I cinesi a Milano non sono solo Paolo Sarpi

Sono nato quando Milano era una città da bere, e nel 2003, quando mi ci sono trasferito per studio, questi echi non si erano ancora del tutto dissolti. Milano non è una città da amore a prima vista. Quel formalismo degli ambienti e delle persone, quella puntualità quasi da rito che non lasciava scampo, quella […]

Sono nato quando Milano era una città da bere, e nel 2003, quando mi ci sono trasferito per studio, questi echi non si erano ancora del tutto dissolti.

Milano non è una città da amore a prima vista. Quel formalismo degli ambienti e delle persone, quella puntualità quasi da rito che non lasciava scampo, quella preparazione e organizzazione che valeva per il lavoro quanto per gli hobbies e le cose più frivole, mi risultavano artificiosi e sospetti. Percepivo esattamente, come lo si percepisce in ogni grande città, che per far parte di un insieme, sia esso il gruppo del calcetto o l’associazione degli amici del Parco Sempione, era necessario oltrepassare una barriera. L’accettazione aveva infatti bisogno di tempo, e non era affatto scontata. Tuttavia, se all’inizio la cosa mi turbava, più tardi capii che il superamento dell’odiosa barriera imponeva il saper ascoltare gli altri e il chiedersi per che cosa gli altri dovessero aver bisogno di noi. In poche parole, era necessario mettersi in gioco e crescere. Una lezione di vita.

Bisogna passeggiare lungo i navigli, andare a mangiare nella trattoria dell’Ortica, ascoltare i dischi di Gaber e di Jannacci e leggere le poesie di Alda Merini per capire che Milano è tutto fuorché una Golconda di grigi bancari con le loro ventiquattrore sempre appresso; oppure il fashion a tutti i costi degli “imbruttiti”, per citare un canale social di recente successo. O meglio: Milano è anche questo, ma non solo. In realtà Milano diventa bella quando smette di essere la caricatura di se stessa e si svela per quel che è: un meraviglioso condensato d’Italia, che si affretta marciando all’efficiente passo nordeuropeo, ma che deve comunque fare i conti con i ritardi, le storture di sistema e le lentezze ataviche del resto della Penisola.

 

Storia dei primi cinesi a Milano

Milano è la città italiana dei primati e dell’innovazione, un calderone sempre in ebollizione; nella sua naturale composizione c’è la voglia di sperimentare prima di tutti gli altri. Non è un caso se Milano vanta un primato anche riguardo ai rapporti con la Cina.

Per scoprirlo è sufficiente leggere Chinamen, meravigliosa graphic novel scritta e illustrata dalla coppia Ciaj Rocchi e Matteo Demonte, che racconta un secolo di cinesi a Milano e che è stata ospite del percorso antropologico Milano Città del Mondo all’interno del Mudec (Museo delle Culture), nell’ex spazio Ansaldo. L’Expo Universale del 1906 diventa l’occasione della visita della prima delegazione del Celeste Impero in Italia. L’amicizia tra Wu Qiankui e il meneghino Cesare Curiel innescherà una collaborazione commerciale ante-litteram, prodromica ai primi arrivi della comunità, che attorno alla fine degli anni Venti si stabilirà in via Canonica nel quartiere di Porta Volta.

Il primo nucleo di cittadini cinesi proviene dalla contea di Qingtian. Sono venditori ambulanti di perle e statue di finta giada (pietra di Qingtian) che però sembrano vere, e nei bazar si fanno affari d’oro. Disgraziatamente, con l’avvento del fascismo e della politica autarchica e nazionalista di Mussolini, i cinesi sono definiti nelle ordinanze prefettizie “ospiti indesiderati”; vengono quindi schedati e subiscono arresti di massa e perquisizioni.

Nell’estate del Quaranta, con l’entrata in guerra dell’Italia, come racconta il Prof. Daniele Brigadoi Cologna dell’Università degli Studi dell’Insubria, i cinesi furono internati nelle prigioni/confino di Isola Gran Sasso, nel teramese, e nel campo di Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza. Subirono angherie di ogni tipo. Vi sono anche fotografie che ritraggono i prigionieri con una fascia bianca in testa, simbolo della loro conversione forzata al cattolicesimo.

Nonostante le torture e le difficoltà, l’a quei tempi piccola ma tenace comunità cinese non ha mai abbandonato l’Italia: anzi, ha partecipato a pieno titolo alla ricostruzione e al boom economico degli anni Sessanta. Pochi sanno, infatti, che un simbolo della creatività (e degli anni Ottanta) come i colorati “Uni-Posca” e la moderna cancelleria sono arrivati in Italia grazie all’intuito di Mario Tchang, uno dei primi cinesi nati in Italia; oppure che il laboratorio di ricerche elettroniche voluto da Olivetti a Barbaricina (in provincia di Pisa), e che ha generato il primo computer a transistor su scala industriale, fu diretto proprio da un ingegnere di origini cinesi, Mario Tchou scomparso prematuramente per incidente d’auto nel 1961.

Se guardiamo alla storia, pertanto, non dobbiamo stupirci di trovare esempi di giovani e talentuosi imprenditori cinesi, il cui fiuto e la cui lungimiranza è arrivata prima dei dubbi e dell’incertezza degli altri.

 

È finito il tempo dell’imitazione: è il momento della qualità

Francesco Zhou Fei e la sua storia si inseriscono perfettamente nel solco di queste tradizioni.

Dopo la laurea in economia aziendale alla Bocconi, Francesco ha lavorato come Business Developer Manager per la Crif e altre importanti società fiduciarie svizzere e cinesi a Pechino, specializzandosi nel settore del risk management. Dopo aver approfondito i suoi studi nella più prestigiosa Università cinese, la “Beida” (Peking University), oggi è il general manager di Mi store Italia, i negozi monomarca del brand Xiaomi, il quarto al mondo per la produzione di smartphone, nonché leader globale di IOT (Internet Of Things), smart home and smart devices.

“Oggi è relativamente semplice che il consumatore italiano percepisca i nostri prodotti come di alta gamma a un prezzo molto concorrenziale; appena un anno fa era molto più difficile”. A Francesco piacciono le sfide: ci racconta che già quattro anni fa, da semplice appassionato di nuove tecnologie, aveva messo gli occhi addosso a questo promettente brand, che tuttavia era conosciuto solo nella sua patria, per i prezzi economici e per la vaga tendenza del suo CEO – mister Lei Jun – a indossare maglioni neri a collo alto, visibilmente in stile Steve Jobs. Oggi Xiaomi non ha bisogno di imitare nessuno. Anzi: è temuta da tutti gli altri brand per la crescita esponenziale del flagship store a livello globale e per la continua diversificazione che ha portato il brand a sviluppare mini scooter elettrici, nuove camere go pro e una pluripremiata android tv box.

La mia idea di sviluppo per l’Italia è quella di creare un’armonia tra la comunità di utenti che utilizza i nostri prodotti: devono sentirsi parte di una comunità. Tutti ci lamentiamo che le nuove generazioni interagiscono poco e che preferiscono scrivere messaggini che parlare in pubblico. A me piace pensare invece che lo smartphone sia un veicolo per l’amicizia e la conoscenza reale, non solo virtuale. Se verrete a uno degli eventi organizzati dai Mi fan club ve ne accorgerete con i vostri occhi.”

 

L’arte italiana secondo la Cina

Abbiamo parlato di innovazione e tecnologia, ma l’Italia ha il suo potenziale nell’arte e nella cultura. Un aspetto attorno al quale Peishuo Yang ha costruito la sua formazione accademica e la sua carriera.

Peishuo, nata a Tianjin da genitori originari di Shanghai, arriva in Italia a Firenze nel 1997, studiando dapprima la lingua italiana e laureandosi in Lettere e Filosofia e successivamente conseguendo la laurea presso l’Accademia di Belle Arti.

All’iniziale passione per la pittura, e in particolare per la corrente dell’astrattismo, si unisce con il tempo la voglia di mettere in comunicazione i due Paesi in cui ha vissuto: due autentici pesi massimi dell’arte. Tra i due Paesi esiste infatti un profondo rispetto dovuto a reciproco riconoscimento della complessità e ricchezza della loro storia, ma il dialogo è ancora flebile e le mancate opportunità di scambi e interazioni tra artisti e galleristi generano continue occasioni perdute.

Per ovviare a questa situazione Peishuo ha dismesso gli abiti dell’artista per indossare quelli dinamici e intraprendenti della direttrice della Present Contemporary Art, società da lei diretta che ha sede a Shanghai, a Firenze e da alcuni anni a Milano grazie all’apertura del Milan Art & Event Center (MA-EC), il quale si fregia oggi di essere ospitato nei locali del prestigioso Palazzo Durini, a pochi passi dal Duomo. Per Peishuo essere la prima gallerista cinese di arte contemporanea in Italia, con una forte attenzione alla valorizzazione delle web community, significa mettere in relazione Italia e Cina creando proficua interazione tra artisti, istituzioni culturali e reti di gallerie. Non solo mostre per addetti ai lavori e grandi artisti (per citarne alcuni, il maestro Giorgio Piccaia per l’Italia e i maestri Luoqi Zhang Xiexiong e molti altri per la Cina): il centro voluto da Peishuo è anche fulcro di incontri internazionali di business. Un ambiente che coniuga arti visive, design e cultura; un laboratorio dove confrontare esperienze, valorizzare la creatività, elaborare progetti d’arte, organizzare e realizzare eventi sociali, incoraggiare nuove sinergie e collaborazioni in un contesto di comunicazione e promozione.

Un luogo ideale, dunque, che rispecchia quel fermento multiculturale di cui l’Italia ha estremamente bisogno per uscire da un torpore ultraventennale, di cui anche il settore dell’arte ha purtroppo risentito con conseguenze negative, chiusure e scarsa capacità di visione.

 

 

Photo Credit: immagine da “Chinamen”, il documentario su un secolo di cinesi a Milano

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