Cosa rischiamo col multitasking

Il prolificissimo romanziere ottocentesco Alexandre Dumas scriveva più libri contemporaneamente. O meglio, dettava in parallelo a un gruppo di suoi collaboratori saltando dall’uno all’altro senza perdere il filo. Si dice che Napoleone fosse in grado di fare cinque cose insieme. Andando più indietro nel tempo sembra che anche Giulio Cesare fosse un campione della multiprocessualità: […]

Il prolificissimo romanziere ottocentesco Alexandre Dumas scriveva più libri contemporaneamente. O meglio, dettava in parallelo a un gruppo di suoi collaboratori saltando dall’uno all’altro senza perdere il filo. Si dice che Napoleone fosse in grado di fare cinque cose insieme. Andando più indietro nel tempo sembra che anche Giulio Cesare fosse un campione della multiprocessualità: realizzava in dettatura tre testi nello stesso tempo.

E che dire dei maestri di scacchi che giocano venti partite in simultanea? Menti superiori? No, cervelli a rischio. Almeno nella versione moderna della multiconnessione e secondo gli ultimi studi delle neuroscienze che mettono sotto accusa il “multitasking”, la tendenza sempre più spinta a svolgere molti compiti contemporaneamente.

Oggi saltiamo da un dispositivo all’altro con rapidissima disinvoltura. L’intramontabile Tv, la musica, gli Sms, le e-mail, i video in streaming, il telefono, le app, l’instant messagging, i social e la vecchia (per qualcuno ancora cara) carta stampata. Ma ce la facciamo davvero? O rischiamo, volendo strafare nel lavoro, di fare male tutto?

Intanto rischiamo di perdere una delle doti principali per chi lavora in team e per chiunque deve comunicare con i suoi collaboratori: la capacità di ascolto. Lo sostiene un’indagine di Accenture, la multinazionale americana della consulenza, che ha interpellato 3.600 professionisti di 30 paesi del mondo. Quasi tutti (il 98%) dicono di trascorrere parte della giornata lavorativa in multitasking, ma quasi due terzi di loro (il 64%) ammette che “l’ascolto è diventato molto più difficile nell’ambiente di lavoro digitale odierno”. Il dato italiano è ancora più eclatante: è il 74% dei professionisti nostrani che imputa al multitasking la colpa di rendere più difficile l’ascolto.

Le distrazioni dall’attività principale (telefonate, e-mail, visite o riunioni non pianificate) sono micidiali per svolgere al meglio il proprio lavoro. Sono causa di “perdita di concentrazione, performance inferiori, minore interazione con gli altri membri del team”. Otto su dieci professionisti, poi, ammettono di lavorare in multitasking mentre sono in videoconferenza, perché in parallelo scrivono e-mail di lavoro (il 66%), instant messagging (35%), e-mail personali (34%), vanno sui social media (22%), leggono news o articoli di intrattenimento (21%).

Un quadro sconfortante che però non fa perdere l’ottimismo (né l’ovvia propensione a sponsorizzare il suo business di consulente) al Chief leadership officer di Accenture Adrian Lajtha: “Le aziende leader coglieranno l’occasione per ottimizzare l’uso delle tecnologie sul posto di lavoro in termini di coinvolgimento dei dipendenti, collaborazione e innovazione”.

Sarà, ma allo stato attuale gli studi di autorevoli università internazionali, continuano a mettere in guardia rispetto al multitasking. Anzi, in primis sfatano l’illusione che il nostro cervello sia davvero in grado di lavorare in multiprocessualità. Le ricerche di Earl Miller, importante neuroscienziato del Mit, concludono che “il nostro cervello non è cablato per il multitasking” e che quando le persone pensano di fare multitasking in realtà “stanno passando da un compito all’altro” più o meno rapidamente. E, per paradosso, “diventano palesemente meno efficienti”, perché spostando in fretta l’attenzione da un compito all’altro fanno meno bene entrambi.

Un altro neuroscienziato, Daniel Levitin, direttore del Laboratory for music, cognition and expertise della McGill university è ancora più drastico e nel suo libro The organized mind: thinking straight in the age of information overload sentenzia: “il multitasking ci rende meno efficienti e comporta un vero e proprio esaurimento delle funzioni cerebrali”. Per esempio, “quando si sta cercando di concentrarsi su un’attività e si ha una e-mail non letta nella posta in arrivo, il QI, il quoziente intellettivo, rischia di perdere 10 punti, più di quanto succeda a un fumatore di cannabis”.

Esagerazione? Forse, ma se si dà retta a uno studio pubblicato su PloS One da Kep Kee Loh e Ryota Kanai dell’University college di Londra, si viene a sapere che gli scienziati, dopo aver sottoposto a risonanza magnetica un gruppo di persone abituate a utilizzare frequentemente e contemporaneamente diversi dispositivi multimediali, rispetto alla media hanno minor densità di materia grigia nella zona del cervello deputata al controllo delle funzionalità emotive. Unica consolazione: il campione di questo studio era formato da un numero troppo basso di persone, solo 75.

Comunque sia, difficile non preoccuparsi per chi finora s’è vantato d’essere campione del multitasking, tipo l’amministratrice delegata di Yahoo! Che sostiene di controllare lo smartphone più di 150 volte al giorno. Per fortuna c’è Art Markman, psicologo cognitivo autore di Smart Thinking (ed. Perigee) che ci dà alcuni consigli per allenare il cervello a lavorare meglio in multitasking:

  • Più le attività che svolgiamo sono simili tra loro, maggiore sarà la facilità di muoversi in modo fluido da un compito all’altro;
  • Per non perdere il controllo sul nostro lavoro va fatta una to-do list per ricordarsi di quali siano le cose che devono essere assolutamente concluse. La nota va tenuta in un posto visibile e organizzata con colori diversi per compiti di differente importanza;
  • Il multitasking può anche intromettersi nei nostri processi di memorizzazione. Se in una mattinata lavorativa colma di impegni stiamo contemporaneamente stendendo un importante documento, occorre tenersi da parte un po’ di tempo per rivederlo nel pomeriggio prima di renderlo ufficiale. Va riletto mentre ci si muove da una riunione all’altra o nel tragitto casa lavoro. Così, sostiene Markman, avremo “molte più probabilità di consolidare la nostra memoria”.

E se ciò non bastasse e fossimo ancora angosciati dalla velocità delle tante incombenze lavorative, può essere utile ricordare quanto sostenuto da Milan Kundera: “C’è un legame segreto tra lentezza e memoria, tra velocità e oblio. La nostra epoca si abbandona al demone della velocità ed è per questo che dimentica tanto facilmente se stessa”.

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