Donne di famiglia made in Brianza

Un recente studio condotto su 700 aziende del territorio brianzolo (con fatturati in crescita e superiori a 8 milioni di euro) aiuta a vedere un fenomeno importante: su 52 aziende a conduzione familiare, nel 29% dei casi si riscontra un’erede donna, ma nelle successioni le donne sono comunque presenti nel 61,54%: per la maggior parte […]

Un recente studio condotto su 700 aziende del territorio brianzolo (con fatturati in crescita e superiori a 8 milioni di euro) aiuta a vedere un fenomeno importante: su 52 aziende a conduzione familiare, nel 29% dei casi si riscontra un’erede donna, ma nelle successioni le donne sono comunque presenti nel 61,54%: per la maggior parte in ruoli amministrativi, commerciali e di marketing; il 28% ricopre un ruolo direttivo.

Questo numero ci ha portato a riflettere sul ruolo femminile nelle aziende di famiglia, ma ancor più nei passaggi generazionali: quello che emerge dai dati statistici, così come dai racconti di chi quel ruolo lo agisce o lo ha agito da protagonista, è che – nel successo o nell’insuccesso del passaggio generazionale – le donne possono essere quelle figure poco visibili, che aiutano a sostenere gli stili di leadership più forti, carismatici e appariscenti. Ma soprattutto, le donne possono aiutare a sostenere il cambiamento nelle fasi di transizione, dove leadership in conflitto possono causare danni all’azienda, per paralisi decisionale, per conflittualità interna diffusa o per decisioni prese più per motivi di conflitto di potere che per il bene dell’azienda stessa.

 

Il ruolo delle donne di famiglia al vertice di un’azienda

Non si vede spesso una figura femminile apparire al vertice dell’azienda in maniera palese, ma se si guarda dietro le quinte si possono incrociare persone che sanno ascoltare e integrare con una sensibilità relazionale fondamentale nei momenti di passaggio e quando la realtà diventa più complessa. Tipicamente il passaggio generazionale rappresenta la sintesi di queste sfide, e richiede una forte dose di questa “femminilità”.

Non solo qui in Italia, ma a livello internazionale, soprattutto a partire dalle seconde generazioni, le donne hanno un peso maggiore che nelle pari imprese non familiari. In un momento in cui si parla di inclusione e di quote rosa nei consigli di amministrazione, le imprese di famiglia sono un esempio soprattutto quando si passa dalla stagione del fondatore a quella degli eredi, dalla prima alla seconda generazione, o ancor più dalla seconda alla terza, o comunque in particolare quando ci sono diversi “rami” famigliari o societari e una proliferazione di istanze che avanzano rispetto alla successione. Per questo in Lombardia, come in Piemonte, dove lo sviluppo imprenditoriale anticipa almeno di una generazione il resto d’Italia, la presenza delle donne nelle aziende di famiglia è tanto significativa, in numero e in importanza.

Questioni di fiducia, di necessità? Di sicuro quello che le donne portano nell’impresa di famiglia è quella capacità di integrazione, di fiducia e di connessione che fa da collante e permette di unire forze altrimenti contrapposte. Quello che imprese più grandi e strutturate stanno raggiungendo sul fronte dell’inclusione e della partecipazione, attraverso una leadership partecipativa e collaborativa, nelle nostre imprese di famiglia si è anticipato integrando e sostituendo la leadership maschile di tanti fondatori con quella femminile di mogli e figlie; spesso una leadership che si è espressa prima tra le mura di casa e poi nell’impresa, prima nelle funzioni ancillari dell’amministrazione e poi in quelle più centrali della gestione dell’azienda.

Una dimensione femminile che sa naturalmente come gestire la complessità, che ha spesso bisogno di sostegno per avere quelle validazioni e conferme che vengono negate, in azienda e nella società. Una dimensione è fondamentale per dare alle nostre imprese di famiglia speranza di continuità.

Tuttavia gli studi e le statistiche spesso non sanno esprimere le emozioni che dipingono la realtà e che – dal nostro punto di vista – contribuiscono a descriverla meglio. Ecco perché, accanto ai numeri che tanto dicono, abbiamo voluto lasciare traccia di due storie; due fra tante e che a tante assomigliano, della Brianza operosa, perché leggendole molte donne possano ritrovare la loro descritta, raccontata ad alta voce, per uscire dal silenzio che le circonda.

 

Cecilia, o di un passaggio generazionale mancato

Cecilia è una donna di quasi cinquant’anni, segnata da un peso che porta con sé quotidianamente. Accompagnando a scuola i suoi figli, vedendoli crescere ogni giorno, passa davanti ai cancelli, ai capannoni e alla fabbrica della “suaazienda, fondata da suo padre e suo zio. Quella in cui aveva passato le estati giocando da ragazzina e poi dando una mano, via via che era cresciuta, in amministrazione, al marketing, alle fiere; imparando un mestiere senza quasi accorgersene, seguendo un cammino del tutto naturale, quasi segnato, forse mai scelto fino in fondo. Ma a un certo punto, scegliere si è reso necessario. Il papà aveva iniziato a manifestare segnali di stanchezza, l’età che avanza, qualche acciacco sottovalutato; lo zio, più giovane, aveva visto in questo uno spazio per prendere più saldamente le redini dell’azienda e affrontare quelle decisioni più rischiose, più intraprendenti, che erano state fermate da suo fratello negli anni in cui avevano gestito insieme l’impresa, facendola crescere e diventare un piccolo gioiello della metalmeccanica in Brianza.

Quello che avviene spesso, quando cambiano gli equilibri nelle aziende famigliari, sono delle piccole o grandi lotte intestine per definire una leadership nuova ed efficace, dove ciò che si contrappone è da un lato l’esigenza di competenze, leadership e capacità, e dall’altro “diritti di nascita”, ovvero naturali linee di successione. Dov’era Cecilia in quel momento? Lavorava in azienda, negli acquisti e amministrazione; seguiva il padre nel suo rapido declino fisico; cresceva i suoi bambini, e vedeva i cugini prendere in mano la direzione produttiva e la direzione commerciale, puntando alla direzione generale.

Osservava il padre sempre più stanco e lo zio litigare sempre più frequentemente e con toni sempre più accesi. Sentiva la speranza spegnersi di giorno in giorno nello sguardo di suo padre, che vedeva la sua azienda presa in mano dai nipoti – che lui considerava non all’altezza, poco competenti, troppo scellerati e abituati a un benessere facile.

Un giorno Cecilia stava guardando accanto ai suoi bambini un documentario sui comportamenti di alcune specie animali, dove il capobranco deve continuamente affermare la sua leadership dimostrando forza e fermezza. Con l’arrivo della vecchiaia i nuovi e giovani aspiranti capibranco lo sfidano, fino a prevalere e affermare una nuova leadership. Osservando queste immagini rivedeva quello che stava accadendo nella sua azienda, e si chiedeva quanto questo comportamento istintivo fosse utile al benessere dell’impresa e delle persone che vi lavoravano. Quelle persone che a lei stavano a cuore; quelle persone, quegli stipendi, che lei pagava ogni mese e che sapeva facessero mangiare tante famiglie. I compagni di classe dei suoi figli erano i figli dei dipendenti dell’azienda. Si sentiva responsabile per l’azienda e per le persone e per le famiglie, come le aveva insegnato suo padre ogni giorno, e si chiedeva che cosa potesse o dovesse fare lei per tutelare l’impresa dalle lotte intestine, fino all’affermarsi di una nuova leadership.

Così ha iniziato a dialogare con lo zio e i cugini, a cercare un terreno di mediazione, di confronto che non fosse conflitto, di un modo nuovo di prendere decisioni, che richiedeva più tempo ma passava attraverso il confronto e l’ascolto. Cecilia si è fatta accogliente verso le istanze di ciascuno, verso le recriminazioni di anni di frustrazioni dei cugini, sempre trattenute a denti stretti. Cecilia ha unito e raccolto: non voleva far esplodere un conflitto che pensava avrebbe fatto solo male a tutti. Ma dopo tre anni di questo logorante lavoro di mediazione, qualcosa si è rotto anche dentro di lei.

La puntata successiva vede lei e il padre, seduti di fronte allo zio e ai cugini, cedere le quote dell’azienda e lasciarla al suo destino. Chissà se poi a fare la differenza è stata la crisi o la gestione scellerata. Il peso che Cecilia si porta addosso e che rinnova ogni giorno riguarda quei cancelli chiusi, quella ciminiera spenta, quei capannoni con il cartello “affittasi” logorato dal tempo. Cecilia si chiede ancora che cosa avrebbe potuto e dovuto fare di diverso, per sostenere il passaggio generazionale, evitando che le lotte intestine prevalessero sugli interessi dell’azienda.

 

Flavia, o del potere del dialogo

Flavia è una donna energica, ma se le dici che è una donna si imbarazza. Si sente una ragazza. La provincia, fra Milano e le prime montagne del varesotto, le fanno da cornice. Ha quarant’anni indossati con leggerezza, i suoi progetti a supporto delle startup innovative, qualche viaggio in giro per il mondo, il suo lavoro di intermediazione commerciale, e ogni tanto dà una mano all’azienda di famiglia, o meglio una mano al papà, con le banche, con i conti, con il bilancio.

L’azienda in cui lavora il fratello di Flavia è stata fondata dal papà e da un altro paio di soci. Va bene: è sempre stata una bella azienda in crescita, lo sfondo della vita di Flavia; ci lavoravano il papà e la mamma, poi il fratello. Le domeniche erano spesso con i soci di papà e i loro figli, quasi dei cugini. Ma gli anni sono passati. Papà si è ammalato, i “quasi cugini” sono diventati tutti grandi. Improvvisamente o quasi, Flavia si è accorta che era necessario occuparsi del passaggio generazionale, e ha pensato che né lei né il resto della seconda generazione erano pronti a farlo. Ha pensato anche che lei era l’unica donna, in quella piccola azienda metalmeccanica: un’eccellenza, una boutique con clienti internazionali.

Flavia ha un senso di responsabilità molto spiccato, ma si sentiva anche “un piede dentro e un piede fuori” rispetto all’azienda di famiglia. E forse questa è stata anche la sua forza, che l’ha spinta a iniziare a dialogare con i suoi “quasi cugini”, a mettere il problema sul tavolo, a creare i presupposti per cercare soluzioni. Ha iniziato un cammino lungo e doloroso, dove temi personali e argomenti aziendali si sono intrecciati e che li ha coinvolti per anni. Nella ricerca di nuovi ruoli, nell’imparare a prendere decisioni insieme, nell’imparare a costruire relazioni di fiducia e sviluppare competenze fino ad allora non richieste.

Flavia si è accorta che lei era in grado di fare la differenza nel creare uno spazio di dialogo e non di conflitto, nell’accogliere le istanze di tutti per costruire consenso, con pazienza e perseveranza.

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