La dipendenza da troppo lavoro, inoltre, secondo Canfarini, si traduce nel “bruciare competenze, bruciare cervelli liberi che possano essere capaci di pensare con una mente sgombra. Si rischia di avere un impatto emotivo e psicologico che sposta tutto da una situazione ordinaria a una straordinaria, che può sfociare in una situazione patologica. Non c’è, secondo me, una ricaduta tanto sui clienti – visto che in genere i team sono molto grandi – ma si rischia di lavorare con persone che perdono lucidità e non hanno una lettura oggettiva del contesto. Persone che possono avallare quella logica per cui si sentono migliori delle altre, oppure applicano il meccanismo ‘vittima-carnefice’, o ancora, pensano di essere i salvatori di tutti. Inoltre, c’è un tema di leadership tutt’altro che banale: chi lavora troppo tende ad accentrare su di sé tutti i processi, a essere egocentrico e al contempo a controllare ogni dettaglio. E questo rovina i team”.
L’HR, secondo Beatrice D’Amelio, ha un duplice compito per contrastare il troppo lavoro. Da un lato, quando si rende conto di situazioni simili, deve ricordare a chi ha un rapporto diretto con il cliente (nel caso di Sensei i commerciali o il CEO) che gli accordi erano diversi, e pertanto di fare un passo indietro. Dall’altro, si deve accertare che il dipendente faccia capire in quale situazione si trova visto che, spesso, lo spiccato senso del dovere porta a nascondere il proprio stato d’animo.
“Per fare questo, oltre ai due colloqui programmati durante l’anno, andiamo – siamo due HR in un’azienda di 31 dipendenti – a cercare feedback frequenti, alla macchinetta del caffè o in altri contesti.”
Una pausa caffè, alle volte, può salvare un’azienda.
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