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Al nuovo “politichese” basta davvero uno smartphone?
Il 26 maggio i cittadini italiani saranno chiamati alle urne per votare i deputati che siederanno tra le file del Parlamento europeo di Bruxelles. In un certo senso, è diventato il D-Day dei partiti politici italiani e l’oracolo da cui dipende la sopravvivenza del Governo: sono giorni che i principali leader delle fazioni politiche bombardano […]
Il 26 maggio i cittadini italiani saranno chiamati alle urne per votare i deputati che siederanno tra le file del Parlamento europeo di Bruxelles. In un certo senso, è diventato il D-Day dei partiti politici italiani e l’oracolo da cui dipende la sopravvivenza del Governo: sono giorni che i principali leader delle fazioni politiche bombardano le televisioni, le radio e i giornali con frasi a effetto, diverse e così uguali fra loro, per accaparrarsi voti e fiducia. Parole, tweet, like, foto, video: così la politica e i suoi protagonisti stanno modificando la società in attesa del verdetto.
Perché il mondo politico è cambiato. La trasformazione che ha subito in questi ultimi anni non riguarda solo i volti della politica, ma anche i nuovi modi di farla: le piazze con le sedie scomode, i palchi in legno e i microfoni fischianti hanno lasciato spazio alle minitelecamere degli smartphone, alle dirette social, agli hashtag e ai commenti che variano dal positivo al negativo, passando anche per l’insulto.
In tutto questo marasma di novità e tecnologia, c’è una parte fondamentale della politica che ha conosciuto una metamorfosi improvvisa: il linguaggio politico, o “politichese”. Il politichese è sempre stato sinonimo di confusione, volutamente oscuro ed ermetico verso le persone non specializzate nella comprensione di tematiche e discorsi “senza arte né parte”. Oggi, invece, è diventato necessario servirsi di un nuovo registro linguistico per parlare al popolo elettore, contrassegnato da frasi catturate nel quotidiano e slogan che martellano nella testa e sulle tastiere. Diremmo in gergo: “Parla come mangi”.
Dal 2013 il professor Fabio Rugge è il Magnifico Rettore dell’Università di Pavia, dove detiene la cattedra da ordinario di Storia delle Istituzioni Politiche. In tempo di elezioni europee, con una campagna elettorale che sembra non essersi mai conclusa, abbiamo parlato con lui dei cambiamenti nella comunicazione politica degli ultimi anni.
Professor Rugge, che cosa vuol dire oggi fare politica ed essere un politico?
La figura del “politico” che conosciamo è emersa alla fine dell’Ottocento. È coetanea alla nascita dei partiti di massa, alla comunicazione di massa, allo sviluppo di uno stato sociale. Questo stato non si occupa solo di garantire l’ordine, ma vuole accompagnare lo sviluppo della società. Deve allora essere guidato da persone che si dedicano a rappresentare le esigenze di tutti gli strati sociali. Sono uomini, e presto anche donne, che lavorano a tempo pieno per svolgere questa funzione. Nasce allora il “politico” di professione. Il sociologo Max Weber definì così queste figure: «Persone che vivono per la politica e della politica». Ricevono indennità di carica, vengono nominati in posizioni remunerate, svolgono attività retribuita di giornalisti, saggisti, conferenzieri a favore di una certa area partitica. Oggi il politico di professione non è scomparso, ma è una figura dai requisiti meno precisi in un ambiente più turbolento. Questo ambiente rende sempre più difficili le vere e proprie “carriere politiche”. In effetti giungono in posizioni di responsabilità donne e uomini che non hanno alle spalle una scuola di partito, né competenze tecniche evidenti, né una provata esperienza di governo. Devono soprattutto essere capaci di interpretare i sentimenti dell’elettorato e i loro cambiamenti. Questa capacità empatica ha preso il sopravvento sugli altri requisiti del politico.
Com’è cambiato il concetto di politica nel nostro Paese rispetto alle prime due Repubbliche?
Non penso che ci troviamo in una Terza Repubblica, anche se il concetto di politica è molto cambiato, a partire dalla fine degli anni Ottanta dell’altro secolo. Fino a quella data, la politica è stata guidata da partiti che ruotavano attorno a verità dogmatiche: progetti sull’uomo, sul mondo e sul futuro. Cattolici, socialisti, comunisti, liberali e post-fascisti erano interpreti e testimoni di quei progetti. Detto così sembra molto bello, ma il fatto è che, per conseguenza, i cittadini votavano per atto di fede. Valutavano poco le prestazioni dei governanti, così l’elettorato era stabile e anche i governi. Le alleanze e i premier cambiavano sì a un ritmo infernale, ma sempre all’interno di uno schema immutabile. Questa immutabilità ha prodotto, alla fine, cattive scelte politiche e anche corruzione. Siamo arrivati quindi all’era di Berlusconi e Prodi, l’epoca di un tentativo di bipolarismo. C’è stata una breve esperienza di avvicendamento di coalizioni contrapposte, ma i tempi erano cambiati. Le “fedi politiche” si erano dissolte. Oggi l’elettorato è diventato impaziente e imprevedibile, e forse anche un po’ più egoista; vuole politiche che lo soddisfino, altrimenti cambia facilmente partito e rumoreggia sui social media. La politica non è più contrapposizione su progetti quasi metafisici né confronto sui programmi. È principalmente duello mediatico, su soluzioni che trovino consenso immediato in un’opinione pubblica molto frammentata.
Della politica è cambiato anche l’uso dei canali di comunicazione.
Questo è forse il cambiamento più imponente, a proposito del quale so dire solo che avrà delle conseguenze oggi non prevedibili. L’applicazione di nuove tecniche di stampa, l’introduzione della radio e poi quella della televisione, hanno marcato cambiamenti importanti nella comunicazione politica con un tratto di sostanziale continuità. Da una parte c’erano i produttori della comunicazione (giornalisti della stampa, radio e televisione), dall’altra i fruitori; i primi erano pochi e selezionati, i secondi una massa indistinta. È questa la relazione. La Rete produce invece una rivoluzione: i fruitori diventano produttori e viceversa. Basta avere a disposizione una tastiera connessa e uno smartphone e si diventa cronisti, opinionisti, influencer a bassa o alta scala; qualcosa di comparabile solo a ciò che è successo mezzo millennio fa con la diffusione della stampa. Improvvisamente scrivere un libro è diventato molto più facile, sono state inventate le “gazzette”; far conoscere le proprie idee è diventato un gioco rispetto al passato. Hanno preso la parola nuove “autorità”, ma nel dopo Gutenberg erano ancora limitate. Oggi ognuno di noi è un’autorità o lo può divenire: basta che abbia un computer. E nel frattempo la percentuale di donne e uomini che sanno leggere nel mondo è salita all’85%. Come finirà? A furia di scrivere libri e giornali si è arrivati all’Illuminismo e alla Rivoluzione francese, inaugurando una nuova stagione dell’umanità. Dove ci porteranno i blog e Youtube? Chi fa politica per governare comunità piccole e grandi deve stare in quell’arena, vincere e convincere. È comprensibile che badi più alle emozioni che ai contenuti.
Che ideologia si trova dietro il nuovo politichese? Questo nuovo linguaggio si avvicina davvero al popolo o lo sminuisce?
Il cambiamento ha riguardato anche il politichese. Pensiamo a cinquant’anni fa: il leader di turno doveva fare scattare il corto circuito tra le grandi ideologie e la bassa cucina delle decisioni di governo; gli stili e le formule dovevano risultare alti, servire una liturgia, suscitare emozioni nobili. Il linguaggio dei politici di oggi deve essere più semplice. Non deve mediare tra il cielo e la terra; deve trasmettere emozioni che somiglino a quelle provate dalla platea. Tecnicamente, deve adattarsi al numero dei caratteri di un tweet. Dietro questo linguaggio c’è un’ideologia: è l’ideologia della nuova arena politica. Se dovessi dire qual è, userei il motto “non me la dai a bere”. Il cittadino si aspetta una comunicazione sincera e pratica, senza fumisterie, e questo potrebbe essere un buon monito ai politici magniloquenti. Senonché “non me la dai a bere” può anche essere l’espressione imperativa dell’arrogante, di quello che non vuole accettare che le cose hanno una loro complessità, o semplicemente di quello che non vuole essere contraddetto. Se il politico si lasciasse intimidire da questo tipo di imperativo, sostituirebbe al politichese supponente e ingannevole quello che adula e compiace l’elettore. E non sarebbe un gran passo avanti.
Il politichese è quindi diventato un personaggio della Commedia dell’Arte, che si avvicina moltissimo all’italiano autoctono, ma nascondendo la sua originale natura: confondere le acque.
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