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Tanto capannone e poco ufficio
Ho un ricordo terribile di quando ero più giovane. E’ collegato ai consulenti aziendali e a dei formatori che arrivavano nel mio paese su chiamata di associazioni di piccoli imprenditori o di cooperative o studi professionali. Con auto costose e abiti perfettamente stirati. Il mio paese era un pezzettino di quel profondo Nord-Est italiano, laborioso […]
Ho un ricordo terribile di quando ero più giovane.
E’ collegato ai consulenti aziendali e a dei formatori che arrivavano nel mio paese su chiamata di associazioni di piccoli imprenditori o di cooperative o studi professionali.
Con auto costose e abiti perfettamente stirati.
Il mio paese era un pezzettino di quel profondo Nord-Est italiano, laborioso e pragmatico, noioso e monotematico, che si è poi dissolto in parte con i venti soffiati dalla World Trade Organization.
Un mosaico imponente di centinaia di microimprese.
Quasi sempre familiari.
Una manciata di persone per azienda.
Più braccia che macchine, più persone che processi.
Mezzi parenti, conoscenti, amici di amici, a volte in regola a volte in nero o a cottimo.
Fratelli, cognati, nipoti e pochi titoli di studio.
Tanto lavoro in compenso.
Tanto capannone e poco ufficio.
E nell’ufficio sembrava sempre fosse passato un tsunami.
Mille foglietti scarabocchiati, ordini alla rinfusa, polvere sulle poche solitarie tastiere e penne che quasi mai scrivevano.
La vita vera era di là, nel capannone. Dove si lavorava di braccia.
Quando gli affari iniziarono ad andare male, per quanto poco avvezzi, i piccoli imprenditori artigiani si fecero delle domande.
Cosa dovremmo fare in queste condizioni di concorrenza, di tasse, di cambi, di gusti del mercato ? Come si riporta a casa del margine senza svalutare, senza evadere, senza cambiare mestiere ?
Domande ingenue forse, da artigiani.
E una delle risposte accettate, fu che forse era il caso di chiamare gente in gamba a dare consigli. Gente studiata che sapesse fare loro formazione, farli ritornare sui banchi di scuola abbandonati tanto prima.
“Gente in gamba” al mio paese, a quel tempo, voleva dire una cosa sopra tutte le altre.
Dovevano venire da Milano o comunque da una grande città lontana.
Tipo Milano, che era uno di quei posti che indicava competenza, soldi, autorevolezza.
Mio padre chiese a me, giovane e fresco di studi, di occupare il suo posto in queste classi serali di artigiani stanchi e impolverati, inginocchiati davanti al sapere impomatato e incravattato.
Sempre una dimensione aulica, grande, imponente quando entravano i docenti.
La sensazione di essere davanti a divinità.
Sembravamo la classe di analfabeti rurali davanti al maestro Manzi.
C’era sempre qualcosa di sbagliato in noi, lo sentivamo.
Io sentivo “qualcosa”, che poi avrei anche compreso.
Io sentivo che l’errore che commettevamo non era quello che ci dicevano.
Certo sbagliavamo qualcosa.
E a quel tempo non sapevamo.
Ma non era per certo quello che dicevano loro.
“Vedete, dovete fare come Steve Jobs, investire in innovazione.”
“Imparate da Richard Ginori quanto a diversificazione”.
“Guardate la pubblicità di Nokia”.
Aldilà della fine inglorisosa di alcuni di questi nomi, sentivo che nulla accomunava le aziendine presenti a questi nomi mondiali.
E l’orgia di video, dati di fatturato, aneddotica sui fondatori mitici e citazioni definitive con cui questi signori cospargevano la platea attenta, ignorante ed umile erano solo una maionese sul vitello tonnato della loro incompetenza specifica.
Non ne sapevano nulla di cosa significava gestire un’impresa artigiana.
Non sapevano dell’impossibilità di pianificare i portafogli ordini perché non si usavano i computer, delle liti fra parenti, delle difficoltà linguistiche con l’italiano, mica con l’inglese.
Non sapevano dell’impossibilità di accedere al credito senza giocarsi la casa e il futuro e della burocrazia ottusa che soffocava gente che sapeva solo lavorare e che presentava un’atavica insofferenza verso le autorità, soprattutto quelle fiscali.
Non sapevano dei debiti abbondanti, ipoteche e fidejussioni.
Però parlavano, anzi pontificavano.
Ecco ci sono molti motivi per cui tornavo a casa preoccupato e disperato.
Mio padre non era Steve Jobs.
La sua azienda artigiana non era la Richard Ginori.
E non faceva pubblicità su nessun giornale.
Nulla s’incastrava tra formatore e formandi.
Era una questione di dimensioni.
Le dimensioni contano in questo caso.
Eccome.
Credo che sia in quei momenti in cui ho capito davvero che, aldilà della comprensione dei principi generali, serve che chi forma conosca il contesto.
Ma non per sentito dire.
Serve che abbia immerso le mani nella fanghiglia quotidiana.
Quella che macchia le cravatte, anzi, quella che le cravatte non le può mettere.
La fanghiglia preceduta e chiusa con delle bestemmie perché dal lotto di produzione è uscito scarto e nessuno saprà spiegare con “ assertività” la cosa al cliente che ti stritolerà in un battito di ciglia, mettendo in crisi la tua vita economica e quindi quella personale.
Che in queste aziende tutto si mischia.
Non s’incastra il pappone su mission, vision e piano strategico con la realtà.
Perché queste aziende non avevano tempo.
Non avevano soldi.
E avevano orizzonti temporali brevi rispetto alle grandi aziende citate e quasi mai più lunghi della vita dei loro fondatori.
Queste aziende avevano bisogno di formatori che avessero messo mani e piedi in realtà così piccole.
E sapessero cosa suggerire.
Per potenziare la loro capacità elastica di sfruttare le opportunità al volo e la situazione in modo efficiente.
Per fortificare la loro attitudine a fare cose strane e fuori dall’ordinario, più per ignoranza magari, che per volontà.
Per consolidare quel processo basato su test, piccoli errori e correzioni a basso prezzo, che era già la loro forza.
Invece no.
“Dovete innovare come fa Steve Jobs”.
Abbiamo creduto loro.
Avevano una bella auto, un bel vestito e venivano da Milano.
Abbiamo chiuso.
Le dimensioni contano quando si vuole formare qualcuno per affrontare meglio la realtà.
(Photo credits: www.unsplash.com/Samuel Zeller)
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