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Come si trova lavoro al Sud
(in collaborazione con Osvaldo Danzi) C’è una differenza sostanziale nel reperimento di risorse umane al Sud rispetto ad altre aree d’Italia. Per questo dobbiamo partire da un presupposto che non vorrei sembrasse una giustificazione, ma un vero e proprio dato di fatto: la cultura del lavoro. O meglio, la cultura d’impresa. Lo scenario è caratterizzato da tre […]
(in collaborazione con Osvaldo Danzi)
C’è una differenza sostanziale nel reperimento di risorse umane al Sud rispetto ad altre aree d’Italia. Per questo dobbiamo partire da un presupposto che non vorrei sembrasse una giustificazione, ma un vero e proprio dato di fatto: la cultura del lavoro. O meglio, la cultura d’impresa. Lo scenario è caratterizzato da tre elementi estremamente radicati nel sistema industriale e sociale: un tessuto composto da aziende prevalentemente a conduzione familiare dove la struttura manageriale è inesistente; una densità numerica decisamente inferiore rispetto a città che presentano nel loro macrosistema economico delle zone industriali se non dei veri e propri distretti; la lentezza nel travaso delle competenze.
Quando il sipario si apre, questa è la scena che appare agli spettatori.
I titolari d’impresa sono spesso anche gli unici “dirigenti”. A loro è affidata l’area sales e in contemporanea l’area finance. Esistono delle realtà così strutturate che hanno anche un discreto tasso di internazionalizzazione, non ci sbagliamo, ma è completamente assente l’organigramma tradizionale, spesso rappresentato in maniera “familiare” o basato sull’emergenza del momento. Oppure, i ruoli dirigenziali sono stati da sempre affidati a consulenze esterne non sempre realmente efficaci.
Prima del 2008 la difficoltà di questi mercati stava non solo nella carenza di reperimento di figure più strutturate che aiutassero le imprese a fare “il salto”, ma anche nella difficoltà di quei manager e professionisti ad adeguarsi a quel tipo di organizzazioni. Ma senza necessariamente parlare di manager, anche i giovani talenti, una volta conseguito il loro master o ben scolarizzati dagli Istituti Professionali di riferimento, si imbattevano in quelle realtà e scappavano verso Nord, dove trovavano maggiore attinenza al panorama che quelle scuole avevano loro fatto immaginare.
Dall’altro canto le aziende sentono la necessità di dover fare un passaggio di livello, il bisogno di integrare nella loro organizzazione delle figure più preparate, ma poi si trovavano nella imbarazzante situazione di non saperle gestire o peggio, di non voler pagare un lavoro di cui non sono in grado di percepirne il valore.
Da questo punto di vista la crisi ha rappresentato realmente un’opportunità per il Sud, offerta dal compromesso con coloro che perso il lavoro avevano la necessità di “tornare verso casa”, disponibili ad accettare retribuzioni inferiori ed ambienti di lavoro meno interessanti rispetto alle grandi aziende del Nord. A patto tuttavia di riavvicinarsi alle origini e anche ad uno stile di vita meno “compresso”. Questa flessibilità ha permesso agli imprenditori di accedere a quelle professionalità che hanno aperto loro la strada per le fiere, per nuovi processi e per benchmark di riferimento con altre aziende.
Se la crisi ha rappresentato un fattore positivo per la crescita interna di alcune aziende, dal lato dei dipendenti non possiamo nascondere che a fronte di un ritorno alle radici l’impatto con aziende a scarso valore multinazionale dove le specializzazioni vengono soffocate a favore di competenze e compiti più generalisti e spesso anche più ampi del proprio profilo professionale ha creato dei black-out professionali da parte di quegli imprenditori che non hanno saputo sfruttare appieno l’occasione che veniva loro presentata. Non tutti hanno accettato il tacito accordo “ti permetto di tornare a casa tua dove hai meno costi in cambio di un lavoro meno appagante” creando di fatto un ulteriore fenomeno: i candidati in transito.
Se una parte di candidati ha accettato di buon grado la nuova situazione, adattandosi e trovando nuovi equilibri, altri hanno usato il nuovo lavoro per cercarne un altro. È innegabile che si abbiano maggiori opportunità di lavoro quando si è occupati. Altresì è statistico che i disoccupati del Nord accettino un lavoro al Sud solo per trovare un modo per tornare di nuovo al Nord.
Altra panoramica complessa è quella che riguarda l’adesione – o l’accettazione – di forme di lavoro nero ancora molto presenti al Sud soprattutto nei comparti dell’agricoltura, dell’ospitalità e della manovalanza generica. Ci sono ancora stralci di fenomeni come le formule contrattuali “miste” (metà stipendio in busta e metà stipendio in nero), così come spesso si sente dire, anche se non ho mai avuto un’esperienza diretta, di lettere di dimissioni firmate al momento dell’assunzione. Non è una procedura rara, suggerita da amministratori senza scrupoli, cessare un contratto con la scusa di un passaggio ad altra ragione sociale dove una volta approdati, magicamente non si passa il periodo di prova. La necessità di provvedere alla famiglia in questi territori non ha ancora posto un freno a intermediazioni che ledono le forme più elementari di dignità.
Da questo punto di vista il Jobs Act, sebbene non si possa dire che abbia consolidato una effettiva ripresa, di certo è servito a sostituire forme contrattuali che non sussistevano più. È anche vero che è stato erroneamente percepito dagli imprenditori come uno strumento di maggiore libertà nella gestione delle assunzioni e dei licenziamenti. Ma la dove latitano le istituzioni e le associazioni di categoria, c’è da dire che esistono settori come la Meccatronica e l’IT in grandissima espansione in cui sono le scuole che motivano e muovono soluzioni di integrazione con le aziende e lo sviluppo di nuove competenze. Aree di forte sviluppo che possono permettere al Sud una grande visibilità industriale sono quelle legate all’Aeronautica (in particolare modo nella zona di Grottaglie) e le nanotecnologie (nell’hinterland Leccese).
Da questo punto di vista non trovo le parole di Renzi così lontane dalla nostra realtà, troppo spesso sostenuta dallo Stato in cui si è creata una vera e propria cultura dell’assistenzialismo, ancorati ad un passato caratterizzato da un forte lobbismo clientelare e alla politica, a sfavore di molte aree che invece hanno potenzialità immense e una grande voglia di emergere.
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