Con il rientro negli uffici, tornano ad aumentare anche gli incidenti e gli infortuni in itinere. E per le imprese arriva l’obbligo di assumere un mobility manager: vediamo di che si tratta insieme al consulente del lavoro Tiziano Sgrafetto.
Rigopiano, la morte non è bianca
All’indomani della sentenza d’appello, la nostra intervista a Mariangela Di Giorgio, madre di Ilaria Di Biase, ventiduenne morta sul lavoro nell’hotel Rigopiano. Un racconto da cui emerge tutto ciò che non traspare dalla cronaca: “L’ergastolo l’hanno dato a me”
Questo è l’aggiornamento di un’intervista pubblicata nella rivista cartacea di SenzaFiltro “Nel lavoro vince chi sfugge“, di settembre 2024.
Nessuna responsabilità del datore di lavoro per la mancata previsione del rischio da innevamento eccessivo, e del conseguente isolamento, all’interno del DVR (Documento Valutazione dei Rischi), che avrebbe permesso di gestire l’emergenza e salvare la vita di molti dipendenti e clienti.
Il processo per quanto è successo a Rigopiano il 18 gennaio 2017 – quando la valanga travolse e uccise 29 persone – continua, ma “per la responsabilità del datore di lavoro su cui avevamo puntato il dito non c’è stato il riconoscimento in questo grado di giudizio”, commenta Massimiliano Gabrielli, avvocato della famiglia Di Biase, da cui proveniva una delle vittime della tragedia.
“Resta quindi quanto era stato definito in precedenza, ossia le condanne al gestore dell’albergo e al geometra che aveva redatto la relazione allegata al permesso per la ristrutturazione dell’albergo, per i reati di falsità ideologica loro attribuiti. Sui risarcimenti in favore delle parti civili si deciderà all’esito del giudizio di rinvio”.
Nonostante non prenda in considerazione il tema della sicurezza da parte dei datori di lavoro, la sentenza della Cassazione del 3 dicembre dà indubbiamente delle speranze. Il processo continua con una versione “bis” a Perugia – probabilmente nel marzo 2025 – per i sei dirigenti della Protezione Civile della Regione Abruzzo e il sindaco di Farindola Ilario Lacchetta. Confermata anche la sentenza di secondo grado per l’ex prefetto di Pescara Francesco Provolo, condannato a 1 anno e 8 mesi per omissione di atti d’ufficio e falso ideologico, nonché quella del capo di Gabinetto della stessa prefettura per falso ideologico in atto pubblico.
“La sentenza porta con sé una rivalutazione a carico loro, porta una dichiarazione di principi sulla responsabilità dei soggetti per il reato di disastro, tutti aspetti su cui avevamo puntato. Purtroppo porta anche con sé la prescrizione dei reati di omicidio colposo, perché nel tempo necessario a fare un nuovo processo di appello saranno tutti prescritti”, chiosa il legale.
Poteva essere una sentenza storica, ma rimane una vittoria a metà, soprattutto per chi nell’hotel Rigopiano ha perso la vita mentre stava svolgendo il suo lavoro. Come Ilaria Di Biase, di cui abbiamo ricostruito la storia nel nostro reportage Chi resta dei morti sul lavoro.
Chi resta dei morti sul lavoro: la storia di Ilaria Di Biase
“Quando muore una persona, muore un mondo”. Un mondo fatto di sogni, speranze, aspirazioni, convinzioni, impegni, relazioni.
Quel mondo che pulsava e animava la vita di una ragazza di appena 22 anni, Ilaria Di Biase, è rimasto sepolto per sempre sotto metri e metri di ghiaccio e neve durante la tragedia di Rigopiano, il 18 gennaio 2017. Sono certa di non avere bisogno di ricostruire qui quanto è successo quel giorno: l’immagine della slavina, che sovrasta e distrugge l’hotel sul versante pescarese del Gran Sasso in Abruzzo, mandata in tutte le salse dai TG di quel tempo, è rimasta impressa nella mente di tutti.
Eppure quello che forse ci siamo dimenticati – assuefatti come siamo alle tragedie, comprese quelle sul lavoro – è che Ilaria, come altri in quell’hotel, è morta proprio mentre lavorava. Non esistono morti di serie A e di serie B, ma che una figlia o un figlio escano di casa per andare a lavorare e non tornino più è qualcosa che nessuna madre dovrebbe affrontare.
Perché il dolore senza fine, acuito da una giustizia che non sempre fa il suo corso, è per chi resta.
Mariangela Di Giorgio, mamma di Ilaria, lo pensa da quel maledetto gennaio e non fa fatica a confessarmelo: “Io sono morta quel giorno in cui è morta mia figlia”. La sua commozione si sente in ogni sillaba che travalica i chilometri mentre parliamo al telefono.
I vent’anni, il talento, la pasticceria. Con la montagna alle spalle
“Con tutto il rispetto, enorme, per le altre vittime, mia figlia non era lì per rilassarsi. Mentre gli altri, bloccati in montagna, ingannavano l’attesa chiacchierando, lei era in cucina a preparare i pasti per la sera. Pensava a loro e a come rendere più liete quelle ore in cui non si poteva far altro che aspettare. Era così piccola, eppure così determinata: immagini che si svegliava pure la notte per creare. Amava cucinare i dolci e da qualche tempo, oltre a cuoca, era stata nominata addetta alla pasticceria. Voleva aprirne una tutta sua”.
Mariangela ripercorre con me le tappe del breve percorso della figlia, lastricato di una volontà solida che è difficile immaginare in una ventenne: l’istituto alberghiero a Roccaraso, provincia de L’Aquila, (loro abitavano ad Archi, Chieti), le selezioni con lo chef stellato Niko Romito a Castel Di Sangro, quando rientra tra i 15 su 200 che possono accedere al prestigioso master per aprirsi le porte di una carriera tra i fornelli, lo stage a Rigopiano. “È stato Romito a mandarla lì”.
Ilaria, d’altronde, è così brava che “Roberto Del Rosso, il proprietario dell’hotel non vuole lasciarsela scappare”, continua Mariangela senza nascondere l’orgoglio per quella figlia che di offerte per altri lavori ne aveva ricevute non poche, nonostante la giovane età. “Si era diffusa la voce che fosse in gamba, e così diverse strutture, anche all’estero, l’avevano cercata, ma lei voleva rimanere qui vicino a noi”. Così vicino che a un certo punto lascia Rigopiano, a due ore da Archi, per spostarsi in una struttura a una ventina di minuti di distanza.
“Quando è venuta a lavorare vicino casa ero più tranquilla, ma lei no, non era felice. ‘Mamma’, mi diceva ‘qui sono una semplice operaia, non posso creare’. Così quando una sua collega di Rigopiano, mandata dal proprietario a chiedere a Ilaria di tornare a lavorare lì, le ha proposto di rientrare, ci siamo confrontate e le ho detto ‘Sei troppo giovane per fare un lavoro che non ti piace’”.
Strano il destino che ti fa trovare la morte proprio dove hai incontrato la passione e una certa stabilità: “Guadagnava 600 euro al mese che arrotondava con gli extra, si era comprata la macchina, aveva un fidanzato, per lei era un bel periodo, era convinta, si sentiva realizzata. Tante volte le ho detto ‘Ilaria, quando tu lavori la gente si diverte’ e lei mi rispondeva sorridendo ‘lo faccio volentieri e quando gli altri lavorano mi riposo”.
Solare, volenterosa, Ilaria, e anche attenta: “Mi diceva sempre: ‘Qui dietro c’è la montagna, non vorrei che cascasse qualche pietra’”.
L’hotel Rigopiano, un “posto sicuro” che non avrebbe dovuto esistere
Che l’hotel non dovesse essere costruito in quella località, e che per questo non fosse affatto sicuro, ce lo spiega l’avvocato della famiglia nel suo intervento a corredo di questa intervista, ma sappiamo bene come il senno di poi sia un maestro che non condivide ciò che sa finché non è più utile a nessuno.
A ogni modo, la struttura era stata costruita con criteri antisismici e aveva infatti retto ai terremoti che c’erano stati prima della tragedia. Inoltre, riprende Mariangela, “sapevo che Roberto Del Rosso (morto anche lui quel 18 gennaio, N.d.R.) ci portava anche i figli. Se un padre lo fa, pensavo, è un posto sicuro. La mia paura era solo per la strada per arrivare fin lì, Ilaria ci andava da sola e quando arrivava a destinazione mi contattava per rassicurami. Una volta che stava dentro, cos’altro poteva succedere? Il peggio era che si potesse bruciare una mano. Mai avrei immaginato una cosa del genere”.
Quel maledetto giorno, i genitori accompagnano Ilaria lasciando a casa il fratello, più piccolo di lei di cinque anni. Ad Archi il tempo è soleggiato mentre a Rigopiano “come da cinque mesi a questa parte c’era l’allerta meteo”. La madre ha una strana sensazione e prova a far desistere la figlia dall’andare: “‘Approfitta delle ferie’ le dico, ma lei è titubante: a Rigopiano ci sono 40 persone compresi i dipendenti, mi dice che non può mancare”.
Quell’ultima volta Ilaria, proprio per le condizioni meteo, parte il sabato accompagnata dai genitori e non il venerdì come era solita, e a causa della strada bloccata, anziché finire il turno il martedì, resta anche il giorno dopo. Facile pensare che il destino, o chi per lui, fosse lì a tenderle un agguato; forse lo è meno ricordarsi che a dargli una grossa mano sono stati gli umani, la loro incuria, la disattenzione, l’avidità.
“Non avrebbe dovuto esserci, ma la sera prima non è riuscita a scendere. Per me l’hotel non doveva neanche essere aperto, ma si pensava solo ai guadagni”, riprende la madre, per poi dichiarare con fermezza: “Se avessi saputo, glielo giuro, sarei andata a prenderla pure a piedi”.
Ma a Rigopiano è tutto bloccato e le persone dentro l’hotel non possono fare altro che aspettare.
Verso le 16 di quel mercoledì 18 gennaio 2017 Ilaria fa un giro di chiamate: telefona alla madre, al padre, al fratello Yury, al suo ragazzo. “‘Non possono lasciare una struttura bloccata, sicuramente puliranno, anche se secondo me questa turbina non passerà più’, mi diceva. Credo che fosse preoccupata, ma che non lo desse a vedere”.
Come sappiamo, poco tempo dopo, alle 16.49, la valanga distrugge il resort di lusso, ma la famiglia non lo viene a sapere subito. La madre le manda un messaggio che resta senza risposta, la chiama ma non c’è campo, prova su WhatsApp, la linea c’è ma Ilaria non può più rispondere. “Lì per lì non mi preoccupo, nell’hotel spesso i cellulari non prendevano e Ilaria per prendere la linea si doveva spostare. Ho pensato fosse impegnata”.
La famiglia scopre la tragedia da una radio locale
Mariangela nel frattempo apprende che c’è stata una piccola slavina, ma non ha altre notizie, e così contatta tutti: “Il sindaco, i carabinieri mi tranquillizzano, anzi ci dicono di non muoverci”. Finché alle 18 la famiglia, senza il fratello, decide di raggiungere Rigopiano insieme al ragazzo di Ilaria che, tornato da Roma, ha una panda 4×4 “più adatta alle strade di montagna”. La famiglia scopre della tragedia mentre è nei pressi di Penne, quando una radio locale annuncia “valanga all’hotel di Rigopiano, sono tutti morti” (anche se poi ci saranno undici sopravvissuti).
Mariangela prosegue il suo racconto cercando con tutte le forze di essere lucida e non far cadere le parole dentro la voragine del dolore. Ciò che succede dopo è un tunnel del quale sembra non vedersi la fine: “A Rigopiano non possiamo salire, così restiamo a Penne dove ci chiudono dentro una stanza della Protezione Civile, facendoci dormire su dei materassi per terra. Da Penne, nei giorni successivi, ci spostiamo nell’aula magna dell’ospedale di Pescara per avere notizie. È uno strazio, è tutto gestito molto male, ci arrivano sprazzi di informazioni. E quelle volte in cui sentiamo ‘ritrovato un corpo maschile’ anche se terribile a dirsi, il nostro cuore tira un sospiro di sollievo”.
La notizia del ritrovamento del corpo di Ilaria arriva dopo otto giorni e trascina con sé ogni speranza: “Ero convinta che in qualche modo si fosse riparata, era minuta, sveglia, ho aspettato fino all’ultimo”.
Tutto quello che rimane: “L’ergastolo l’hanno dato a me”
La voce di Mariangela è ora incrinata dalle lacrime e anche se non vorrei, devo farle l’ultima domanda che ne racchiude tante altre: che cosa resta di tutto questo? Che cosa resta dopo sette anni che non cancellano il dolore, che non permettono di dimenticare, e che tutt’al più regalano sprazzi di sopravvivenza?
Che cosa resta di una ragazza giovane dedita al lavoro che muore mentre lo svolge al meglio?
Resta una madre che per tanto tempo non entra nella stanza della figlia per pulirla, finché il figlio più giovane non le chiede di riaprirla. Resta un cane, Iago, che piange e in quella camera ci vuole entrare. Resta una festa di 18 anni, quella del fratello di Ilaria, che non si celebrerà mai, e un ristorante che non era stato prenotato perché il giorno della tragedia, quando i genitori tornano da Rigopiano, non c’è il proprietario del locale e viene chiesto loro di tornare la settimana successiva. Restano quelle cose che si rimandano pensando di farle nel momento più giusto, che poi non arriverà.
Resta la rabbia, che per Mariangela è un fuoco ancora acceso, indomabile. Rabbia per l’hotel costruito dove non si sarebbe dovuto, per il proprietario dal quale si è sentita tradita, e “menomale che non me lo ritrovo davanti”. Una rabbia che cede il passo a una disperazione che accompagnerà la madre di Ilaria per sempre: “L’ergastolo l’hanno dato a me”.
“Non sono più andata al mare né ho preparato la pizza in casa: era il nostro rituale”
Poi, anzi più di tutto, restano gli insegnamenti che una figlia può dare: “Ilaria era molto ottimista, mi ha insegnato ad andare avanti, a sperare in questa giustizia in cui non credo. Sono sicura che lei mi dà la forza, sento la sua presenza. I primi due anni sono stata in condizioni pietose, mi sono ‘svegliata’ perché mi stavo portando dietro mio marito e mio figlio, che giocava a tennis; oggi è maestro, allora voleva abbandonare tutto. So che Ilaria non l’avrebbe mai voluto. Era speciale. Nei giorni di riposo dal lavoro stavamo spesso insieme, facevamo shopping, io impastavo la pizza per il mercoledì sera, era il nostro piccolo grande rituale. Da quel giorno non l’ho più preparata così come non sono più andata al mare, l’ultima volta era stata con lei.
Ho tantissimi ricordi del suo amore per me, gliene dico uno tra tutti: il giorno del mio compleanno, nel 2016, per farmi una sorpresa mi ha preparato una torta meravigliosa; siccome non poteva tornare a casa abbiamo festeggiato a Rigopiano. Per me è stato un onore essere sua mamma”.
Per non dimenticare, Mariangela ha dato vita a un’associazione dal nome Ilaria Di Biase, il nostro angelo, che organizza iniziative di beneficenza per raccogliere soldi per avere più cani per unità cinofile che possano ritrovare le persone scomparse, com’è successo a Rigopiano. Nel gennaio scorso, ad Archi l’associazione ha posato una panchina bianca per ricordare Ilaria: si trova in un piccolo giardino, sotto la chiesa, dove la ragazza si sedeva con le amiche a chiacchierare.
Alla fine di questa intervista, quando chiedo a Mariangela se ha voglia di mandarmi delle foto della figlia, mi scrive: “Parlare della mia dolce Ilaria mi fa sempre piacere (tra pianti e sorrisi). Lei è sempre presente nelle mie giornate”.
Se c’è forse una cosa tra tutte che resta delle morti sul lavoro, oltre alle parole, è di sicuro questa: il coraggio di chi sopravvive.
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