Un’azienda al giorno toglie il welfare di torno

È noto a tutti come lo Stato Sociale – o Stato assistenziale (dall’inglese Welfare State) – sia una caratteristica dei moderni Stati di diritto fondati sul principio di uguaglianza. Una prima forma di Stato assistenziale venne introdotta nel 1601 in Inghilterra a favore della popolazione meno abbiente; poi, soprattutto in Inghilterra e in Germania, fecero […]

È noto a tutti come lo Stato Sociale – o Stato assistenziale (dall’inglese Welfare State) – sia una caratteristica dei moderni Stati di diritto fondati sul principio di uguaglianza.

Una prima forma di Stato assistenziale venne introdotta nel 1601 in Inghilterra a favore della popolazione meno abbiente; poi, soprattutto in Inghilterra e in Germania, fecero seguito sviluppi importanti nel periodo della prima Rivoluzione industriale agli inizi delll’800 per arrivare alla fine della seconda guerra mondiale con la definizione di welfare come ancora oggi tutti la intendiamo.

Una semplice traduzione di questo diffusissimo – e abusatissimo – vocabolo inglese ci offre subito il primo spunto di riflessione: non è “assistenza” bensì “prosperità”, “benessere”, due vocaboli che nella nostra lingua non sono certo sinonimi. Il primo richiama infatti immediatamente il concetto di ricchezza e di agiatezza spesso legata alla disponibilità di denaro, il secondo evoca invece serenità ed equilibrio interiore.

Il dilemma delle aziende: cosa intendiamo per welfare?

Le aziende, finora, si sono spesso trovate nella impossibilità di assicurare ai propri dipendenti sia la prosperità che il benessere ed hanno quindi dovuto scegliere dove e come orientarsi, dando la preferenza – o la semplice precedenza – all’uno o all’altro: aumentare le retribuzioni o assicurare a tutti i dipendenti magari un check up annuale o la possibilità di lasciare i propri bimbi all’asilo aziendale?

Peraltro il concetto dell’equilibrio tra lavoro e vita privata – noto con l’espressione anglosassone “work life balance – non è nuovo.  Senza scomodare Aristotele che già qualche annetto prima sosteneva che si lavora per guadagnare del tempo libero, rileggendo vecchi servizi giornalistici su convegni  internazionali tra associazioni datoriali degli anni ’60 ho scoperto che l’imprenditore cileno Bo Casten Belberg già all’epoca affermava che “è assolutamente inefficiente darsi troppo da fare ed essere sempre occupati […] permettendo che l’eccesso di  lavoro renda la nostra vita personale stupida e monotona” sottintendendo come, secondo lui, un giusto equilibrio tra lavoro e vita privata renda il lavoro stesso più produttivo, faccia diminuire l’assenteismo e ci porti ad apprezzare maggiormente ciò che facciamo, con tutti i benefici che ne derivano.

I Paesi anglosassoni negli ultimi lustri sono già andati oltre il nostro ormai obsoleto concetto di welfare e propongono addirittura “pacchetti natalizi” dove non ci sono panettoni e bottiglie di spumante ma libri scolastici, viaggi a prezzi scontati, tessere musei e assicurazioni.

Negli Stati Uniti il discorso è molto differente in quanto il sistema sanitario pubblico è di fatto assente e spesso ho potuto constatare di persona come le persone siano più preoccupate, in caso di termine del rapporto di lavoro, di perdere l’assicurazione medica per sé e per i propri cari piuttosto che perdere il posto di lavoro stesso.

L’evoluzione del tema in Italia ha visto prendere sempre più piede, nei contratti nazionali delle piccole e medie aziende e nella contrattazione di secondo livello, l’estensione – a tutte o alcune categorie – di alcuni benefit sinora considerati un esclusivo diritto dei dirigenti come coperture assicurative e assistenza sanitaria.

Le recenti politiche fiscali hanno nuovamente riportato il welfare al centro del dibattito facendo sorgere come sempre alcune domande.  Ma il mondo aziendale spinge sul welfare per convinzione o per risparmiare e così recuperare competitività, relegando al ruolo di “ulteriore vantaggio” il benessere dei dipendenti? Ma è sempre l’azienda a sbagliare o anche nelle persone manca una vera cultura sul tema?

Sono certo che se la richiesta dalla base fosse pressante qualcosa di più incisivo accadrebbe, come è avvenuto per ogni rivoluzione, culturale e non. Personalmente ho sempre visto le persone scendere in piazza per l’aumento del CCNL piuttosto che per posti all’asilo aziendale.

Sono convinto che un approccio sistemico al work life balance non possa che portare buoni frutti. Non bisogna commettere l’errore di considerare il welfare aziendale un processo a sé stante, un’entità separata dai normali processi legati alla buona gestione delle persone, dalla selezione, alla formazione e lo sviluppo. Se poi il target della nostra azienda non sono solo i dipendenti ma si vuole guardare al domani, attraendo talenti per il futuro, allora un lifting è d’obbligo.

Secondo un’indagine della Business School di Harvard, la maggior parte dei laureandi si concentra su aziende (o startup) ad alto contenuto tecnologico e con al centro il benessere della persona e la sostenibilità. Non vogliono avere facilità di accesso alle cure, vogliono evitare di ammalarsi, passando dal concetto di assistenza a quello di benessere. È un sistema di valori diverso e se le aziende vorranno essere appealing dovranno cambiare marcia. È vero che viviamo nell’epoca del vintage ma è altresì vero che non tutto diventa retrò: alcune cose sono vecchie e basta.

Una considerazione finale sull’appeal non può non coinvolgere il “nome”. Denominare qualcosa di nuovo con un termine di qualche centinaio di anni fa non è proprio a pagina uno del manuale del marketing. E se anche la Chiesa Cattolica è riuscita a descrivere ogni nuova invenzione con il vincolo dell’utilizzo del millenario latino (il goal è la retis violátio, i blue-jeans diventano bracae línteae caerúleae, mentre la fotocopia è un exemplar luce expressum) un minimo di sforzo creativo è inevitabile. Diversamente sarebbe come chiamare un nuovo smartphone neo apparecchio telegrafico multimediale. Chi mai lo comprerebbe?

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