Uscire di casa per lavorare, nonostante i rischi di contagio da COVID-19. Farlo per senso di responsabilità, perché si è italiani. Vedere le casse della propria impresa in perdita, mentre da fuori tutti sarebbero pronti a giurare il contrario, magari tacciandoti di essere, sotto sotto, un po’ avvoltoio. Nessuno spot li identifica come eroi in […]
Quando il calcio chiede privilegi, non ristori
Spese allegre e costante default: una Serie A sempre più scollata dalla realtà chiede aiuti allo Stato ma non riempie nemmeno gli stadi, con il debito del calcio italiano che ammontava a quasi 5 miliardi di euro già nel 2019. Dimenticate, invece, le categorie minori di un settore che dà lavoro a 300.000 addetti.
Questa sera si chiuderà la sessione invernale del mercato di riparazione. Quello in cui società oberate dai debiti si permettono di spendere e spandere, investire, togliere giocatori alle dirette concorrenti. Ogni considerazione sui ristori non può che partire da qui: come può un governo concedere agevolazioni a un settore che continua a indebitarsi?
Il calcio è una delle principali dieci industrie italiane: “Appassiona oltre 32 milioni di persone e dà lavoro a più di 300.000. Sono numeri che meritano considerazione e rispetto da parte del Governo: versiamo ogni anno 1,2 miliardi di contribuzione, non aiutarci in modo adeguato significa fare un autogol al sistema Italia”, ha dichiarato l’AD della Lega Luigi De Siervo alla Gazzetta dello Sport.
Ma è un’azienda che meriterebbe tutti i ristori di questo mondo se imparasse a comportarsi adeguatamente. Gli acquisti di Dusan Vlahovic da parte della Juventus e Robin Gosens da parte dell’Inter, due delle società con il debito maggiore tra le squadre di Serie A, ci raccontano che al ballo del Titanic, con la nave che affonda, nessuno ha davvero intenzione di fare un passo indietro.
Il calcio italiano non riempie gli stadi e non è colpa del COVID-19
Le società si lamentano per i mancati incassi derivanti dalla pandemia, ma nessuno sa davvero spiegarci un altro dato: da quando la gente è potuta tornare a occupare curve e tribune, un biglietto su quattro è rimasto invenduto. E questo nonostante la riduzione delle capienze.
Matteo Pincini scrive su Repubblica che sono, per l’esattezza, 1.109.618 posti invenduti. Che vogliono dire 76 milioni di euro di mancati incassi. Non c’è dubbio che la paura del virus, le inevitabili limitazioni, le mascherine – per la verità molto poco usate – abbiano contribuito a tenere la gente lontana dallo stadio, ma anche prima della pandemia la Serie A era al nono posto in Europa per capacità di riempimento degli impianti. E anche in questo caso è molto probabile che sia la mancanza di competitività e di ripartizione dei diritti televisivi la causa principale.
Mentre in Inghilterra, Spagna e Francia la Coppa nazionale diventa un torneo che permette a squadre di piccole cittadine di ospitare e sfidare le big nei loro piccoli stadi, in Italia vediamo squadre di Serie B costrette a fare passerella in un San Siro completamente vuoto. Nel frattempo, oltralpe assistiamo alla favola del piccolo Versailles costretto a chiedere un anticipo d’orario per sfidare il Tolosa perché l’illuminazione dello stadio disturba la visuale del Re Sole, e del Bergerac – paese di Cyrano – che ospiterà il Saint-Étienne, che tra le sue medaglie al petto annovera una finale di Coppa dei Campioni.
La corsia preferenziale del calcio in pandemia
Il calcio italiano si è progressivamente scollato dal mondo che gli gira attorno, e non solo per quanto riguarda i ristori. Nell’ultimo biennio si è sentito al di sopra delle regole e del resto del Paese: Vlahovic che per andare a fare le visite mediche con la Juventus non rispetta la quarantena, giocatori che in pieno lockdown vanno in montagna o al mare mentre ai comuni mortali non è permesso andare a un funerale in un Comune diverso, hanno fatto perdere credibilità a tutto il sistema calcio. Che, per intenderci, non è rappresentato solo dalla Serie A.
In quei 300.000 ci sono tutti gli addetti ai lavori dei settori giovanili e scolastici che sì avrebbero bisogno di ristori, com’è accaduto in Francia dove 7 milioni su 8 – ah, il modello francese – sono stati garantiti a loro. Perché la pandemia ha tolto a molti ragazzi la possibilità di allenarsi e di giocare, li ha impigriti, e ha reso difficilissimo gestire una piccola società. È dall’ottobre del 2020 che è subentrato un delirio di onnipotenza, dettato probabilmente dalla disperazione per la sofferenza di bilanci già disastrati prima del COVID-19.
La parola preferita dai dirigenti è default. Ma non è il calcio a essere a rischio, perché il calcio è un gioco ed esisterà sempre, anche senza gli ingaggi gonfiati dei campioni o le laute commissioni dei procuratori. “Dobbiamo essere competitivi con le grandi d’Europa” dicono i dirigenti italiani. Gli stessi che continuano a veder aumentare i propri guadagni: secondo un dossier pubblicato da Calcio e Finanza un paio di settimane fa, i compensi ai CDA dei sei club italiani più in vista (Inter, Juventus, Lazio, Milan, Napoli e Roma) durante la stagione scorsa hanno raggiunto 12,7 milioni di euro, in aumento del 16,6% rispetto ai 10,9 milioni del 2019/20 – prima dello scoppio della pandemia.
In testa c’è la Roma con 3.586.000 euro, seguita dal Milan con 3.450.000, dal Napoli con 2.208.000, dall’Inter con 1.516.000, dalla Juventus con 1.271.000 e dalla Lazio con 687.000. Per quanto riguarda i singoli dirigenti, il più pagato è il presidente del Verona Maurizio Setti, che guadagna 3,788 milioni di euro rispetto ai 3,061 milioni della stagione 2019/20. Alle sue spalle, secondo i dati ufficiali, viene il CEO del Milan Ivan Gazidis, con un compenso da 3,150 milioni. Fabio Paratici, che nel frattempo ha lasciato la Juventus, era il terzo con 2,6 milioni. Secondo quanto riferito dalla Gazzetta dello Sport a suo tempo, l’AD dell’Inter Giuseppe Marotta ha un ingaggio da 1,5 milioni di euro a stagione, esclusi i bonus. Sono le società che rischiano il default, non il calcio.
Società che hanno avuto dei cattivi amministratori già prima del COVID-19. Basti pensare al debito del sistema calcio nel 2019: 4 miliardi e 661 milioni. Negli ultimi vent’anni sono fallite 170 società, e sette di queste rappresentano le prime dieci città d’Italia: Napoli, Bologna, Firenze, Torino, Catania, Palermo e Bari.
Il calcio che rischia il default ha già usufruito di una disposizione inserita nella Legge di Bilancio per la sospensione dal 1° gennaio al 30 aprile 2022 dei versamenti delle ritenute fiscali e previdenziali. Un aiuto concreto, una manovra che rinvia il pagamento delle tasse e delle imposte. A quante aziende è stato permesso? Ha salvato il grosso dei suoi introiti: i diritti televisivi. E questo mentre le sale cinematografiche chiudono, i teatri fanno fatica a fare una programmazione, i concerti si tengono praticamente solo in estate.
Il sistema calcio chiede ristori per coprire le sue mancanze
Se il calcio vuole altri aiuti dello Stato, deve iniziare a offrire qualcosa in cambio, a fare chiarezza su certe dinamiche. Non possiamo più berci i pagherò in nome della competitività in Europa, se in Europa non si vince ormai da dodici anni. Fino a quando i club verseranno cifre folli per comprare giocatori e pagare le mediazioni dei procuratori (quelli di Vlahovic incasseranno 15 milioni, due anni dello stipendio netto del giocatore, per un atleta che a giugno si sarebbe liberato a parametro zero), non potranno fare le vittime. I limiti oltre i quali non si può andare dovranno imporli per primi i club e, in seconda battuta, le istituzioni.
L’Inter che campa a debito con un bond da 415 milioni, emesso a copertura di altri debiti, dopo aver acquistato da una diretta concorrente come l’Atalanta uno dei suoi calciatori più forti, è l’ennesima dimostrazione che il calcio ha delle regole tutte sue. Si tratta della stessa società che ha dato in pegno le proprie azioni alla statunitense Oaktree, la stessa con un rosso nell’ultimo bilancio di 245 milioni. Il tutto mentre la Juventus ha dovuto ricapitalizzare 400 milioni dinanzi al rosso di bilancio di 209,9 milioni. Milan e Roma non se la passano molto meglio. La Lazio e il Napoli, che provano a mettere i bilanci davanti alla smania di acquistare con i soldi del Monopoli, vengono derise dai loro tifosi, contestate e in alcuni casi abbandonate.
Aprendo un giornale e leggendo della crisi delle imprese si ha la sensazione di due mondi paralleli e non comunicanti. Da un lato gli ingaggi dei calciatori, dall’altro una ditta di Napoli che per un lavoro da receptionist offre 500 euro e tra i requisiti richiede una foto in costume da bagno. Il confine tra morale e retorica è molto labile, ma esistono modelli molto più virtuosi – seppur ugualmente capitalistici – del panem et circensem romano: quello americano, ad esempio, con un tetto salariale, acquisti regolati in modo da salvaguardare l’equilibrio dei tornei con le prime scelte e i giovani delle università da promuovere, diritti televisivi ugualmente ripartiti o addirittura maggiori per chi riempie anche gli stadi e i palazzetti.
Franco Ordine, del Giornale, scrive: “Se davvero il premier Draghi dovesse accogliere il grido di dolore del calcio italiano, bisognerebbe comunque applicare al settore, che continua a viaggiare verso gli scogli dei debiti lasciando suonare l’orchestrina di investimenti super e stipendi da mille e una notte, un minimo di regole. La più stringente delle quali dovrebbe essere la più semplice: se accetti soldi dallo Stato, quindi dai contribuenti, hai l’obbligo di esercitare una virtuosa amministrazione. Che vuol dire rispettare la proporzione tra fatturato e monte-stipendi dei tesserati, evitando scommesse molto rischiose nel tentativo di centrare prestigiosi successi o postdatando il pagamento delle operazioni di calcio-mercato”.
Cambiare si può: lo testimonia il calcio oltreconfine
In Francia il governo ha stanziato otto miliardi di euro di cui uno – dicasi uno – ai club professionistici. Il punto, come ricorderete, è che la Francia ha una storia ben diversa da quella del calcio italiano in pandemia. Il governo francese sospese la Ligue 1nella primavera del 2020 e non l’ha più fatta ripartire, mentre in Italia il campionato ripartiva alla faccia dei cinema, dei concerti e dei teatri. L’azienda spagnola titolare dei diritti tv è scappata dalla Francia insolvente. Alla ricerca di un calcio più sostenibile, la Ligue 1 ha votato la riduzione del campionato da 20 a 18 squadre.
In Spagna la Liga ha previsto un piano di contenimento delle spese “Limite de coste de plantilla deportiva” nel rispetto del budget a disposizione e del monte debitorio. L’Autorità di convalida della Liga approva la soglia dell’uno o dell’altro in base a diverse voci: gli ingaggi, le retribuzioni per la cessione dei diritti d’immagine, gli ammortamenti dei costi di acquisizione dei cartellini, le quote della previdenza sociale.
Il Real Madrid ha visto calare il proprio tetto salariale dai 641 milioni del febbraio 2020 fino a 468 milioni e mezzo di euro (-26,9%). L’Atlético Madrid è sceso del 37,5% dai 252,7 milioni della stagione 2020/21. Il Barcellona ha avuto un limite di spesa fissato a 274 milioni di euro (-41,7% rispetto alla scorsa stagione) e per questo motivo non ha potuto proporre il rinnovo del contratto a Messi. E adesso il Barcellona sta per chiudere un accordo con Spotify che dovrebbe dare il nome al nuovo Camp Nou.
Per una società che non voleva nemmeno il nome dello sponsor sulle maglie è certamente una rivoluzione, ma non si può contemporaneamente continuare a spendere e spandere e rimpiangere i bei tempi andati. Né si può fare la corsa sulla Premier League inglese, che ha iniziato la sua rivoluzione con il Thatcher Act e con il rifacimento di tutti gli impianti, oggi sempre pieni perché confortevoli e sicuri. Che poi in Inghilterra abbiano deciso, eliminando restrizioni, limiti e mascherine che la pandemia è finita, è un altro conto. Ma credere che sia il COVID-19 la causa di tutti i mali del calcio italiano è il peggior errore che si possa commettere.
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