Il sindacato USB e numerose associazioni manifestano contro le contraddizioni dello Stato sugli irregolari: con una circolare il Viminale scatena il caos e si rimangia i decreti 34 e 130 del 2020.
Con la cultura Milano mangia a sbafo
Due indagini fotografano lo stato dei lavoratori del settore culturale dopo la pandemia. Il risultato è impietoso: la stabilità si trasforma in precariato, il precariato in disoccupazione. E Milano guadagna un triste primato.
La notizia è qui, nemmeno troppo nascosta tra le righe.
Stiamo parlando della piaga del precariato e dello sfruttamento del lavoro nel settore culturale-editoriale italiano, dove è manifesta la diffidenza nel considerare la cultura attività produttiva. La svalutazione è tale che nessuna istituzione raccoglie dati in modo sistematico, e neanche le principali fonti statistiche (ISTAT e AIE) riescono a procurare dati quantitativi utili a comprendere i cambiamenti dei settori artistici, creativi, culturali, in cui la crescita del lavoro autonomo e “atipico” è associata a un peggioramento delle condizioni lavorative e da remunerazioni sempre più basse.
A partire da aprile 2019 Redacta (nata dall’iniziativa di alcuni soci/e Acta, associazione che mette in rete i freelance) ha avviato un’inchiesta sulle condizioni di lavoro nell’editoria libraria presentata durante la European Freelancers Week a Milano il 25 ottobre 2019, nell’ambito di Works in progress. Il lavoro in prospettiva, patrocinata dalla città di Milano. Un’area limitata ma cruciale, per il settore editoriale.
Settore culturale, è Milano la capitale dello sfruttamento
Milano, locomotiva d’Italia con tutta la sua economia degli eventi, è la città dove il lavoro intellettuale è sfruttato di più.
Infatti, secondo il rapporto Io sono cultura – L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi diffuso da Symbola e Unioncamere, il sistema produttivo-culturale in Lombardia vale 24 miliardi (ovvero il 7% della ricchezza della regione) e impiega un occupato su quattro. Dietro questi fiorenti dati, la realtà ci racconta una storia fatta di sfruttamento, lavoro non pagato o alla peggio pagato in gloria.
A questo fine sono stati intervistati professionisti (290 persone in totale) con diversi livelli di esperienza in tutta Italia, e nel settembre 2019 è stato pubblicato online un sondaggio anonimo per raccogliere dati quantitativi. La ricerca è rimasta aperta sino ai primi mesi del 2020, ove la prima parte è incentrata sull’identità dei rispondenti e le loro condizioni lavorative e reddituali, e la seconda parte invece sulle retribuzioni, confluite nella sezione compensi del sito di Redacta. I dati sulle tariffe e i compensi costituiscono la parte più rilevante del sondaggio, che viene costantemente aggiornata con nuove segnalazioni.
Oltre la metà dei compilatori del sondaggio Redacta (il 55% del totale) dichiara di avere un reddito annuo lordo inferiore a 15.000 euro per lavorare tra le 25 e le 55 ore alla settimana. Lavori faticosi, che impegnano molto spesso quanto un lavoro full time da dipendente e, se ci sono urgenze, si copre anche la notte e i festivi.
Altra piaga è quella del ritardo nei pagamenti. Simbolica la testimonianza di una lavoratrice che preferisce restare anonima: “Nel giugno di quest’anno avevo deciso di non fare vacanze perché avevo il conto in rosso. Due giorni dopo, sorpresa: mi arriva un bonifico di 500 euro, ma per un lavoro svolto nel 2015”.
L’editoria dei freelance: copertina morbida, anzi flessibile
Maura Gancitano, filosofa e fondatrice di Tlon, sul palco di Nobìlita 2021 ha parlato di “esplosione di produzione editoriale allucinante” come reazione delle case editrici alla pandemia. Un fenomeno che può solo acuire lo sfruttamento lavorativo individuato dal sondaggio.
La preparazione di un libro richiede un susseguirsi di professionalità tra cui editor, correttori, grafici, illustratori che, con la crisi di vendita dei libri si sono visti ridurre sempre di più le loro retribuzioni (a cartella o a forfait) a fronte di una sempre più concitata “flessibilità professionale”. Infatti i redattori, specie nelle piccole case editrici, devono provvedere a più attività: impaginazione, correzione bozze, riscrittura testi, ricerca illustrativa.
Come dichiara Giulia Carini, redattrice freelance e coautrice del report: “Oggi la lavorazione redazionale dei libri viene svolta sempre più all’esterno delle case editrici. Spesso i progetti sono affidati interamente agli studi editoriali, che poi scorporano nelle varie prestazioni il lavoro commissionandolo ai collaboratori esterni. Questo genera una compressione inevitabile dei compensi – che sono peraltro di difficile contrattazione dato l’isolamento in cui il freelance si trova – e dei tempi di consegna. A fronte di redazioni che si svuotano, il lavoro viene realizzato da freelance invisibili, e si tratta in maggioranza di donne pagate meno degli uomini”.
Già nel 2012 l’indagine Editoria invisibile registrava questa distribuzione delle tipologie contrattuali: 12,6% partita IVA individuale, 23,7% co.co.co. e co.co.pro., 21,9% occasionali, 20% diritto d’autore e appena il 7,7% lavoro dipendente. I dati raccolti da Redacta relativi al 2019 fotografano una situazione che, anche a causa della scomparsa dei co.co.pro., sembra essersi semplificata: l’88% dei rispondenti si qualifica come freelance.
Questo comportamento predatorio in cui si fa un uso seriale di contratti privi di costi contributivi, con predilezione per le modalità che consentono di non avere minimi contrattuali (come stage curriculare e collaborazione occasionale) è possibile per diversi fattori, tra cui i principali si possono sintetizzare in una contrattazione fortemente individualizzata; mancanza di parametri di riferimento che fissino dei minimi nella remunerazione; mancanza di controlli da parte dell’Ispettorato del Lavoro; omertà dei professionisti sulle retribuzioni e sulle condizioni contrattuali; eccesso – svalutazione di offerta di lavoro che spinge tantissimi lavoratori ad accettare compensi irrisori; assenza di un sindacato incapace di impiegare il suo strumento principe, la contrattazione collettiva, per tutelare i lavoratori non dipendenti.
Lavoratori dei beni culturali, con la cultura si mangia a malapena
È tragica quanto analoga ai loro “colleghi” la precarietà dei professionisti dei beni culturali (archeologi, operatori del turismo, educatori museali, storici dell’arte e tanto altro), che con la pandemia da COVID-19 è diventata una condizione costante.
A descrivere questa precarietà è il movimento nazionale e associazione Mi riconosci?, nato nel 2015, che punta a ottenere dignità ed eque retribuzioni per tutti i lavoratori e i professionisti del settore beni culturali. A un anno di distanza dal primo lockdown, il movimento ha condotto un’indagine di settore attraverso un questionario online, diffuso sul sito e sui social media: a rispondere all’inchiesta Cultura, lavoro e COVID: un anno dopo tra il 23 febbraio e il 31 marzo 2021 sono state 1.798 persone da tutta Italia, di cui più del 50% ha un’età compresa tra i 25 e i 35 anni.
Come spiega Rosanna Carrieri, storica dell’arte e coautrice dell’inchiesta: “Da marzo 2020 tante sono state le testimonianze che ci sono giunte e che raccontano storie quotidiane di difficoltà, assenza di tutele, crisi, lavoro in nero o non retribuito. Per questo abbiamo lanciato un questionario sul lavoro nel settore culturale: per fotografare la situazione a un anno dallo scoppio della pandemia e denunciare le condizioni di sfruttamento, ormai ordinario, che l’ultimo anno ha portato in luce”.
Dall’analisi affiora che il 65% degli intervistati aveva un lavoro prima della diffusione del COVID-19. Un’occupazione che però non è riuscito a preservare: infatti solo il 30,7% ha mantenuto il lavoro che aveva precedentemente alla pandemia, vale a dire 1.066 intervistati, mentre il 19,8% l’ha tenuto solo in parte, il 26,5% per nulla e il 23,1% in maniera intermittente. Le condizioni di quel 30,7% sono le più disparate: il 16,1% ha una partita IVA, il 18,4% ha un contratto multiservizi, il 9% un contratto turistico, il 12,6% è nel commercio e così via.
E quanto alle ore lavorate, il 56,2% delle persone che ha risposto alla domanda sul compenso dichiara che sono state molte di più di quelle effettivamente pagate, mentre il resto ha dichiarato di aver lavorato meno (20,2%) o lo stesso numero di ore (23,7%).
Per il 35,7% di chi ha potuto mantenere il lavoro nel settore dei beni culturali esso non è sufficiente per vivere dignitosamente, mentre il 31,1% pensa sia appena sufficiente. La maggioranza di chi ha risposto al sondaggio dichiara di essere riuscito a proseguire anche grazie ai sussidi lavorativi. E nonostante ciò, il 38,7% dei rispondenti non è per nulla soddisfatto degli aiuti statali.
Chi perde il lavoro nel settore culturale non lo ritrova in un caso su due
Tragici i dati di chi ha perso il lavoro. Di questi una buona fetta lavora nel turismo, oltre il 19%, il 14,6% nello spettacolo, l’8,8% nel commercio terziario e nei servizi. Lavoratori che a fronte della perdita del lavoro non sono riusciti a trovarne un altro, come ammette il 47,2%, i quali al momento non percepiscono né stipendio né sussidi, al contrario del 24,5% che ha trovato lavoro ma non percepisce sussidi. Il 17,7% ha dovuto cambiare settore per lavorare.
Come racconta una storica e critica dell’arte, partecipante al sondaggio (svolto in anonimo), “… dal 2009 ho sempre lavorato, ma in modo precario, prima co.co.pro., poi a tempo determinato e infine con partita IVA. A inizio 2020 lavoravo da circa un anno come consulente a partita IVA per una nota fondazione nazionale italiana che si occupa di valorizzazione e tutela del patrimonio storico, artistico e paesaggistico, guadagnavo circa 1.000 euro al mese netti. Il 10 marzo 2020 mi è stato comunicato (con un messaggio) che non c’era più bisogno di me al momento perché naturalmente i progetti che seguivo erano saltati, ci saremmo magari risentiti più avanti (così mi si diceva). Dopo un anno passato a mandare cv e partecipare a bandi ora da un mese ho vinto una borsa di studio di un anno che mi consentirà di non morire di fame, ma che non fa che prorogare l’agonia”.
Per concludere, impossibile non citare l’abusatissimo volontariato in entrambi i settori, divenuto uno strumento di scambio tra occasione di lavoro in cambio di visibilità, esperienza, conoscenze.
Lavorare senza essere pagati non è un’opportunità. La passione per il proprio mestiere non deve giustificare il mancato pagamento al lavoro svolto per la riconoscenza di averlo ottenuto.
Riflettiamoci su, prima di considerare un passatempo la cultura.
L’articolo prende spunto dal panel “Pandemia: tutta emergenza, niente cultura?”, che puoi seguire cliccando qui.
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