La meritocrazia usata come unico metodo per scegliere gli imprenditori potrebbe rialzare la testa dell’economia italiana verso nuovi orizzonti di mercato. La storia dell’imprenditoria del Paese è composta principalmente di poche famiglie, le quali continuano a tramandare ai loro figli la dinastia blasonata di imprenditori. Le nuove intelligenze di imprenditori sono ostacolate a entrare nella […]
Quando il call center risponde dal carcere
Alcune aziende reclutano gli operatori di call center tra la popolazione carceraria. L’esperimento ha avuto successo nel carcere di Bollate e si è esteso alla casa di reclusione di Vigevano: “Per i detenuti è una finestra sul mondo, hanno una pazienza infinita”. Le testimonianze di chi lo ha reso possibile
Alcune aziende italiane puntano sui detenuti per la gestione dei call center.
Non si tratta di un’operazione di beneficenza, ma di una precisa scelta di business, che si basa sulle qualità di questa categoria di lavoratori. Dopo il carcere di Bollate, anche la casa di reclusione di Vigevano ospiterà un call center gestito dai detenuti stessi. A promuovere questa iniziativa è la cooperativa Bee 4, fondata da Pino Cantatore, che ha deciso da tempo di puntare sul lavoro in carcere, assieme alla cooperativa Divieto di Sosta, così come hanno deciso di farlo quattro aziende come Eolo, Team System, Dolomiti Energia e Sielte S.p.A.
Dal punto di vista economico per loro non cambia nulla, perché viene comunque applicato il contratto di categoria, ma se si valuta la resa dei lavoratori e la fedeltà all’azienda cambiano molte cose. Lo conferma Chiara Santambrogio, operation director BU professional di Team System, che già quando ricopriva un ruolo simile in Eolo ha affidato la gestione del call center ai detenuti.
Dal lavoro non si evade: basso turnover nei call center carcerari
Il call center non è il lavoro dei sogni di nessuno quando è bambino, eppure negli ultimi anni si trovano a farlo in molti, non sempre bene, e con diverse motivazioni.
L’idea della ragazza che si intenerisce parlando con chi contatta al telefono, nel film Tutta la vita davanti, poco corrisponde alla realtà. Di solito chi lavora in un call center cerca di farlo il meno possibile e di cambiare lavoro non appena ne ha la possibilità.
«In Italia – dice Santambrogio – spesso si tratta di un lavoro di ripiego per chi si trova a farlo, mentre in carcere è visto come un’opportunità, perché gli utenti finali sono la finestra sul mondo per i detenuti. Si prendono a cuore i problemi dei clienti in un modo raro.»
A Bollate il sistema è rodato ormai da anni, mentre a Vigevano da poco 18 detenuti hanno iniziato a lavorare in una sala a loro dedicata. Si occupano in prevalenza di assistenza e non di vendita.
«Team System – continua Santambrogio – è una grande azienda e non si appoggia solo a lavoratori in carcere. Utilizziamo però i call center, che nel mondo del lavoro rappresentano un lavoro di passaggio. Lo fa la mamma i cui figli sono a scuola alla mattina, ma che al pomeriggio si occupa della famiglia. Di solito si tratta di un lavoro che per sua natura è part time e non richiede grande professionalità.»
Per questo è soggetto a un alto tasso di turn over. Questo in carcere non avviene, perché l’impiego dura quanto il tempo di detenzione e, lo dicono i carcerati stessi, questo comporta che si riduca il turn over, rispetto a quanto accade nel mondo del lavoro oltre le sbarre.
La dote più spiccata dei detenuti
C’è però una qualità della quale chi lavora in un call center deve essere provvisto: la pazienza. Anche in questo caso, chi è in carcere ne è dotato in abbondanza.
«Al call center – continua Santambrogio – si ascoltano problemi dal mattino alla sera e ci si occupa di processi che in azienda non sono strutturati, o di chiarire problemi che sorgono da processi fallaci attribuibili alla società. Chi chiama, ad esempio, può cercare chiarimenti in merito a un errore in una fattura. Chi sta in carcere riesce a gestirli bene, perché ha una pazienza infinita. E poi c’è la volontà di farsi carico dei problemi altrui. Sono convinta che il call center rappresenti una professione con un valore aggiunto: chi risponde al telefono ci consente di rimanere a casa e di risolvere i nostri problemi con pochi sforzi. Allo stesso tempo i detenuti si dedicano con passione a questo impiego, perché per loro è una finestra sul mondo all’esterno della casa di reclusione.»
Come le aziende entrano in carcere
Per un’azienda approdare al lavoro in carcere è molto più facile di quanto si pensi.
«Ci siamo arrivati – continua – nel più semplice dei modi. Quando ancora lavoravo in Eolo cercavo un fornitore, e loro cercavano un cliente. Ci siamo incontrati grazie a LinkedIn. All’inizio per noi lavoravano sei persone, ora sono una trentina. Quando li ho contattati mi hanno chiesto se fossi disposta ad andare a trovarli, e quando ci sono andata, a Bollate, sono rimasta molto colpita. Dopo un po’ che si è lì dentro ci si dimentica di essere in carcere. In modo particolare mi ha attratto l’entusiasmo che avevano nella gestione del cliente.»
L’esempio virtuoso di Bollate ha fatto da apripista anche per Vigevano, dove tutto è partito da 14 detenuti, ma ora hanno cominciato ad aumentare. Si comincia con una selezione tra quanti forniscono la loro disponibilità e poi c’è un periodo di formazione, durante il quale si apprendono le competenze tecniche e si cerca di capire se c’è la giusta attitudine e la mentalità. Il personale non deve essere soltanto qualificato dal punto di vista tecnico, ma anche avere capacità empatica e saper gestire le obiezioni, oltre che lavorare in gruppo. Per questo vengono utilizzati consulenti e formatori esterni. Il periodo di formazione si conclude con un test finale.
L’obiettivo non è solo il successo professionale, ma anche il riscatto personale.
Da compagni di cella a compagni di team
Il call center in carcere per Vigevano è un ulteriore passo verso il miglioramento delle condizioni – anche di lavoro – per un istituto che in passato ha avuto diverse difficoltà.
«Ho avuto la fortuna – dice Rosalia Marino, direttrice della casa di reclusione di Vigevano – di arrivare in un istituto nel quale ho trovato persone che avevano voglia di mettersi in gioco. Siamo riusciti così a iniziare a fare qualcosa per restituire all’uomo dignità, e soprattutto un impegno morale.»
La scintilla è scattata grazie all’opera del carcere di Bollate. Questa iniziativa origina dall’esperienza di Pino Cantatore, un passato da carcerato e un presente a capo della Cooperativa Bee 4, che è una vera e propria impresa.
«La cooperativa è nata oltre dieci anni fa a San Vittore, dove stavo scontando una pena. – racconta Cantatore – ma il nostro obiettivo è stato fin dall’inizio intercettare i bisogni delle aziende. Abbiamo voluto lavorare sempre come un’impresa vera e propria». Nella stessa impresa convivono quindi il lato sociale e quello economico, così come nei detenuti, alcuni dei quali hanno trovato un lavoro per la prima volta a quarant’anni.
«Il desiderio non è però solo di reinserirsi nel tessuto sociale, ma anche di dare una mano ai propri famigliari e di contribuire a pagare il debito con lo Stato che ogni detenuto matura. Per molti di loro non è nemmeno il primo lavoro in carcere, ma la volontà di essere impiegati un call center è anche quella di andare oltre i soliti impieghi come spesino o netturbino nella prigione, per imparare una professione spendibile anche all’esterno.»
Oggi il call center funziona alla perfezione, e il gruppo dei detenuti, che ha un’età variabile, ha creato un vero e proprio team di lavoro che ogni giorno risponde al telefono, con tanto di postazioni abilitate, e interagisce con i clienti di quattro grandi aziende, badando ai dubbi, alle domande e alle richieste che arrivano a ciclo continuo.
L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.
Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.
Photo credits: bee4.org
Leggi anche
I paradossi del lavoro contraddistinguono la società del XXI secolo nella quale si registrano situazioni poco chiare come nelle facoltà umanistiche dove la frequenza del dottorato non è compatibile con i corsi di abilitazione all’insegnamento. I dottorati che intendono insegnare nelle scuole medie devono iniziare un percorso nuovo, perdendo quel tempo prezioso e procrastinando di […]
Scarica il podcast della puntata. Per Margherita Granbassi, ex fiorettista triestina e oggi conduttrice televisiva, potrebbe tranquillamente parlare il palmares: due bronzi olimpici, tre ori e tre argenti ai mondiali, più un importante numero di medaglie e titoli a livello italiano ed europeo. Ma per quello c’è Wikipedia; per tutto il resto c’è Il Lato A. Ci […]