Abbiamo perso l’abitudine a misurare

Il tema dei valori intangibili è più che mai all’ordine del giorno. Provo allora a navigare controcorrente: temo che stia passando di moda, con un impatto drammatico soprattutto sulle nuove generazioni, la capacità di valutare gli asset intangibili, di percepire la dimensione fisica delle cose. La quasi totale digitalizzazione di quello che ci circonda, futuro presente pieno […]

Il tema dei valori intangibili è più che mai all’ordine del giorno.
Provo allora a navigare controcorrente: temo che stia passando di moda, con un impatto drammatico soprattutto sulle nuove generazioni, la capacità di valutare gli asset intangibili, di percepire la dimensione fisica delle cose.
La quasi totale digitalizzazione di quello che ci circonda, futuro presente pieno di stupende e inesplorate opportunità, e che certo non metto in discussione, porta tuttavia qualche effetto collaterale.

Sapevamo a memoria date di nascita e agendina del telefono, oggi ricordiamo a malapena il nostro numero e il compleanno dei nostri figli; fare una divisione con carta e matita è diventato proibitivo; ricordare la capitale, i milioni di abitanti o i paesi confinanti dell’Olanda o del Brasile è sempre più difficile.

Credo che più di metà dei power bank si vendano per questo.
Passi restare senza telefono, già la situazione si aggrava se manca l’ossigeno di Facebook, Instagram o Whatsapp, ma senza WikiGoogle, nuovo Libro della Rivelazione, siamo davvero persi, quasi senza speranze. La buona memoria si è dissolta.

È un dramma? Certo che no. Tuttavia, quando senti di esami al 5° anno di Ingegneria Elettronica, stesso esercizio ma risultati espressi in Millivolt ovvero in MegaWatt, qualche dubbio arriva. Qualcuno è andato davvero fuori strada. Come chiedere quanto contiene il nostro flûte di Franciacorta e sentirsi rispondere in metri cubi al secondo o Kilojoule.

Stiamo perdendo, progressivamente, la capacità di percepire l’ordine di grandezza, quindi il reale valore delle cose. E questo credo davvero sia un grosso guaio.

Lo sgradito Macrotrend, combinato con il potere quasi illimitato di mezzi di comunicazione e “social”, che ci controllano dallo smart-coso che abbiamo in tasca o al polso, fa temere che sempre più cittadini perbene siano trasformati in sudditi di burattinai che agiscono come venditori truffaldini di titoli tossici.

E l’informazione, quella che dovrebbe avere la i maiuscola, è molto attenta ai numeri degli inserzionisti pubblicitari, molto meno ad aiutare il nuovo “popolo bue” a capire quello che succede. Continuo a chiedermi perché, con una valuta in tasca a qualche centinaio di milioni di persone, tutti i giornali d’europa (la e minuscola è voluta) continuano a misurare l’oro in dollari l’oncia e il petrolio in dollari al barile. Euro al Grammo e al Litro, no? Così, però, capiremmo.

Come comprare l’acqua minerale in bottiglia e leggere il prezzo in Yen al Gallone, o misurare la superficie calpestabile di un appartamento in biolche. No, questo non mi piace proprio.
Qualche anno fa, un paio di settimane dopo il fallimento Lehman Brothers, il pessimo clima autunnale faceva il paio con lo sgomento per quanto ci stava succedendo, e crollando, attorno.

Avevo appuntamento in aula con i ragazzi del Master aziendale e, più che parlare di sistemi di valutazione e percorsi di carriera, ho provato a dar loro qualche chiave di lettura della situazione.
“Lavoriamo poco lontano da Sassuolo, in provincia di Modena, da più di 50 anni ricca capitale mondiale della ceramica; una delle tradizioni più radicate, qui, sono le Fiere di Ottobre. Una per Domenica, che segna(va) il passaggio da una stagione agricola a quella successiva. Erano fiere povere, povera come Sassuolo prima di iniziare a vendere terra rossa a peso d’oro; quella della quarta settimana era “la féra di sdàs“, la fiera dei setacci. Il setaccio, oggetto povero e maltrattato, che lascia la farina e trattiene la crusca, non è mai stato un simbolo particolarmente positivo.

Oggi, con il sano ritorno al cibo integrale, sarebbe ora di rivalutarlo.

Seduti fuori dalla fiera, vedendo uscire qualche agricoltore con un paio di setacci in spalla, si diceva “pessimo raccolto quest’anno”, ma se qualcuno usciva con sette, otto setacci, allora sì che l’anno era andato davvero bene.
Ora, cosa c’entrano i setacci con lo shock finanziario del 2008?  Presto detto.

La conclusione fu: “Siamo all’inizio di una crisi, probabilmente senza precedenti, perché sincronizzata e di rapidità e violenza inaudita; non ne usciremo prima di qualche anno” (pensavo di essere pessimista, allora. Non lo ero).
“Cosa mi auguro? Ne verremo fuori, quello lo do per scontato, ma l’augurio vero è che ne usciamo migliori di come ci siamo entrati, capendo la lezione.
E vorrei che ne uscissimo meno arroganti, più capaci di affrontare le prossime sfide con umiltà e senso della misura.

Ultimo, ma forse più importante, a proposito di senso della misura, vorrei che ci riprendessimo la capacità di valutare le aziende, unico motore dello sviluppo, non per l’attualizzazione virtuale dei flussi di cassa attesi, frutto di parametri fasulli, derivate seconde o terze di proiezioni campate in aria, ma semplicemente per i metri quadrati coperti, per i quintali di ferro che ci sono in magazzino e, soprattutto, per il numero di persone che, dentro, ci lavorano e ci credono.”

Valori veri, quindi. Che si contano, si toccano con mano, si vivono dall’interno. Impossibili da leggere, e capire, sullo smartphone, da remoto, con distacco perché non è “roba nostra”. Anche qui, temo, ero decisamente ottimista.

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