L’Ultimo dei volontari

Ci sono tre date chiave nella vita del carabiniere Sergio De Caprio. La prima è il 15 gennaio 1993 quando, col grado di Capitano e il nome in codice “Ultimo”, durante un blitz ammanettò a Palermo Totò Riina, allora capo di Cosa Nostra. La seconda è il 25 maggio 2000 quando, come risposta alle sue […]

Ci sono tre date chiave nella vita del carabiniere Sergio De Caprio. La prima è il 15 gennaio 1993 quando, col grado di Capitano e il nome in codice “Ultimo”, durante un blitz ammanettò a Palermo Totò Riina, allora capo di Cosa Nostra. La seconda è il 25 maggio 2000 quando, come risposta alle sue rimostranze di essere stato lasciato senza mezzi a combattere le cosche, venti righe di comunicato dell’Arma dei Carabinieri respingevano le accuse citandolo per la prima volta con nome e cognome e mettendo fine quindi all’anonimato di un uomo braccato dalla Mafia. La terza data è il 23 maggio 2009, anniversario della strage di Capaci (la morte di Giovanni Falcone e della sua scorta) quando De Caprio, diventato colonnello, fonda a Roma l’Associazione di volontariato Capitano Ultimo.

In mezzo a queste date gli storici annoteranno un processo, finito con l’assoluzione del Capitano dall’accusa di non aver perquisito il covo di Riina, una fortunata fiction sulle sue gesta interpretata da Raoul Bova, il trasferimento dell’irrequieto carabiniere nato a Montevarchi nel 1961 al Nucleo Operativo Ecologico dell’Arma dove condurrà comunque inchieste con arresti clamorosi. Tutto questo lo lasciamo ai libri di storia. Quello che ci interessa qui è capire perché un uomo del quale non esistono fotografie e che la Mafia ancora oggi vuole ammazzare (o sequestrare, secondo il pentito Salvatore Cancemi) senta il bisogno di esporsi ulteriormente per fare del volontariato.

Il giornalista Maurizio Torrealta nel suo libro UItimo, il capitano che arrestò Totò Riina (Feltrinelli, 1995) scrive che è riuscito a farsi un’idea del Capitano, del suo modo di fare, soltanto dopo diversi incontri e colloqui. Ora, io ho passato col Colonnello De Caprio soltanto un’ora, in un luogo isolato e con gli uomini della sua scorta a vista d’occhio che hanno usato la cortesia di non perquisirmi (“potevamo, ma abbiamo assunto sufficienti informazioni su di Lei”). Qui di seguito quindi leggerete quello che ho potuto raccogliere dalla viva voce dell’interessato, velata da un accento toscano ma senza H aspirata. Personaggio certo non facile, per molti versi scomodo: un impasto difficilmente classificabile di anarchia e profondo senso del dovere con un influsso cattolico che lo porta ad esaltare in modo quasi ossessivo l’uguaglianza, la povertà e la difesa dei deboli. Fosse nato all’alba del 1200 probabilmente De Caprio avrebbe indossato il saio dei francescani. O forse l’armatura del guerriero crociato.

Colonnello, di che si occupa l’ONLUS che porta il suo nome?

L’associazione di volontari del Capitano Ultimo è composta da molti carabinieri e dalle loro famiglie. Il Comune di Roma ci ha dato in comodato un terreno alla Tenuta della Mistica, alla periferia Sud Est della Capitale. Qui abbiamo costruito una casa famiglia, un parco giochi, un ristorante, dei laboratori di cucina, pasticceria, pelletteria, ferro battuto, erboristeria. Abbiamo anche una struttura per allevare rapaci, un forno per il pane, un piccolo spazio per una parrucchiera e dei telai di legno per creare tessuti a mano. I soldi per realizzare tutto questo, 600 mila Euro, sono arrivati grazie alle iniziative di Raoul Bova e alla Nazionale Cantanti.

Come usate queste strutture?

La casa famiglia ospita 8 minori assistiti da un’equipe educativa specializzata. Le spese sono parzialmente coperte dalle rette che per ogni minore versano i Municipi di appartenenza [ndr: i mini-comuni in cui è suddivisa Roma] tra i 60 e i 65 Euro al giorno. Poi accogliamo alcuni detenuti del carcere minorile che vengono a lavorare su disposizione del giudice, di notte però tornano “dentro”. Ogni giorno ci sono inoltre una quindicina tra ragazzi e ragazze che provengono dai centri di accoglienza per immigrati. Infine abbiamo le cosiddette “borse lavoro”, circa 15 persone con problemi – psichici, ma non solo – che vengono a fare attività, terapia.

Anche con gli animali?

Si. Abbiamo 20 falchi e due aquile. I ragazzi imparano a prendersi cura dei rapaci: è l’antica arte della falconeria. Quest’attività può anche avere un suo utilizzo pratico, come l’allontanamento dei piccioni, ma non lo facciamo per questo. E’ una terapia. Anzi, di più: è una scuola di vita. I ragazzi ci passano anche due ore per seduta col rapace. Vedi, un falco non si può punire, non deve mai essere punito; se lo tratti male va via oppure ti aggredisce. Devi averne cura ma soprattutto rispetto. Allora ritorna da te, sul tuo braccio…

Quanto raccogliete con le attività di lavoro sociale aperte al pubblico?

Da gennaio a dicembre, 42 mila Euro che servono a mantenere le strutture delle attività. Tieni conto che la domenica il ristorante, aperto a tutti, ospita dalle 100 alle 200 persone. Chi vuole può anche venire prima e assistere – ad un quarto all’una – alla messa sul prato con Padre Rovo e Padre Max. E’ una messa particolare: dopo la comunione c’è un richiamo ad una preghiera islamica da parte di un musulmano. Azione sociale e preghiera per produrre sopravvivenza. Questo che portiamo avanti alla tenuta della Mistica è un modello non da celebrare ma da condividere. Perché quello delle case famiglia è un problema di tutti e al tempo stesso il fallimento della società. Sarebbe bello che fossero le famiglie a prendersi carico dei minori senza doverli riunire in strutture come queste. Bisognerebbe riportare la comunità nella comunità.

Certo, intanto per creare strutture come queste che funzionano e che si finanziano ci vuole sempre dietro un personaggio famoso, carismatico, come lei.

Non è vero. Il concetto chiave è: trasformare l’assistenzialismo in produzione. Noi non siamo qui per fare pena. Che ci vuole a costruire un forno, a fare il pane e la pizza e a venderle? Non è difficile da capire: fai pane e vendilo a poco! Qua la domenica cuciniamo la pasta fatta in casa e un piatto ti costa 5 Euro. Moltiplicalo per oltre cento coperti – tutti con lo scontrino – e vedi che con questo meccanismo ci paghiamo le spese per la casa famiglia e per le attività sociali. La gente viene, ti assicuro: chi ha famiglia e magari tanti figli qua mangia con poco, risparmia. Certo sono cibi rustici, poveri ma si contribuisce ad una causa. Ora ti domando: perché questo tipo di iniziative non le fanno i Comuni, la domenica? Perché non vengono fatte nelle scuole con gli studenti come volontari? A servire ai tavoli qui puoi trovare sia gli allievi tenenti della scuola ufficiali dei Carabinieri che i detenuti. Ti pare poco? Gente che merita rispetto. Perché non possono farlo gli studenti? Io credo molto nella scuola, l’avrai capito. Mi piacerebbe che lì si insegnasse a fare questo tipo di sopravvivenza e magari, che so, fare assemblee per parlare di economia. Non è con la legge finanziaria che si risolvono i problemi quotidiani: ci vuole impegno sociale e consapevolezza.

Leggendo il sito internet dell’Associazione si capisce che avete un legame particolare con la Somalia: perché?

Tutto è nato quando un gruppetto di somali si è presentato da noi, un anno fa, per chiedere aiuto. Pensa che uno di loro era un principe. Adesso sono loro che vengono da noi a fare volontariato: il giovedì sera ad esempio prepariamo una cena somala. Facciamo integrazione. Noi come italiani abbiamo un dovere nei confronti di questo popolo, di questa nazione che è stata una nostra colonia. Penso a degli scambi estivi tra studenti, ad incentivi per le imprese. La mia è una proposta.

Non è rischioso per lei aver legato il suo nome a questa struttura?

E’ rischioso portare la cravatta [ndr: starsene seduti in ufficio] stare coi mendicanti è l’azione più nobile che possa esistere, combattere per chi non ha niente. A questo servono i Carabinieri: a chi non ha difese. Il concetto è: fare del bene e non ricevere niente in cambio. In democrazia risolvere i problemi, con umiltà e generosità, è un dovere. Non posso fare una cosa buona solo perché un domani mi verrà garantito un voto. Sicurezza, sopravvivenza, sanità, scuola non devono essere dei partiti e neanche di chi ci lavora, siano sindacalisti o il ministro di turno: questi sono beni delle famiglie. Intendiamoci: non sono qui a parlare di lotta di classe, di comunismo o di capitalismo. La mia visione è chiara: bisogna creare un meccanismo che integri le persone e crei produttività. Bisogna far si che la gente abbia da mangiare, da dormire e da lavarsi ma al tempo stesso bisogna PRODURRE facendo si che le persone si incontrino. E qui ritorno al discorso di prima: fare pane, cibo e venderlo a poco prezzo ha il duplice vantaggio di far risparmiare le famiglie che lo comprano e di far sopravvive gli ultimi che lo preparano e lo vendono con l’aiuto dei volontari.

Di che si occupa adesso nell’Arma?

Sono meno operativo ma faccio il mio lavoro di vice comandante del Comando Carabinieri per la tutela dell’ambiente; svolgo indagini, cerco di servire la mia Istituzione e accetto il giudizio che hanno di me, con la gioia di lavorare per la gente senza volere nulla in cambio. Come ci hanno insegnato i carabinieri delle stazioni, il generale Dalla Chiesa e ispirandomi ai 10 articoli di quel genio di Nazareth.

L’emergenza di oggi è il terrorismo Jiadista. C’è una teoria detta a mezza bocca dagli esperti secondo la quale in Italia non attecchisce perché parte del territorio è controllato dalla grande criminalità organizzata: è verosimile? E la lotta al terrorismo integralista non corre il rischio di mettere in secondo piano quella alla Mafia?

Mi avevi garantito che avremmo parlato solo dell’Associazione! Io non sono autorizzato a discutere di queste cose, non mi occupo dei Jiadisti e quindi non ho elementi per rispondere. Una cosa però la posso dire: se fosse vera quella teoria allora non avremmo avuto neanche la Brigate Rosse. Invece c’erano, le abbiamo affrontate e vinte come abbiamo affrontato e vinto la Mafia dopo averla conosciuta perché all’inizio non la conoscevamo, balbettavamo. La difficoltà di oggi con gli jiadisti, da quello che mi sembra di capire, è che si conoscono poco, non sai chi sono e quindi sei in difficoltà ma ti ripeto: io non mi occupo di questo. L’importante, sempre, è conoscere il nemico, non spaventarsi, dare ai Combattenti i mezzi che chiedono per lottare. Ma soprattutto, lasciar parlare i tecnici, non i professori.

 

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