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Cefa Onlus sugli immigrati: “Quando arrivano ai margini, meritano un ritorno dignitoso”
“Chiudiamo i porti” “Lasciate gli immigrati al largo” Quante innumerevoli volte abbiamo sentito questi strilli sui quotidiani, sui settimanali, in televisione. Quante innumerevoli volte. Oggi anche noi parliamo di immigrazione, ma vogliamo farlo con un filtro diverso. Con l’occhio di chi è partito, ha lasciato familiari e radici, è sbarcato in Italia, ha lavorato, ha […]
“Chiudiamo i porti”
“Lasciate gli immigrati al largo”
Quante innumerevoli volte abbiamo sentito questi strilli sui quotidiani, sui settimanali, in televisione. Quante innumerevoli volte. Oggi anche noi parliamo di immigrazione, ma vogliamo farlo con un filtro diverso. Con l’occhio di chi è partito, ha lasciato familiari e radici, è sbarcato in Italia, ha lavorato, ha creduto di poter migliorare le proprie condizioni e ha fallito. E ora vuole tornare dove ha una famiglia, lontano dalla crisi che gli ha tolto il lavoro, lontano da condizioni estreme, forse peggiori di quelle che ha lasciato in patria.
Parliamo dei migranti che dall’Italia vogliono scappare. E lo facciamo con Andrea Tolomelli, responsabile dei progetti di Cefa Onlus in Tunisia, Libia e Marocco. Cefa è una Ong legata principalmente allo sviluppo agricolo dei paesi del sud del mondo, ma nel tempo ha sviluppato azioni sociali, educative e di tutela dei diritti umani. In particolare dal 2012 ha iniziato a lavorare sul Rimpatrio Volontario Assistito che nasce dalla direttiva UE 115 del 2008 e che prevede un sostegno ai migranti che, volontariamente, decidono di tornare nel paese d’origine.
Come siete arrivati all’ideazione del progetto?
Cefa ha sempre sostenuto la necessità di accoglienza per i migranti in arrivo nel nostro paese, ma dopo un lungo periodo di discussione è stato deciso che era importante offrire a chi era arrivato ai margini della società italiana, la possibilità di un ritorno dignitoso.
In che condizioni erano?
Erano e sono spesso ospiti di dormitori e rassegnati a una vita irregolare, estremamente precaria e a volte pericolosa.
Sono in molti a voler tornare?
Sono tanti, ma Cefa in questo caso non può lavorare su grandi numeri. In quattro interventi, tra Tunisia e Marocco, sono rientrati 207 migranti. Il motivo dei numeri bassi dipende dal fatto che innanzitutto vogliamo lavorare in paesi dove il rientro non mette a repentaglio la sicurezza del beneficiario. Non mi riferisco solo alle guerre ma anche alla sicurezza sanitaria. Inoltre un numero limitato di persone, considerata la scarsità di risorse che ci sono per questo tipo di progetti, consente di fornire un servizio dignitoso a tutti quelli che decidono di intraprendere il percorso di rientro.
Come si sviluppa il rimpatrio?
Il progetto prevede un accompagnamento sia in Italia che in loco, dove con un budget di 2.000 euro si implementano attività lavorative. I soldi non vengono consegnati cash, ma in beni e servizi concordati con la persona. Una volta arrivato nel paese d’origine il beneficiario viene seguito per almeno 6 mesi, così il rimpatrio è gestito socialmente, economicamente, ma soprattutto psicologicamente.
Quali sono le problematiche del reinserimento?
Nella maggioranza dei casi, per non dire in tutti, il reinserimento sociale dei migranti senza figli non è un problema. La maggior parte di essi ritorna in famiglia. Il miglioramento è quindi immediato, considerato che la maggior parte delle persone proveniva da mesi di dormitori pubblici o lunghe permanenze in automobili.
E per i migranti con figli?
Il reinserimento sociale è più complesso per le famiglie con minori, perché spesso questi ultimi sono nati e cresciuti in Italia e il loro reinserimento paga un gap linguistico e culturale molto complesso. La lingua che conoscono e parlano (ma soprattutto scrivono) è l’italiano, mentre la lingua dei genitori è spesso conosciuta solo a livello parlato. Il problema, per paesi come la Tunisia e il Marocco, è che la lingua “franca” cioè il francese spesso è totalmente sconosciuto ai ragazzi. Inoltre la differente percezione dell’adolescenza tra Europa e paesi arabi provoca uno shock culturale non facile da gestire.
Il problema maggiore quindi è quello psicologico.
Gli adulti devono affrontare lo stigma del fallimento davanti a una società che non prende in considerazione questa eventualità e spesso il fallimento del percorso migratorio si traduce in una percezione di fallimento personale totale. I giovani si trovano ad essere privi di riferimenti culturali certi e di radici chiare.
Il più semplice è quindi il reinserimento economico?
La maggior parte dei beneficiari ha aperto piccole attività di commercio, spesso legate all’acquisto di una specie di ape-car per le piccole consegne e il trasporto di materiale. Altri hanno acquistato una macchina per diventare taxisti, altri ancora hanno riabilitato il piano terra delle loro abitazioni famigliari per trasformarle in negozio di quartiere, tanto che somigliano alle nostre antiche drogherie. Alcuni hanno deciso di investire nelle attività agricole della famiglia programmando gli investimenti assieme ai parenti. Hanno così risolto problemi endemici di irrigazione, usato i fondi per la copertura delle stalle o per acquistare capi di bestiame. Un beneficiario della zona di Eassouira in Marocco ha avviato un allevamento avicolo e dopo un anno aveva già assunto due collaboratori.
E per i migranti che restano quali sono le prospettive?
Qui i migranti sono in una situazione terribile. Da una parte vivono la spinta migratoria che spesso è vista come un investimento da parte delle famiglie. L’idea è quella di mandare il figlio più forte e sano, sperando che ce la faccia, perché chi rimane è consapevole che altrimenti non potrà mai cambiare una vita fatta di miseria. Dall’altra parte i migranti trovano un’Europa che distingue chi scappa da guerre o eventi catastrofici e si chiude sempre di più. E’ nata l’accezione di migrante economico, come se cercare una vita dignitosa e una speranza per sé e per la propria famiglia non fosse un motivo accettabile per cercare fortuna altrove. I migranti partono e si trovano in un’Europa impaurita, che spesso per nascondere politiche economiche fallimentari, volge l’attenzione su di loro che, almeno in Italia, numericamente non sarebbero un problema. Il clima di caccia alle streghe è davvero preoccupante. Poi c’è la globalizzazione che necessita di mano d’opera a basso costo e rende il migrante “irregolare” una risorsa preziosa perché sfruttabile, se non schiavizzabile. Rosarno e Salluzzo sono solo due luoghi. I più famosi. Ma ce ne sono molti altri.
Esistono soluzioni realisticamente prospettabili?
Bisognerebbe partire dalla riapertura di una migrazione legale, magari con quote e flussi definiti se si teme l’invasione, ma accettando il fatto che è impossibile fermare chi cerca un’opportunità dignitosa di vita. L’attuale politica, iniziata dal ministro Minniti e proseguita da Salvini, sta portando a una forte diminuzione delle partenze dalla Libia, ma il non detto è che i centri di detenzione in Libia stanno scoppiando. Nei centri “governativi” nei quali sono ammesse le ONG (MSF, OIM, UNHCR, ma anche CEFA) la popolazione reclusa è raddoppiata da inizio anno e le strutture già fatiscenti e cadenti, sono al collasso. Il personale di guardia non è preparato e il sovraffollamento sta creando condizioni di vita inumane anche in assenza di torture, con la logica conseguenza di rivolte represse con violenza.
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