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Vista dall’Europa, l’economia italiana è verde pallido
Negli ultimi anni, in particolare dopo la crisi del 2008, numerosi studiosi, operatori economici, esponenti della società civile ritengono che puntando su educazione, salute, ricerca e trasformazione ecologica dell’economia e della società, in particolare in campo energetico, sarà possibile rilanciare la competitività. Questo rappresenterebbe una risposta sia alle sfide che rappresentano la scarsità delle risorse, che dei […]
Negli ultimi anni, in particolare dopo la crisi del 2008, numerosi studiosi, operatori economici, esponenti della società civile ritengono che puntando su educazione, salute, ricerca e trasformazione ecologica dell’economia e della società, in particolare in campo energetico, sarà possibile rilanciare la competitività. Questo rappresenterebbe una risposta sia alle sfide che rappresentano la scarsità delle risorse, che dei cambiamenti climatici e della persistente permanenza di miliardi di persone in situazione di estrema povertà o esclusione sociale.
Ormai parecchi anni fa, nel febbraio 2011, l’UNEP (Il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) pubblicava un documento dove si dimostravano tre fatti: la riconversione verde produce crescita di PIL, crea più occupazione di quella che viene persa nei settori tradizionali, è più efficiente nella conservazione del patrimonio naturale – rompendo la tradizionale contraddizione fra ecologia ed economia- e nella lotta alla povertà.
Concretamente, il modello di business fondato sull’eco-sostenibilità tocca numerosi settori, dall’energia, all’agricoltura, ai trasporti, all’edilizia, alla gestione delle aree naturali, al turismo sostenibile, alla cultura e l’arte, ai servizi urbani (rifiuti, assistenza sociale, urbanistica, acqua) e dispone di un potenziale di crescita molto importante. Comprende anche lo sforzo per riconvertire l’industria manifatturiera matura, o energivora, dall’auto alle acciaierie e all’industria chimica. Basti pensare che per fare una pala eolica ci vuole tanto acciaio come per fare 500 auto. Il settore edilizio, poi, sta trovando nuova linfa nei progetti di efficientamento energetico (EE) del patrimonio abitativo, che è per ora riadattato ai nuovi standard solo per un misero 1% all’anno: un vasto piano di investimenti in questo settore, finalizzato ad aumentare del 40% l’EE entro il 2030, potrebbe ridurre del 40% le nostre importazioni di gas, renderci meno dipendenti da Putin e sceicchi e creare fino a due milioni di posti di lavoro, secondo studi ufficiali commissionati dalla UE.
Si tratta anche di settori “intensivi” in forza lavoro: il caso più evidente è sicuramente la Germania. Dal 2004 ad oggi i lavoratori occupati direttamente nel settore delle rinnovabili sono oltre 370.000, mentre l’uscita dal nucleare interessa “solo” 38.000 posti di lavoro.
Quanto all’Italia, circa 120.000 lavoratori dipendevano fino al 2012 dall’industria delle rinnovabili. Questo vero e proprio boom è stato certo aiutato da incentivi e sussidi, rimasti comunque al di sotto di quelli percepiti dall‘industria fossile direttamente e indirettamente: e infatti, la percentuale “verde” delle misure anti-crisi del governo italiano, nonostante le promesse di un fantomatico Green Act, rimasto per ora lettera morta, rappresenta un misero 1,3% contro il 13% della Germania.
Stesso discorso vale per altri comparti della green economy. Ad esempio, l’agricoltura sostenibile e biologica è una fonte di occupazione qualificata, produce in media un reddito maggiore per i lavoratori rispetto alla tradizionale agricoltura industriale e una fattoria “biologica” è più intensiva in termini di occupazione di circa un terzo. La trasformazione dell’imprenditore agricolo da produttore di “materia prima” a fornitore di un cibo di qualità e fortemente legato al territorio e sta avendo un impatto importante sul mondo agricolo italiano, sebbene non ancora sufficiente a limitare un trend negativo in termini di redditività del lavoro, dovuto alla pressione della distribuzione e alla cattiva organizzazione del mercato.
Questo shift si verifica peraltro in assenza di un reale incentivo economico pubblico, visto che solo da poco la PAC ha iniziato un discorso di valorizzazione dello sviluppo rurale e delle produzioni di qualità, che rimane comunque ancora marginale nel quadro dei sussidi e contributi europei. In ogni caso, è bene ricordare che l’Italia è il primo paese UE per numero di operatori del biologico e per ettari coltivati (escludendo boschi e pascoli) e che nel 2010 si è verificato un aumento dell’11% nella vendita di prodotti biologici confezionati.
Dalle considerazioni svolte finora, si potrebbe ritenere che la svolta “verde” dell’economia italiana ed europea sia una scelta logica ormai a portata di mano, dati gli evidenti vantaggi a livello di occupazione, di crescita sostenibile, di controllo di emissioni e inquinamento e di miglioramento della qualità della vita. Purtroppo non è così che avviene nel concreto.
Eppure c’è ancora una maggioranza di decisori politici ed operatori economici che sono convinti o hanno interesse a sostenere che per essere competitivi basti ridurre il costo del lavoro e le tasse sulle imprese, tagliare norme ambientali e vincoli, e non invece fare scelte precise di qualità e sostenibilità dell’attività economica. Per costoro, la crisi ha funzionato da potente alibi per evitare di mettere in questione il modello economico vigente e per sottolineare i costi del cambio piuttosto che quelli del business as usual.
La svolta verde, insomma, non è ancora irreversibile: ha bisogno di investimenti, di una ferma direzione politica, di un quadro normativo chiaro, soprattutto a livello europeo, data l’importanza di poter agire in un contesto vasto e capace di avere un impatto anche sulla scena internazionale.
Tutti elementi questi che sono assenti dal dibattito italiano, basti pensare alle folli politiche messe in atto dal governo dal 2012 in poi, con un atteggiamento punitivo nel settore delle rinnovabili, una persistente distrazione nei confronti dell’efficienza energetica, e il parallelo rilancio di trivelle, autostrade e inceneritori. Politiche miopi, poi, hanno distrutto più della metà dei posti di lavoro esistenti nel 2012 nel settore rinnovabili, scartando a priori opportunità di bonifica e riconversione professionale, che alla lunga costerebbero sicuramente di meno che continuare a buttare soldi pubblici in settori morenti e inquinanti.
Le cose non vanno molto meglio in Europa, resa impotente dal contrasto tra austerità, dalla disputa sui migranti e dalle lobby fossili. Basti pensare che è molto probabile che l’UE non riuscirà a ratificare l’Accordo di Parigi sul clima prima di USA o Cina: situazione impensabile solo pochi anni fa. Anche l’Italia gioca oggi un ruolo di retroguardia nella discussione sulle nuove regole europee che saranno proposte quest’anno e che ridisegneranno tutta la politica energetica europea, dalle rinnovabili, allo scambio di emissioni, all’efficienza energetica, all’economia circolare.
Per guardare al futuro, oltre ad assicurarsi che il round di nuove leggi europee mantenga un livello sufficiente di ambizione, possiamo sostenere la strada di ridurre drasticamente i sussidi alle fonti fossili e accompagnare il processo già in atto di disinvestement, introducendo la carbon tax e spostando risorse pubbliche verso innovazione e sostenibilità, per cogliere l’enorme potenziale che rappresenta la transizione energetica per la creazione di nuove attività economiche e di nuova occupazione di qualità.
Lo ha sostenuto mercoledì scorso l’amministratore delegato di TESLA, da tempo lo auspica l’IEA e lo asserisce perfino la Banca Mondiale. Occorre, insomma, una grande alleanza tra operatori economici nuovi, società civile e politica responsabile per battere il vecchio che ancora controlla buona parte delle leve del potere. Per adesso, siamo ancora in mezzo al guado, con un pericoloso rischio di scivolamento all’indietro. Riprendere il cammino giusto è una sfida per tutti.
[Credits Foto: Accordo sul clima, Parigi, 2015 – Internazionale]
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