La dipendenza da lavoro fa male anche alle aziende

Danni gestionali, ma anche economici: la dipendenza da lavoro rischia di rovinare i team, sviluppare leadership accentratrici e creare pericolosi effetti domino con persone che vanno via tutte insieme. Ecco cosa ci hanno detto i manager Beatrice D’Amelio, Fabio Salvi e Alessia Canfarini

14.08.2024
Dipendenza da lavoro, un professionista in ufficio a tarda ora, di spalle, da solo

Stare sotto l’ombrellone costa di sicuro a chi va in vacanza, ma restare in ufficio costa all’azienda. Le ferie non godute sono un problema delle imprese italiane, anche a livello fiscale. La dipendenza da lavoro, in sostanza, non fa bene al lavoratore, ma fa male anche all’imprenditore.

“Da noi c’è un ragazzo di 30 anni che ha maturato 80 giorni di ferie e ha difficoltà a prendersele. Riesce solo quando c’è il periodo di chiusura dell’azienda cliente. E questo è un problema non da poco: bisogna mettere da parte un gruzzolo di soldi che deve servire a pagare eventuali ferie e permessi residui.”

Beatrice D’Amelio, people & culture manager di Sensei s.r.l., racconta come avere un dipendente iper-performante (per dirla con un termine caro agli stacanovisti, o drogati di lavoro, o workaholic, o work addicted) non sempre è una cosa positiva. Continua poi: “Ma c’è anche un altro tema: quella persona non stacca mai e non possiamo permettercelo, né per quello in cui crediamo, né per non rovinare quegli equilibri che vogliamo continuare a sostenere”.

Di rado si pensa a quali possano essere i danni della dipendenza da lavoro per le aziende. Difficile quantificarli a livello economico, eppure ci sono. E non sono solo quantitativi, ma anche e soprattutto qualitativi. Senza dimenticare che la dipendenza da lavoro è contagiosa e si rischia di avallare dei modelli che, in azienda, possono causare un effetto domino in alcuni casi irreversibile.

Per capire perché nelle imprese italiane tale dipendenza sia oggi così presente, quali sono i suoi effetti e che cosa si può fare quando si incorre in tali situazioni, oltre a vedere da dove tutto ha origine, ne abbiamo parlato con tre manager: oltre alla già citata Beatrice D’Amelio sono Fabio Salvi, team lead people partner Italia e Romania di Flixbus, e Alessia Canfarini, equity partner di Bip Consulting e responsabile del centro di eccellenza Human Capital.

Dipendenze da lavoro, le aziende le premiano

Quando siamo di fronte a una dipendenza da lavoro?

“Quando il lavoro assume un’importanza tale che mette in secondo piano tutto il resto e diventa un pensiero così costante che difficilmente riesci a parlare d’altro, è un tema patologico”, spiega Fabio Salvi. “La dipendenza dal lavoro ha due fattori: da un lato c’è una predisposizione personale, magari correlata a mancanza di autostima e a carenze di tipo affettivo, rispetto alle quali la persona dipendente dal lavoro non ha avuto la capacità di avere o sviluppare un linguaggio emotivo-relazionale. Il lavoro è, infatti, una via facile attraverso cui produrre risultati e avere quella sensazione di efficacia che permette di riempire un vuoto, e di farlo in modo costante”.

C’è poi una responsabilità, non da poco, da parte dell’azienda: “Non dobbiamo dimenticare che i workaholic spesso vengono premiati”, chiosa Salvi. “Si considera brava la persona che resta in ufficio fino alle 20 e, se trasmetti questo come valore, per forza di cose gli altri vi si accosteranno. Se si associa il lavorare tanto alla promozione e al fare più soldi, di fatto si incoraggia tale atteggiamento”.

La pensa così anche Beatrice D’Amelio di Sensei: “Siamo di fronte a una dipendenza da lavoro quando il CEO, o chi per esso, non è in grado di consentire alle persone di vivere i loro naturali spazi di vita, ossia quella vita ordinaria che ognuno riempie come vuole, anche con il proprio vuoto. Se è vero che ci sono situazioni che richiedono una necessità di lavoro extra o di extra stress, deve essere un’eccezione. Il picco nel nostro mondo – che è quello della consulenza informatica – ci può essere a ridosso di una scadenza, ma se tale emergenza è continuativa siamo in un altro scenario”.

Certo, ci sono “persone che preferiscono essere dipendenti dal lavoro anziché fuori”, ma Beatrice ci fa riflettere anche su un altro aspetto: “La dipendenza può avere a che fare anche con l’eccessiva passione per quello che si fa. Questo discorso vale tantissimo per gli sviluppatori che, quando finiscono la giornata di lavoro, usano il resto del tempo per sperimentare. Il loro hobby è sviluppare codici. C’è una monotonia dell’interesse che, da counselor quale sono, reputo possa essere una bandierina rossa. Qui c’è anche un tema di energia: se mi dedico così tanto al lavoro, ma ho una vita relazionale sana e il lavoro non mi toglie energie e anzi le aggiunge, è un conto; tuttavia spesso non è così”.

La consulenza guadagna sulla pelle delle persone: un problema di filiera

Quanto al ruolo delle aziende, Beatrice D’Amelio è un po’ più tranchant: “A loro, in genere, non importa molto della dipendenza, pensano solo ai soldi, eppure un danno c’è. Devo dire che questo accade poco in Sensei perché cerchiamo di evitarlo o, quando succede, di intervenire subito. Però nel mondo della consulenza è molto frequente, anzi si dà per scontato che si lavori tantissimo”.

Di recente la manager ha tenuto dei colloqui con cinque persone provenienti tutte dallo stesso contesto lavorativo. “Professionisti che erano stati ‘venduti’ dalla loro azienda a due clienti su due progetti differenti che richiedevano otto ore giornaliere di lavoro ciascuno. La somma dà ovviamente 16, un tempo lavorativo impossibile da sostenere. Ma se si considera che ognuna di queste persone, in quanto brava, riesce a gestire ogni progetto in 5-6 ore, è evidente come non solo lavorasse più delle canoniche otto ore, ma come di fatto l’azienda, pagando loro due-tre ore di straordinario e vendendo al cliente un tempo diverso (nella consulenza di solito le persone vengono pagate a giornata, N.d.R.), di fatto guadagnasse sulla pelle dei suoi dipendenti”.

Il mondo della consulenza, in genere, ha questo “vizio di forma”, come conferma Alessia Canfarini: “Si tratta di un tipo di lavoro che ha in sé un paradosso. Da un lato, nelle indagini di clima aziendale emerge come le persone scelgano la consulenza perché le rende libere, flessibili, imparano cose nuove, allenano la curiosità. Ma quando si chiede loro qual è la cosa che soffrono di più è proprio il fatto di lavorare tanto. E questo perché un consulente è al tempo stesso un service e un advisor. Per evitare tutto ciò si dovrebbe intervenire su tutta la filiera. Non bisogna poi dimenticare che per un consulente è importante mantenere un 20-30% del tempo in cui si dedica a imparare nuove tecnologie e metodologie, senza lavorare per il cliente”.

Migliaia di euro per arginare il turnover

Quali sono i danni per le aziende che applicano atteggiamenti simili?

“Dare una quantificazione economica è difficile”, precisa D’Amelio, “ma chi lavora tanto e va in burn out scatena un effetto domino. Se è vero che ci sono persone che, per lealtà nei confronti dei colleghi con cui lavorano, non se ne vanno, è anche vero che il primo che crolla si porta dietro tutti gli altri. Vengono via dei veri e propri grappoli di persone, e quando è così c’è un danno economico non indifferente, di almeno diverse migliaia di euro. Quanto può costare perdere un intero team? Tantissimo. Rischi di perdere la commessa, e comunque devi avviare un processo di recruiting su più persone in contemporanea, senza dimenticare che, se vuoi rimanere in un trend di crescita, devi per forza sostituire chi se ne va”.

D’altronde trovare le persone adatte, specie nel settore informatico, non è semplice: “In Sensei impieghiamo quattro mesi perché cerchiamo persone che sposino i nostri principi e valori, ma comunque sia, da quando posti l’annuncio a quando fai l’onboarding, almeno un mese e mezzo passa. E poi c’è da considerare il periodo di preavviso: più le persone sono esperte, più sarà lungo”.

“I workaholic non si integrano, altro che engagement”

Salvi aggiunge un altro aspetto: quello della scarsa qualità della vita lavorativa e di un impatto non da poco in termini di coinvolgimento e spirito di gruppo.

“Oggi parliamo tanto di engagement, ma se su dieci persone tre sono workaholic, non ci sarà mai integrazione. Si tratta di persone che non hanno interesse a partecipare, che hanno solo intenzione di fare, di riempire qualcosa che è stato loro richiesto. Io non sono per l’azienda famiglia, ma per l’azienda comunità in cui ognuno dà il suo contributo, ha chiaro il suo ruolo; dà, ma allo stesso tempo riceve. In una società sana il workaholic non avrebbe ragione di esistere e il capo dovrebbe dirti di staccare e andare via.”

“Quando ci sono capitate situazioni simili, molto rare, che avevano a che fare con motivi personali – da noi non c’è questa cultura di elogiare chi si ferma fino a tardi e quasi nessuno lo fa – si è provato a coinvolgere la persona con determinate iniziative, della serie ‘andiamo al cinema, vieni?’, così come di biasimare questo atteggiamento. Certo è che l’HR non è il papà di nessuno e il primo passo lo deve fare la persona. Compito dell’azienda è asfaltare il sentiero perché la persona si muova; camminare è compito dell’individuo”.

Il troppo lavoro brucia competenze: il ruolo degli HR

La dipendenza da troppo lavoro, inoltre, secondo Canfarini, si traduce nel “bruciare competenze, bruciare cervelli liberi che possano essere capaci di pensare con una mente sgombra. Si rischia di avere un impatto emotivo e psicologico che sposta tutto da una situazione ordinaria a una straordinaria, che può sfociare in una situazione patologica. Non c’è, secondo me, una ricaduta tanto sui clienti – visto che in genere i team sono molto grandi – ma si rischia di lavorare con persone che perdono lucidità e non hanno una lettura oggettiva del contesto. Persone che possono avallare quella logica per cui si sentono migliori delle altre, oppure applicano il meccanismo ‘vittima-carnefice’, o ancora, pensano di essere i salvatori di tutti. Inoltre, c’è un tema di leadership tutt’altro che banale: chi lavora troppo tende ad accentrare su di sé tutti i processi, a essere egocentrico e al contempo a controllare ogni dettaglio. E questo rovina i team”.

L’HR, secondo Beatrice D’Amelio, ha un duplice compito per contrastare il troppo lavoro. Da un lato, quando si rende conto di situazioni simili, deve ricordare a chi ha un rapporto diretto con il cliente (nel caso di Sensei i commerciali o il CEO) che gli accordi erano diversi, e pertanto di fare un passo indietro. Dall’altro, si deve accertare che il dipendente faccia capire in quale situazione si trova visto che, spesso, lo spiccato senso del dovere porta a nascondere il proprio stato d’animo.

“Per fare questo, oltre ai due colloqui programmati durante l’anno, andiamo – siamo due HR in un’azienda di 31 dipendenti – a cercare feedback frequenti, alla macchinetta del caffè o in altri contesti.”

Una pausa caffè, alle volte, può salvare un’azienda.

 

 

 

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Photo credits: epicantus via pixabay.com

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