Questo articolo è un estratto della rivista Italia che vieni, Italia che vai, di febbraio-aprile 2025.
Fabio Di Giammarco ha sangue al 100% italiano, ma è cresciuto in Venezuela. Poi una lunga esperienza fra Brasile e Argentina, e adesso in Italia, come AD di Bauli. In questa intervista, che troverete anche nella nuova uscita della rivista cartacea di SenzaFiltro, Italia che vieni, Italia che vai, ci parla delle differenze di visione sul lavoro dell’Italia rispetto al resto del mondo.
In che famiglia sei cresciuto?
Il Sud America ha visto un’immigrazione massiccia, prima negli anni Venti e poi dopo il 1950, subito dopo le due guerre. Sono stati tanti gli italiani che scappavano dalla fame con le loro famiglie per cercare un lavoro in questi Paesi. Sono cresciuto in un ghetto italiano con nonne e zie con i valori tipici delle famiglie, molto uniti in quel destino comune. L’italiano è stata la mia prima lingua, che poi si è diluita fino a diventare la quarta, perché vivevo in spagnolo, ho sempre lavorato in inglese, in Brasile ho imparato il portoghese e l’italiano l’ho dovuto rispolverare quando sono tornato in Italia.
L’Italia ti ha visto in due momenti diversi della tua vita. Arrivare, e poi andare via…
Ero venuto in Italia a trent’anni. Ho lavorato in Danone quando ancora aveva i biscotti Saiwa, per quasi quattro anni, in un’altra fase della mia vita, e devo dirti che in quella fase ho deciso di tornare via.
L’Italia ti stava stretta?
Ho percepito tante cose che adesso ho realizzato meglio e che mi fanno capire come l’Italia possa essere un ambiente ostile per un giovane che vuole crescere, perché in tanti ambiti c’è una forte gerontocrazia che fa valutare le Persone in maniera diversa da altri Paesi.
Ritieni che in altri Paesi i giovani siano più considerati?
All’estero si dà più spazio per sperimentare, si offrono occasioni per andare all’estero perché si ritiene che siano esperienze che ti permettono di acquisire punti di vista più ampi. In Italia si valutano l’età, i capelli bianchi, che non necessariamente significano aver fatto esperienze.
Secondo te perché c’è questo schiacciamento dall’alto verso il basso?
La mia ipotesi è che il mercato del lavoro sia molto rigido, e questo non aiuta lo sviluppo dal basso. Inoltre l’Italia è l’unico Paese dove ho lavorato in cui c’è un riferimento costante al momento della pensione. Un tema molto più vivo in Italia che in altri posti, dove invece c’è una successione naturale e le Persone tendono ad avere sempre nuove motivazioni. Qui invece si portano le Persone a non avere più nulla da dare; strizzate come limoni, si siedono ad aspettare qualcosa. E quel qualcosa è il momento della pensione.
Non mi aspetto un punto di vista così critico da chi come te ha un background profondamente Corporate. A meno che anche quegli ambienti che si definiscono “internazionali”, in realtà, siano solo succursali italiane – con mentalità italiana – di aziende estere.
Un’azienda straniera dovrebbe promuovere una cultura diversa, seppure nel rispetto del luogo in cui agisce. Purtroppo in tutte le aziende in cui sono passato, da Philips a Danone, quando si parlava dell’Italia si faceva sempre riferimento a una mentalità “diversa” in cui è più difficile motivare anche i giovani, che spesso lamentano di non avere spazi. E allora gli proponi di fare un anno e mezzo in Francia, di aiutarci a integrare un’acquisizione o a gestire una filiale, e puntualmente ci si trova di fronte a ostacoli famigliari o culturali (il clima, il cibo buono, le abitudini). Tutti valori rispettabili, che però sono incoerenti con un sistema competitivo come sono ormai tutte le aziende multinazionali, che hanno sempre più bisogno di questi dinamismi e di questi stimoli.
Il tema del campanilismo è molto forte. Nelle mie selezioni spesso faccio fatica a far spostare anche manager in ruoli importanti dalla loro città, perché pensano che in città più piccole “perdano” qualcosa. I milanesi fanno lunedi-venerdi, poi devono tornare a casa.
Il manager milanese si può paragonare a quello di New York (con le dovute proporzioni): la capitale commerciale del Paese. Ma a differenza dei milanesi, gli americani non hanno problemi a trasferirsi.
È la seconda volta che parli di mobilità. È un valore così importante? E soprattutto, è solo un tema di logistica, o anche di ruolo?
Soprattutto all’inizio della carriera, fare la gavetta e più esperienze possibili è fondamentale. Più “stretch” io faccio nella mia funzione (per esempio, dal marketing fare un’esperienza nelle vendite), più me lo posso poi rivendere come un valore aggiunto. Se sono a New York e mi mandano a fare un’operazione commerciale in California è un’esperienza che viene pagata, perché viene riconosciuta. Sono metodi di valutazione molto diversi, e le differenze le ho ritrovate tutte rientrando in Italia dopo trent’anni. Con l’aggravante che non c’è la cultura di passare da un dipartimento all’altro. Ma dove è scritto che non si può fare?
Nella testa degli imprenditori e degli HR.
Esatto. Dopo trent’anni che mancavo dall’Italia trovo Bauli, una realtà molto statica che rappresenta per me una grandissima opportunità di riuscire a rompere questi schemi tipici del mercato italiano. Entravo al mattino e vedevo le persone che tiravano fuori questo badge e facevano la famosa “timbratura”, poi li vedevo uscire a pranzo e ritimbravano, poi rientravano dal pranzo, poi uscivano la sera e timbravano altre due volte. Mi sono domandato: “Ma cosa stiamo facendo? Di cosa abbiamo paura?”. Qui non si tratta di applicare le regole, ma di avere paura che qualcuno ti freghi. La fortuna e il beneficio di aver visto altre realtà fa capire che queste dinamiche non esistono; se non hai fiducia devi cambiare singole persone, ma non è creando meccanismi di micro-controllo come se stessimo su una linea industriale degli anni Trenta che facciamo la differenza. Sono le piccole cose che fanno la differenza, e se non ti fermi a fare domande non le cambierai mai. Oggi il lavoro da remoto ci permette di accogliere competenze dalla Lombardia o dall’Emilia, e non mi interessa quante volte vengono in ufficio. Chiedo a loro quanto gli serve per portare risultati e valore e mi guardano con gli occhi spalancati, perché non sono abituati a ricevere fiducia.
Riesci a trasmettere questi concetti e a far conoscere i risultati anche all’interno di altre aziende, con i tuoi colleghi?
Sto iniziando a farlo; sono stati due anni in cui mi sono concentrato sui tanti cambiamenti di Bauli sia a livello culturale che di prodotto, ed è incredibile la reazione quando parli di questi concetti apertamente; vieni visto quasi come un alieno.
Poi sentono anche che non hai l’accento veneto.
Esatto, i veneti sono gran lavoratori, e il mantra qui è “lavorare duro”. Quando sei venuto qua con i tuoi studenti per il MUSTer (il master di FiordiRisorse che si svolge dentro le aziende, N.d.R.), hai visto che oltre ai valori noi abbiamo introdotto anche gli “even over”, i “piuttosto che” che mettono in crisi i modelli tradizionali: “Speed even over perfection”, che vuol dire: Andiamo veloci adesso che dobbiamo cambiare l’azienda piuttosto che essere perfetti; forse non sarà tutto al 100%, ma va comunque bene; non aspettiamo di essere perfetti per fare cambiamento, iniziamo a farlo. L’altro è “performance even over hard work”, ovvero: Ci interessano i risultati piuttosto che il lavoro duro. Durante le valutazioni delle persone mi parlano di lavoratori incredibili che stanno in azienda venti ore al giorno e lavorano il fine settimana, ma io voglio solo sapere se sta raggiungendo gli obiettivi richiesti. Non mi interessa se lavora dieci ore al giorno, o dodici o quattro. Ci sono Persone più brave di me che riescono a fare il mio lavoro in meno ore, e se le fa da casa o le fa dall’ufficio, sempre che rispetti i nostri valori, che rispetti i propri colleghi, che lavori in collaborazione, a me non interessa. Guarda: tu oggi sei ad Arezzo, io sono a Castel d’Azzano, e ci stiamo capendo alla perfezione; riusciamo anche a ridere e a creare relazione. Perché questi metodi non li abbracciamo, invece di resistere? I blocchi culturali riguardano soprattutto i manager, o meglio, i capi che hanno bisogno di comando e controllo, per i quali è importante stare dodici ore in ufficio, ma non è importante sapere che cosa fai in quelle dodici ore.
Non mi sembri il classico manager italiano stressato. Come gestisci la tua giornata?
Quando mi alzo, la prima cosa che faccio – è un brutto vizio – è prendere il telefonino per vedere se c’è qualcosa di urgente, e rispondo subito. Mi piace dire al mio team: “Non vi lascerò mai una domanda senza risposta”. Sono molto veloce nel rispondere; una grazia che può essere anche una maledizione, però sono a letto in pigiama e sono già riuscito a dare risposte importanti al team. Ma poi subito dopo sono convinto di essere una persona migliore se mi occupo anche di me e della mia parte fisica. Dunque io al mattino vado a correre e faccio stretching, perché se rimandi a più tardi poi non la fai mai. Appena salgo in macchina sono connesso di nuovo, ma prima delle 10 non convoco riunioni. Arrivo prima delle 9, e in quell’oretta a porte chiuse mi prendo lo spazio per pensare. Mi serve per riflettere sulle risposte da dare, per non agire di pancia. Prendersi il proprio spazio è fondamentale. Chi vuole solo lavorare finisce per ostacolare il proprio lavoro. Siamo esseri umani e abbiamo bisogno di pause, l’ho imparato anche a costo di qualche cicatrice: se domani ti ammali, vai in burnout, stai facendo male non solo a te stesso, ma anche all’azienda. L’equilibrio è importante.
Fabio, qual è un Paese che secondo te è oggi un riferimento di innovazione non tecnologica, ma anche dal punto di vista di cultura e approccio al lavoro?
Secondo me quel Paese è l’Olanda. Ho la tentazione forte di rispondere l’America, che si sta reinventando dopo il COVID-19 e rimane il Paese di riferimento per l’innovazione, però l’America ha anche tante perversioni, e non credo che abbiano capito davvero come funzioni la cultura del lavoro. Ti dico l’Olanda perché è un Paese con una popolazione esigua, praticamente invaso dall’acqua, che ha dovuto reinventarsi tutti i giorni anche dal punto di vista geografico. Un Paese in cui, ad Amsterdam, anche chi ti chiede i soldi per strada parla tre lingue. L’Olanda aspira a essere un centro globale per il commercio sfruttando l’acqua come opportunità. Inoltre gli olandesi hanno una grande sete intellettuale, una mente molto aperta. Per non parlare delle politiche di immigrazione molto intelligenti nei confronti dei professionisti e di chi porta valore aggiunto in termini culturali o di business. Li chiamano “immigrati della conoscenza”, perché portano conoscenze nuove. Ci sono anche tanti altri segmenti di immigrati, e negli ultimi 7-8 anni politiche populiste hanno fortemente radicalizzato anche il concetto di immigrazione, però l’Olanda mi ha insegnato tanto, consapevole della sua piccolezza e del fatto che la contaminazione fosse un valore. Ho lavorato nella sede di Philips e ti dico che forse il 30% delle Persone era olandese. Il resto veniva dall’India, dal Vietnam, dal Venezuela, dall’Italia; un melting pot in azienda che poi ritrovavi nella società.
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In copertina: Fabio di Giammarco con alcuni collaboratori di Bauli. La foto proviene dal suo profilo LinkedIn