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Coronavirus, un italiano a Londra: “Qui le aziende erano pronte, altro che smart working. Il problema è il governo”
Vivo a Londra, e vorrei condividere con i compatrioti le mie esperienze oltremanica. In questi giorni si è scritto tanto sull’approccio del governo britannico alla pandemia causata dal SARS-CoV-2. Come sempre, orde di tribuni si scagliano a favore o contro. Si scrive e argomenta su tutto e il contrario di tutto. Molto è stato detto […]
Vivo a Londra, e vorrei condividere con i compatrioti le mie esperienze oltremanica.
In questi giorni si è scritto tanto sull’approccio del governo britannico alla pandemia causata dal SARS-CoV-2. Come sempre, orde di tribuni si scagliano a favore o contro. Si scrive e argomenta su tutto e il contrario di tutto. Molto è stato detto e molto si dirà. Non vale la pena sovrapporsi nella babele di opinioni; vorrei invece cercare di aprire una finestra su due mondi molto diversi per come affrontano questa sfida epocale, per come cercano risposte a domande mai fatte.
Tra i tanti articoli, opinioni e servizi che ho seguito, quello che passa al momento inosservato è quello che è successo e sta succedendo nel mondo di noi “normali”. Persone che non vivono al 10 di Downing Street, ma in un normalissimo flat. Persone che non vanno a lavorare a Westminster o White Hall, ma in un ufficio normalissimo, facendo un lavoro normalissimo. Ecco, allora, che forse possiamo fare un po’ di luce in quello che succede nel mondo normale britannico e lasciare a chi legge il compito di paragonarlo con quello che è successo nel mondo normale italiano.
Le aziende inglesi si preparano all’urto del contagio
Iniziamo con le presentazioni. Sono un italiano residente a Londra. Ho 52 anni, lunghe esperienze negli Stati Uniti, Spagna, Germania, Italia, e da cinque anni vivo a Sutton, nella periferia sud della capitale britannica. Lavoro per un’impresa svizzera specializzata in ingegneria nel settore ferroviario. Il mio ruolo è di sviluppare nuovi mercati (Director of Business Development) e fare in modo che il nostro lavoro venga eseguito a regola d’arte (Deputy to the Managing Director); in questo ruolo mi sono trovato a gestire la preparazione alla pandemia oltre tre settimane fa.
Questa in corso è la seconda settimana che lavoriamo da casa e va tutto bene. Contrariamente a quanto si possa percepire dai giornali, tantissime aziende come la nostra hanno caldamente invitato tutti i collaboratori a lavorare da casa. Nel mondo imprenditoriale sono in molti ad avere seri dubbi sulla solidità del piano del governo. Oltre alle ragionevoli preoccupazioni per la propria salute e quella dei collaboratori, il nostro maggior pensiero è stato quello di garantire la continuità delle attività lavorative. Se non lavoriamo, tutti, non mangiamo: come azienda e come singoli individui. In UK non ci sono gli ammortizzatori sociali (o sono minimi). Non esiste quasi la “malattia”: se ti ammali hai diritto a 90£ a settimana. Esiste un contributo di disoccupazione che arriva al massimo a 1300£ al mese, se sei fortunato (e un appartamento con due camere da letto in periferia a Londra costa tra i 1200£ e 1600£).
Qui vedi subito le prime differenze tra Italia e Regno Unito. Io ero andato via, sono ritornato, e sono andato di nuovo via dall’Italia perché non era possibile esprimere il proprio talento, dare impulso positivo con idee, creatività, iniziativa. Ma oggi mi rendo conto che c’è anche un prezzo da pagare. L’agilità, poi, la paghi con minor garanzie. Se sei debole e le stelle non si allineano, too bad, che in italiano possiamo grossolanamente tradurre in “peggio per te”.
Però ecco la nota positiva che contrasta i dubbi e le angosce dell’insicurezza. Qui, da italiano all’estero, ho visto la grande differenza tra i nostri due Paesi. Da anni per tutti noi è normale lavorare ovunque siamo, non solo in ufficio. Quello che in Italia ora viene chiamato “smart working” qui è da sempre “business as usual” (che poi: dire che ora si lavora in smart working presuppone che prima si lavorasse in “stupid working”?). La nostra rete dati è strutturata da anni in modo tale che non ha importanza dove uno sia. Siamo mentalmente flessibili, pronti ad abbracciare qualsiasi innovazione ci porti avanti. Siamo disciplinati e lavoriamo con serietà per l’obiettivo comune, anche se il “capo” non sta guardando. E questa è un’altra grande differenza: la produttività qui non si misura in ore spese in ufficio, ma in obiettivi raggiunti. Obiettivi che sono condivisi e discussi, e che poi si raggiungono insieme.
Londra, coronavirus: quando ti prepari in anticipo e il governo rovina tutto
Poi c’è quello di cui sentivo tanto la mancanza in Italia. La creatività italiana, chissà perché, fa sempre a pugni con programmazione, pianificazione. Il grande talento italiano non riesce a imbrigliarsi in ordine. Qui, invece, forse di creatività ce n’è di meno, ma almeno si fa di tutto per essere precisi, programmare, fare in modo che tutto sia prevedibile.
Ed eccoci qui: ci siamo preparati. Due settimane fa abbiamo chiuso l’ufficio per tre giorni. Tutti a lavorare da casa. Abbiamo avuto riunioni all hands (partecipazione di tutti) usando piattaforme di collaborazione virtuale. Abbiamo usato a nostro favore il vantaggio di tempo che avevamo, raffinando i nostri processi. Ci siamo ricondizionati a un nuovo modo di vivere. Siamo pronti per quello che sta arrivando.
E in tutta questa preparazione, ecco che casca l’asino. Come noi, molte aziende hanno fatto lo stesso. Siamo preparati, ma il nostro governo pare avere un’idea radicalmente diversa da tutti noi, accompagnandoci tutti insieme a compiere un salto nel buio. E qui, siamo tutti favolosamente impreparati. Siamo preparatamente impreparati. Tanto lavoro, processi, procedure, prove, e poi qualcuno ti spinge in un mondo buio e ti ritrovi italiano: improvvisi.
Sono sicuro che, dopo questa esperienza che cambierà la vita di tutti noi in modi a oggi impensabili, e che rivoluzionerà le nostre società, saremo tutti lì a rivalutare le nostre priorità e il modo in cui contribuiamo alla crescita della nostra comunità. Ma alla fine, everything is going to be alright.
Photo by Viktor Forgacs on Unsplash
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