e mamma di un piccolo di 3 anni!) e mi sono sentita dire che l’azienda preferisce “concedere” più di 4 giorni a chi risiede fuori regione e viaggia spesso per funzione.

Basita.

Il mio caso credo che sia un tremendo mix di differenti problematiche culturali.

Silvia: “Non c’è coerenza fra come le aziende si promuovono su Linkedin e come operano davvero

Seguo da qualche mese la vostra attività e vi scrivo per segnalare la grande distanza che c’è oggi in Italia tra la comunicazione di auto promozione che le aziende fanno su Linkedin e il clima che realmente c’è all’interno, almeno per quello che riguarda il mio caso.

Il mio tempo di permanenza nell’ultima azienda è stato di 6 anni – lungo, per la media del posto.

Il problema che affrontavo ogni giorno era il costante clima di urgenza, accompagnato alla totale assenza di programmazione e pianificazione del lavoro.

I processi di delega, l’organigramma, l’assetto aziendale, l’assegnazione delle competenze avevano una variabilità sorprendente, spesso non comunicata a chi svolgeva un ruolo operativo. Non erano previsti percorsi di crescita interni, così come non c’erano canali d’ascolto e di gestione dei conflitti interni.

La difficoltà maggiore che ho incontrato è stata di clima, o relazionale – ed è la cosa che mi ha turbata di più: non c’erano canali d’ascolto o di gestione del conflitto – o meglio quelli che c’erano erano puramente a scopo manipolatorio contro chi riportava una difficoltà lavorativa, sollevava un feedback sulla fattibilità o proponeva un metodo di lavoro alternativo o una strutturazione di processo, un’allocazione di risorse. Se sollevavi obiezioni eri polemico, non collaborativo, non eri capace di fare quello che stavi facendo. Così in molti finivano per non sollevare più nessuna questione. Quelli che col tempo si facevano silenziosi erano quelli etichettati come non collaborativi.

Si faceva quello che decideva il capo, se era disfunzionale si finiva il lavoro, si andava a sbattere contro un muro e poi si ricominciava da capo: i tempi di consegna finali non venivano ovviamente riprogrammati, neanche se bisognava ricominciare più di una volta, all’interno di un ritmo di per sé già molto alto.

La rete di collaborazione interna era del tutto insufficiente, tutti propendevano per una parola in meno piuttosto che una in più, moltissime lamentele sottocoperta, un silenzio di piombo e una pesante diffidenza reciproca in superficie – o i classici argomenti rifugio: le chiacchiere sulla famiglia, i bambini, le vacanze. A casa mi hanno insegnato a chiamarla ipocrisia – ma del resto io avevo guadagnato l’etichetta della persona polemica.

Si comunicava solo a voce, o via chat, meglio con i vocali, così non restavano tracce.
Lo sport preferito era la caccia al colpevole: una scenata al capro espiatorio risolveva ogni problema.

In quest’ultima azienda il mio sforzo costante è stato quello di costituire un gruppo inclusivo, paritario, basato sulla fiducia reciproca che lavorasse in maniera trasparente e affidabile. Per un po’ ci sono anche riuscita. Ma forse uno scoglio davvero non può arginare il mare. Anche la stanchezza ha fatto la sua parte.

Quest’esperienza mi ha regalato un disturbo da stress post-traumatico sotto la soglia della cronicizzazione. 

La situazione è sottile, perché non passavo una eccedenza di ore in azienda e avevo un contratto regolare. Mi sono accorta che ci sono delle situazioni in cui questi fattori non bastano: forse è da considerare con accuratezza cosa succede nelle 40 ore settimanali che uno passa in azienda.

In questi mesi quello che leggevo sui canali social dell’azienda da cui sono uscita (Linkedin) era una martellante comunicazione su quanto ci tenessero alla salute delle persone, su quanto fosse importante il gruppo, l’inclusività, la professionalità, il valore da dare alle persone.

Excusatio non petita accusatio manifesta, avrebbero detto secoli fa. Ma adesso il latino non lo conosce più nessuno, bisogna essere veloci, smart – bisogna cambiare tutto (perché niente cambi?).

Altro aspetto della comunicazione aziendale che trovo spessissimo sono i ritornelli sulle soft skills: bisogna essere collaborativi, saper delegare, essere flessibili, sapersi adattare, saper negoziare, essere assertivi, essere resilienti – con un sacco di guru pronti a insegnartelo. Insomma se le cose non vanno bene dev’essere per forza colpa tua. Va bene, ma in quale scenario? E davvero l’essere in questo modo può risolvere le mancanze di un clima aziendale non accudito, non curato a monte?

Altra riflessione: se tutte queste qualità ci si aspetta che vengano agite dal basso, la prospettiva può essere semplicemente quella di trovare lavoratori a cui basti semplicemente stare zitti in cambio di uno stipendio da portarsi a casa? Insomma: a furia di sviluppare soft skills – ormai quando ci prendono in giro è davvero facile che ce ne accorgiamo.

Mi resta un grosso punto interrogativo sui tanti lavoratori che si caricano sulla schiena un compromesso così pesante sul piano del riconoscimento della propria professionalità, dell’essere soggetti che agiscono il proprio lavoro, oltre che risorse operative. Questa coscienza del nostro lavoro, la stiamo perdendo, la stiamo schiacciando aspettando che muoia il nervo che causa il dolore, è una coscienza che non ci parla più? Ci penso spesso.

Ora ho 41 anni, mi sto formando per fare altro, sono una donna, non sono alta, non porto i tacchi: in Italia non è una combinazione promettente ma nel mio lavoro il cambiamento è una costante e la capacità d’impegnarmi mi ha sempre fatto superare gli ostacoli.

Io sto andando da un’altra parte, fortunatamente. Ma le medie aziende italiane, dove stanno andando? E se una direzione ormai c’è, la stanno perseguendo davvero?

Grazie per l’occasione che mi avete dato – o che mi sono presa – di raccontare questa storia piccola. Spero di non essermi dilungata fino a perdervi.

Buon lavoro,

Chiara: “Vado via. Non felice, ma vado via

Mi laureo a 24 anni con una laurea magistrale in economia. 20 gg dopo la laurea inizio uno stage. Dopo qualche anno e qualche esperienza e vari tempi determinati, approdo quasi per caso in una delle multinazionali più famose al mondo, a 20 km da casa. A 30, anni.

Rimango lì per quasi 9 anni lavorando in due dipartimenti diversi: 6 anni al finance e 3 al commerciale. L’ultima esperienza è  davvero quello che avevo sempre sognato. nonostante gli orari. Nonostante l’avvicendarsi di capi. Nonostante tutto.

Per quanto riguarda la qualità della mia vita probabilmente in quel periodo (ma devo dire anche per qualche periodo al finance) peggiora drasticamente con lo Smart working causa pandemia. Subentrano la mia voglia di fare sempre meglio e le richieste crescenti di fare tanto, di fare di più con budget sempre più risicati. Subentrano richieste di maggiori spostamenti una volta finite le restrizioni, subentrano vicissitudini personali. Una stanchezza fisica e mentale, una proposta di lavoro altrove con meno ore anche se a fare un lavoro che non mi piace.

Subentra la paura nel futuro di non essere in grado di tenere il ritmo. Vado via. Non felice ma vado via.

Valentina: “mi sento un pesce fuor d’acqua e mi chiedo se tutto quello che ho costruito con dedizione, passione e sacrificio valga davvero tutta questa frustrazione“.

Ho letto con attenzione la lettera della vostra lettrice che sogna un mondo del lavoro “umano” e vorrei condividere anche la mia esperienza perché vorrei dirle che non è sola.

Dopo qualche esperienza lavorativa che non mi consentiva di dare sostanza alle mie ambizioni, sono entrata a far parte di in una prestigiosa società di consulenza e da circa due anni ricopro un ruolo di rispetto e responsabilità. Quando l’ascensore del grattacielo si ferma al mio piano di riferimento, ancora stento a credere che sono arrivata fin lì e penso a quanto siano orgogliosi i miei genitori che mi hanno consentito di sognare in grande, seppur di umilissime origini. 

Ho sempre desiderato entrare a far parte di una realtà simile, in cui la buona preparazione accademica incontra la determinazione e la tenacia di giovani laureati per costruire qualcosa di unico.

La società mi ha insegnato tantissimo, sono quotidianamente in contatto con professionisti motivati e preparati, vengono erogati percorsi di formazione costanti e vengono lanciate molte iniziative di welfare aziendale. Abbiamo l’agevolazione per l’abbonamento in palestra/piscina, convenzioni varie in ambito medico, ristorazione, trasporti, servizio posta, calzolaio, lavanderia, rinnovo patente e molti altri.

I mesi corrono veloci, i miei progetti personali sono accantonati e mi ripeto che lavoro sì 12/13h al giorno, ma sto imparando tanto e in fondo nutro l’amara consapevolezza che non si può fare carriera lavorando 8/9h al giorno. Anche i miei colleghi si lamentano di lavorare molte ore, ma poi finiscono per vantarsi davanti ai nostri responsabili dell’ora a cui hanno chiuso il pc la sera prima. Come se lavorare 12h al giorno sia un vanto, non una follia.

Eppure mi chiedo quando avrò mai il tempo di tornare in palestra, di portare gli abiti alla mia lavanderia di fiducia, oppure di recarmi alla scuola guida del mio quartiere per rinnovare la patente. Mi chiedo anche quando avrò il lusso di costruirmi una famiglia senza il senso di colpa e lo sguardo pungente dei colleghi che recita “non puoi dedicarti ad una famiglia se lavori in consulenza”. Conosco addirittura giovani colleghe che hanno nascosto la gravidanza fino a quando potevano. 

Sono d’accordo con te, cara lettrice, siamo posti davanti ad un bivio: o la carriera o la vita privata. Ho tanta rabbia anch’io perché non ho traslocato n volte, investito tempo, denaro ed energie per ritrovarmi in questa gabbia dorata. Non mi va di rinunciare a festeggiare l’anniversario con il mio compagno, alle feste natalizie con i miei genitori e al compleanno di mio figlio perché la vita non torna indietro ed io voglio viverla a pieno.

Mi sento vittima di questo malato sistema aziendale in cui una presentazione power point da presentare al CdA viene paragonata in toto ad una operazione a cuore aperto. Mi sento presa in giro quando si nascondono orari di lavoro disumani dietro la concessione del lavoro flessibile. Mi sento violata nella mia sfera privata quando mi arrivano mail alle 23:00 e mi sento offesa quando da giovane donna mi viene chiesto silenziosamente di scegliere tra vita privata e carriera.

Anche io, cara lettrice, mi sento un pesce fuor d’acqua e mi chiedo se tutto quello che ho costruito con dedizione, passione e sacrificio valga davvero tutta questa frustrazione.

Concludo qui la mia risposta/sfogo alla vostra lettrice e vi ringrazio per l’attenzione che dedicate a questi temi. La sensibilizzazione è un’arma importante.

Irene: “non pensavano che una persona sarebbe stata in grado di abbandonare un lavoro solo perché non si trova bene

Carissima redazione,

leggo sempre i vostri articoli con grandissimo interesse e vi sto scrivendo perché vorrei commentare l’articolo in oggetto.

Anche io sono una ragazza di 25 anni e ho lavorato due anni in un contesto multinazionale e un anno invece in un’ impresa di medie dimensioni.

Devo dire che la mia esperienza è totalmente diversa: nella prima azienda la mia esperienza è stata fantastica: flessibilità oraria, modalità di lavoro ibrido, monitoraggio del percorso di carriera, crescita trasversale e ambiente, per assurdo, famigliare.

Riuscivo a gestire una casa, una routine, un compagno, degli hobby e delle passioni, insomma una vita colorita, per così dire.

Poi il disastro: perdo il lavoro ad ottobre 2020 per tagli al personale e mi ritrovo a dover cercare un impiego in fretta e furia, vengo perciò assunta in questa azienda immediatamente con un contratto a tempo indeterminato.

Devo dire che già dal primo giorno l’impatto è stato pessimo: azienda fantozziana degli anni ’60, mucchi di scartoffie inutili e gente che si destreggiava alle scrivanie per sembrare più “indaffarata”possibile, paternalismo, maschilismo e “boomerismo” (chi sa chi sono i boomer, capirà). Stipendio misero e ovviamente responsabilità correlate non proporzionate, devozione al “donatore di lavoro”, gente rassegnata perché “gli mancano 5 anni poi va in pensione”, scarsa digitalizzazione (contate che dovevano ancora installare la fibra), ambiente lavorativo super tossico e senso del dovere militare.

Rompersi le scatole e imprecare anche per le cose più semplici? Beh è normale, è lavoro, che ti aspettavi?

Ho iniziato lì un anno fa: ho avuto dei problemi di salute sia fisici che psicologici (burnout diagnosticato), sono ingrassata 10kg e siccome nessuno stipendio può compensare la mia salute e serenità mi sono licenziata qualche giorno fa, così di punto in bianco.

Ovviamente avevo già un piano B, non sono così sprovveduta, però devo dire che quando l’ho comunicato ci sono rimasti di stucco. E sapete perché ci sono rimasti di stucco? Perché non pensavano che una persona sarebbe stata in grado di abbandonare un lavoro solo perché non si trova bene e perché non pensavano che una pischella li avrebbe mandati a quel paese rifiutando qualsiasi rilancio di offerta. Sembravano molto impreparati a questa ribellione silenziosa.

Sono sempre stata una persona ambiziosa e voglio farmi una carriera ma con i dovuti modi e senza magari morire di infarto a 45 anni e, se devo dirvi la verità, ora sono molto serena e fiduciosa nel futuro, perché forse è possibile cambiare questo sistema malsano del lavoro. Ognuno nel suo piccolo può attuare una piccola rivoluzione e io, oggi, ho fatto la mia.

P.S. Ovviamente tornerò in un’altra multinazionale 😉

Vanessa: “se stai male ti ficchi una supposta di tachipirina su per il culo e vieni a lavorare altrimenti quella è la porta

Inizio a lavorare per questa azienda ma dopo un mesetto circa mi prende l’influenza.

Mando il certificato per 3 giorni, ma mi obbligano a rientrare in azienda dopo l’orario di lavoro per una riunione improrogabile(a detta loro. In realtà, nulla di urgente). Questo fa sì che peggiori la mia situazione e si rendono necessari altri 3 giorni. Al mio rientro, come una furia entra nella mia stanza e – testuali parole – mi dice: “tu sei una stronza, in questa azienda non è contemplata la malattia, se stai male ti ficchi una supposta di tachipirina mille su per il culo e vieni a lavorare altrimenti quella è la porta”.

Io rimasi sconcertata e infatti a distanza di 2 anni ricordo parola per parola quello che mi ha detto. 

Ogni giorno ha qualcosa da dire, se non a me a qualcun altro, ma in particolare con me e altre 2 colleghe è veramente cattivo. Due settimane fa ho chiesto un incontro con lui alla presenza della responsabile delle risorse umane, volevo capire o cercare di farlo, come si sia arrivati a questa situazione. La sua risposta è stata “perché sei una stupida, una cretina e una testa di cazzo”.

Mi giro verso la collega hr e lei mi fa “eh carla però anche tu cerca di abbassare i toni”. Io non avevo ancora nemmeno parlato, avevo solo posto la domanda.

Ha iniziato a gridare che mi avrebbe cacciato e ho detto: “magari, mi mandi via, almeno cerco altro e prendo la naspi”. Da lì altri insulti e la collega che inizia a minacciarmi: “il nostro avvocato conosce una formula che se la mette sulla lettera di licenziamento, tu non prendi la naspi”.

Ovviamente ho risposto che non sono così stupida da cadere in queste provocazioni, conosco i miei diritti e non mi spaventano le loro minacce.

Siamo spiati, ci sono microfoni ovunque qui.

Un giorno mi confidavo con una collega in merito ad un problema economico che mi ha creato il mio ex marito, dopo mezz’ora vengo chiamata da lui che inizia a dirmi che le donne della mia età sono stupide perché vanno appresso a uomini che si approfittano di loro ma che se mi fossi comportata bene (nel suo gergo vuol dire lavorare oltre l’orario di lavoro gratis) mi avrebbe riconosciuto qualche bonus per aiutarmi.

Ovviamente ho declinato la cosa; noi qui lavoriamo dalle 8 alle 18 dal lun al ven e dalle 8 alle 13 il sabato.
Facciamo 56 ore a settimana e per lui sono troppo poche. Rifiuta permessi, io sono una madre e ho dovuto delegare ad altri alcuni episodi (visite mediche per mia figlia che ha una malattia autoimmune).

Potrei raccontarvi storie per ore e non avrei comunque detto tutto.

Spero che questa mia testimonianza possa essere utile per i vostri approfondimenti sul mondo del lavoro.
Io lavoro da quando ho 25 anni, ho lavorato all’estero alcuni anni, ho visto tante aziende, ma una cosa così, giuro, mai.

Grazie.

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