
L’intervista esclusiva di SenzaFiltro al romanziere russo Mikhail Shishkin: “Io, ‘traditore nazionale’, dico che senza una totale de-putinizzazione non ci sarà una rinascita della Russia. Voglio un Paese libero da impostori”.
A trent’anni dall’esordio, il romanzo torna sugli scaffali con Feltrinelli, ma le ossessioni dei manager e i malesseri del lavoro che descrive sono ancora attuali. La nostra intervista all’autore Sebastiano Nata: “Non si odia il lavoro in sé, si odia l’ambiente in cui si è costretti a lavorare”
“Sembra una storia scritta ieri. Anzi, domani”. Lo dicevano de Il dipendente vent’anni dopo la sua pubblicazione, lo diranno anche ora che di anni ne sono passati trenta e il romanzo torna in libreria per Feltrinelli, corrosivo come non mai. Un libro che smonta pezzo per pezzo il mito del super manager che guida il macchinone e fa soldi a palate, salvo accorgersi, quando ormai è troppo tardi, di correre in una ruota per criceti, come scrive Emanuele Trevi nella prefazione.
Dal 1995 al 2025, davvero è cambiato così poco nel mondo del lavoro? “Oggi la situazione è persino peggiorata, il capitalismo ha sempre una capacità di seduzione incredibile. Il potere e la ricchezza si concentrano sempre di più, ma se ne parla davvero poco”, dice Sebastiano Nata, classe 1955, autore prolifico e sempre incisivo che, sotto pseudonimo, ha raccontato il mondo del lavoro da diversi punti di vista.
“Ho pubblicato Il dipendente poco prima dei quarant’anni. Dopo aver lavorato per dieci anni nel settore bancario – un lavoro che non richiedeva un impegno particolare, si poteva tranquillamente vivacchiare – un head hunter mi ha selezionato per aprire la filiale italiana di una grande multinazionale della monetica. È stato uno shock: mi sono ritrovato in un ambiente in cui venivano richieste performance elevate e risultati concreti. Il romanzo, pur non essendo autobiografico, è nato dalla mia inquietudine, ci ho riversato le mie paure e le mie ossessioni, amplificandole. Parlando con alcuni colleghi, ho capito che la mia non era solo una storia personale. Stavo descrivendo la condizione di tantissime persone che si ritrovavano sole di fronte a un’azienda che diventava il loro universo, con il capo che assumeva quasi il ruolo di una divinità”.
La parabola discendente del manager Michele Garbo risucchia il lettore in un vortice di dipendenze, della quale l’ossessione per il lavoro e il potere non è forse neanche la più pericolosa. Si racconta un ambiente tossico, diremmo oggi senza la pretesa di suonare originali.
“Michele Garbo non vede mai un’alternativa possibile. E questo è ciò che accade a chi si lascia sedurre dal sistema: l’ambiente diventa tossico proprio a causa della struttura capitalista. Il capo non va sfidato, è come un dio, e chi lo mette in discussione può essere fatto fuori. A ogni livello, i colleghi sono rivali. In un contesto così influenzato dal denaro e dal potere, i rapporti umani basati su affetto e amicizia diventano eccezioni rarissime. È per questo che molte persone vivono il lavoro così male. Non si odia il lavoro in sé, si odia l’ambiente in cui si è costretti a lavorare. Io mi sono salvato grazie alle molte letture e all’affetto dei miei famigliari.”
Nella sua visione distorta della realtà, Michele Garbo misura il proprio e altrui valore attraverso la cifra scritta in busta paga e il ruolo scritto sul biglietto da visita.
“In tutti i miei romanzi ho parlato del lavoro da diverse prospettive. I lavoratori sono al servizio della massimizzazione del profitto, indipendentemente dal loro livello. Se sei un operaio, le ferite più gravi si manifestano nel corpo, attraverso lo sfruttamento e la mancanza di tempo. Ma per le élite e i manager, la lotta avviene a livello psicologico e dell’anima. Per far funzionare il sistema, anche i dirigenti devono essere sedotti: devono credere che la loro dedizione al lavoro sia una cosa buona per il mondo. Se iniziano a percepire che non è così, nascono conflitti interiori insostenibili. Da un lato ci sono i bonus e le ricompense materiali, dall’altro il senso di colpa per far parte di un sistema di sfruttamento. Questo genera tensioni così forti da portare al burnout o alla completa disumanizzazione.”
Dato che le nuove generazioni sembrano avere un approccio molto diverso al mondo del lavoro, c’è speranza di poter immaginare un futuro differente?
“Ho due figli e il loro approccio al lavoro è del tutto diverso dal mio. Per loro l’equilibrio tra vita privata e lavoro è fondamentale. Ai miei tempi era impensabile, io a un certo punto non facevo più distinzione tra il mio valore come persona e il mio valore come dipendente. Le nuove generazioni, invece, sembrano aver evitato questa trappola. Hanno uno sguardo più lucido, e questo mi dà speranza. Tuttavia, un tempo si aveva maggiore consapevolezza che per ottenere qualcosa bisognava stare insieme. Il capitalismo, invece, ci spinge verso la solitudine, eliminando ogni forma di solidarietà.”
Quando gli chiedo come interpreti l’improvviso e tanto sbandierato interesse delle aziende per i temi della sostenibilità e dell’inclusione (salvo clamorosi dietrofront), mi cita quanto scritto a pag. 91 del suo romanzo Memorie di un infedele (Bompiani). Per riassumere: le società capitalistiche sono amorali, capaci di amore solo per la massimizzazione del profitto, e l’immagine che meglio le rappresenta è quella di una mamma con il suo lattante.
Per dirla con le sue parole, “occorre tenere a mente questo quando le società proclamano il loro sincero impegno per un’economia verde, la riduzione delle disuguaglianze, l’aumento del benessere dei dipendenti e delle comunità in cui operano. Non è che siano tutte in malafede, anzi, ma prima di ogni altra cosa sono mamme, con un piccolino che ha bisogno del loro latte.”
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