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Chi combatte il virus non ha tempo di parlare in tv
Nel 2009, quando ho iniziato la ricerca che mi avrebbe portato a scrivere Non è un Paese per bamboccioni, l’idea era quella di trovare delle storie di giovani italiani che fossero riusciti a crearsi un lavoro in un Paese che sembrava non dare possibilità, e tantomeno fiducia. Siamo nel post 2008, quello di Lehman Brothers […]
Nel 2009, quando ho iniziato la ricerca che mi avrebbe portato a scrivere Non è un Paese per bamboccioni, l’idea era quella di trovare delle storie di giovani italiani che fossero riusciti a crearsi un lavoro in un Paese che sembrava non dare possibilità, e tantomeno fiducia. Siamo nel post 2008, quello di Lehman Brothers per intenderci, e giornali e TV parlavano solo di crisi, di poco lavoro, e velatamente accusavano i giovani di non avere voglia, capacità e di meritarsi un po’ queste difficoltà. Io e Alessandra Sestito (coautrice del libro) volevamo invece dimostrare che di ragazzi con voglia di fare ce n’erano, e che laddove non si vedevano strade all’orizzonte ce ne si costruiva una. In questo modo avremmo provato anche a pareggiare tutta la negatività, dando qualche spiraglio a chi ci credesse un po’ meno.
Ci colpì però un fatto, inatteso. Ci aspettavamo di trovare storie molto legate al digitale, a internet, alla “comunicazione metafisica”. YouTube era nato da poco, Facebook stava prendendo piede, e insomma si faceva un gran parlare delle possibilità della rete. E invece le storie di successo che trovammo erano molto legate alle mani, al fare fisico, ai lavori di un tempo. Tant’è che decidemmo di intitolare i capitoli proprio coi nomi vecchio stampo, più mestieri che lavori: il gelataio, l’orologiaio, il car washer, il cuoco.
Ecco, il cuoco. Come può mai essere una storia di successo o di interesse letterario o di ispirazione quella di un cuoco? Eppure, Lauretta Torresin che vola in California come unica italiana in gara all’Almost Famous Chef 2010 è una storia che ha colpito molti. Questo un paio d’anni prima che iniziasse Masterchef e quel mestiere diventasse, anche un po’ stucchevolmente, pop.
La rivincita delle competenze: il tempo di chi sa (e di chi fa)
Ma perché questo preambolo?
Perché oggi siamo nuovamente in tempo di crisi, una crisi diversa ma sicuramente non meno pesante e di cui non conosciamo l’orizzonte, e sembra che nuovamente il tempo delle parole sia finito. Improvvisamente sembra che sia tornato di moda sapere e fare.
In TV aspettiamo che parlino gli scienziati. Laddove un tempo ridevamo (ridevamo…) per la comparsa del Cangurotto, ora speriamo arrivi in studio Burioni o Palù o Giovanni Rezza dell’ISS. Anche il chiacchiericcio sul nulla dei politici a cui siamo abituati da anni ci sembra finalmente quello che è: un chiacchiericcio inutile di sottofondo. Li abbiamo declassati a passacarte buoni per firmare bolle amministrative, guidati da chi sa che cosa sta succedendo e dove saremo tra una settimana o un mese.
Ma oltre a chi sa, sembra che sia tornato di moda affidarsi a chi fa. Medici e infermieri innanzitutto, ma anche cassieri, inservienti e chi ci porta la spesa. Un tempo bistrattati, ora fondamentali. Richiesti, bramati.
E poi, non lo sentite? Non lo sentite in sottofondo questo silenzio? Dove sono finiti tutti quelli che ti promettono guadagni facili lavorando tre ore al giorno al computer da casa? O ti vendono il corso di formazione online che ti cambierà la vita? E tutti i coach? Oggi più che mai sarebbe il momento di spingere, no? Siamo tutti a casa, siamo tutti senza lavoro, siamo tutti potenziali clienti di chi ci promette guadagni facili lavorando tre ore al giorno al computer da casa. E invece, spariti. Chi parla non è più credibile. Ora la palla è passata a chi sa e chi fa. Non a chi vende.
Ho voluto contattare Selene Biffi (che in Non è un Paese per bamboccioni avevamo chiamato “L’Operatrice Umanitaria”) e Ruggiero Mango (“il Cardiologo”) per capire se è vero che i lavori sul campo sono davvero quello che la gente vuole vedere.
Selene Biffi, Selenina per me che ormai la seguo con affetto in tutte le sue avventure da dieci anni, mi risponde da New York, e la cosa mi sorprende subito. L’avevo lasciata a costruire scuole in India, o forse era la Somalia.
“Dovevo finire in Siria e invece la vita mi ha portato qui. Ho un contratto con un’organizzazione internazionale e un orizzonte abbastanza lungo; per cui farò fatica a tornare in Italia a breve, e questo mi spiace, ma qui stiamo cominciando a capire che già il fatto di avere ancora un lavoro è un fattore. La sensazione è di stare per rivivere il post Seconda guerra mondiale.”
Esatto, infatti la prima cosa che voglio chiederti e se è cambiato il tuo lavoro ai tempi del coronavirus.
Sì e no. Siamo a casa da metà marzo e il lavoro che faccio qui è legato all’innovazione a 360 gradi, ma di matrice assolutamente pratica. Nello specifico mi occupo di quelle che si chiamano “innovazioni frugali”, che non hanno bisogno di grandi competenze o fondi per essere replicate (ad esempio in ambito di salute pubblica, cambiamento climatico, gender), e oggi il lavoro che faccio non è stato troppo intaccato dal virus, poiché lavorando con colleghi in giro per il mondo molto lo facciamo online. Bisogna però capire come il lavoro cambierà una volta che si deciderà di fare progetti pilota. Questo rimane il punto di domanda.
Quanto contano lo studio e l’esperienza sul campo, secondo te, per superare questo momento (nel tuo lavoro e non solo)?
Ci pensavo giusto in questi giorni. Già in Somalia avevo cominciato a fare lezioni online per coprire i tempi morti, e oggi a maggior ragione cerco di sfruttare il tempo. E ripensavo a come nel 2005 (quando Selene lanciò Youth Action for Change, N.d.R.) la didattica online venisse considerata quasi di serie B, mentre oggi è diventata l’unica possibile. Non solo: ora si comprendono anche i vantaggi del tipo “posso imparare ovunque sono”. E non ci stiamo adattando solo noi, ma anche le istituzioni.
Ok, lo strumento. Però è cambiata la percezione. Nel senso che prima il famigerato online era visto come un’opportunità di lavoro, mentre ora è solo un mezzo per avere un’opportunità di lavoro. Sicuramente l’online negli anni è stata la fortuna di molti e qualcuno ci ha anche fatto i soldi, ma forse meno di quanto si pensasse, e oggi sono ancora i vecchi lavori a tenere in piedi la società. È il contenuto che crea valore, non lo strumento.
Sì, se il mondo digitale non conta sulla qualità dei contenuti, ma solo sulla tipologia di processo, perde, perché oggi quello che la gente vuole è la qualità del contenuto, che si distingue dal mare di contenuti di ogni giorno; e la qualità vince sulla fruizione, anche su quelle piattaforme che sono meno friendly, magari. Proprio ieri ho visto un meme online dove ci si chiedeva che fine avessero fatto quei personaggi che promettono grossi guadagni da casa grazie all’online (da qui la mia intro a questo articolo. Grazie Selene), e non vedo neppure tutti questi annunci di marketing, di esperto digitale, di guru di non so che. Forse la gente vuole qualcosa di più consistente. Forse è la drammaticità del momento, però anche solo guardando il wall di Facebook il cambiamento è evidente. In ogni caso oggi la gente è obbligata a casa, e quindi è costretta a guardarsi in giro.
In questo momento di grande difficoltà la gente sembra finalmente affidarsi a chi sa, e non a chi parla.
Assolutamente sì. La parola che usi tu, “sicurezza”, è la chiave di tutto. Tralasciando i tuttologi che sempre ci saranno, ti rendi conto che l’esperienza di una persona è quello che fa la differenza in un momento come questo. Spesso e volentieri vedi storie in cui un ventenne, solo perché è un nativo digitale, si professa guru del marketing; e può esserlo, non lo metto in dubbio. Però in un contesto dove i rischi sono alti e necessariamente c’è bisogno di qualcuno che sappia di cosa stia parlando, magari avendo avuto esperienza sul campo, ti rendi conto che questa persona ha maturato delle skills nel mondo analogico più che in quello digitale, e sarà magari una mentalità vecchia, ma la gente oggi vuole vedere l’esperienza, sentire la sicurezza.
Però quello che voglio dire io è che la competenza è oltremodo ricercata, oggi, in un momento di grande crisi. Di norma nessuno andrebbe da un medico ventiduenne, però in questi giorni i laureandi/specializzandi in medicina sono stati “sbrigliati” per andare a dare una mano in corsia. E sono certo che, se una persona stesse male per il virus, piuttosto che nessuno sarebbe felicissima di vedersi seguita da questi ragazzi, che mettono a disposizione la loro seppur giovane competenza per dare una mano a noialtri. È la rivincita di chi sa “mettere le mani” su chi parla.
Sarebbe interessante sapere quanto questa situazione cambierà le dinamiche, sia nello studio che nell’approccio al lavoro.
Saluto Selene, guardo il cellulare. C’è un messaggino di Ruggiero: “Scusami Matteo, sono stato in zona rossa per un’emergenza”. Sarà così anche per i quattro giorni seguenti. Non riusciremo mai a sentirci.
Ruggiero Mango, scienziato, cardiologo, genetista, ricercatore, famoso per aver dato il nome alla Loxina, insignito del Cavalierato Giovanile nel 2009 con menzione speciale per la Scienza, e una tonnellata di altre cose che non posso aggiungere per ragioni di spazio, in questi giorni è sul campo. Avrei voluto sentirlo. Anche lui avrebbe voluto raccontarmi il suo pensiero su un tema che l’ha colpito molto da vicino, non solo professionalmente, poiché tutta la sua famiglia è stata contagiata dal COVID-19. Ma Mango non va in TV, va sul campo. Non ha mai avuto tempo per la TV, vuole studiare. E se un giorno avrò bisogno di un medico, ma anche di un qualsiasi professionista, spero di incontrare persone come Selene o come Ruggiero. Che prima sanno e poi fanno. E poi, al limite, parlano.
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