Se stai male ti do il resto: al SSN servono 15 miliardi

Il diciannovesimo rapporto C.R.E.A. Sanità parla chiaro: servono stanziamenti importanti per riportare il Sistema sanitario nazionale in pari con gli altri Paesi UE. Nel frattempo la spesa sanitaria privata supera i 40 miliardi di euro, e il personale scappa all’estero

25.01.2024
Il 19° rapporto CREA Sanità fotografa il declino del Sistema sanitario nazionale: nell'immagine, un pronto soccorso oberato di pazienti

Una volta fiore all’occhiello e motivo di vanto per il nostro Paese, oggi il Sistema sanitario nazionale (SSN) versa in una situazione critica. A testimoniarlo il diciannovesimo rapporto C.R.E.A. Sanità (Centro per la Ricerca Economica Applicata alla Sanità), presentato mercoledì 24 gennaio al CNEL di Roma e intitolato Il futuro (incerto) del SSN, fra compatibilità macro-economiche e urgenze di riprogrammazione.

A quanto emerge dal report, l’Italia, rispetto ai principali partner UE, investe meno in sanità: il livello della spesa italiana è distante dalla media UE del 32%. Al SSN servirebbero ben 15 miliardi di euro per portare la quota di PIL destinata alla sanità sui valori attesi in base alle effettive disponibilità del Paese, che deve fare i conti con gli interessi molto alti sul debito (il 4,3% del PIL, contro una media dell’1,8% negli altri Paesi UE). Se anche l’investimento avvenisse, però, dicono gli autori della ricerca, questo non basterebbe a colmare il rilevante gap esistente tra la spesa sanitaria italiana e quella degli altri Paesi UE.

Il rapporto del C.R.E.A. Sanità si concentra anche su altri aspetti della sanità italiana: la spesa privata, il finanziamento, le condizioni di lavoro del personale e la situazione del settore sociosanitario, la governance della spesa farmaceutica, le tariffe per la specialistica e l’equità del sistema. A questi approfondimenti si affianca l’analisi di alcuni indicatori a livello regionale e la proposta di una serie di suggerimenti (definiti “opportunità”) per risollevare le sorti del SSN.

Rapporto C.R.E.A. Sanità: la spesa privata supera i 40 miliardi

“Anno dopo anno è sempre più difficile interpretare l’andamento della sanità italiana” afferma Federico Spandonaro, professore aggregato presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata e presidente del comitato scientifico di C.R.E.A. Sanità. “I dati disponibili sono sempre meno e di bassa qualità, mentre il dibattito sul tema resta impantanato sul terreno politico. Sarebbe invece doveroso trovare tutti insieme una sorta di pace sociale per superare le sfide e i problemi che deve affrontare il SSN. Il vero problema di questo Paese – aggiunge – è l’assenza di una crescita sostenuta del PIL: in questo modo è molto difficile tenere in piedi il sistema”.

In Italia il settore pubblico finanzia il 75,5% del fabbisogno sanitario; il restante 24,5% è coperto da spese private delle famiglie, con una quota molto elevata (circa il 90%) di spesa privata out of pocket (ossia senza coperture di tipo assicurativo). Secondo l’OECD (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) si tratta di una delle quote di finanziamento pubblico tra le più basse in Europa, dove in media supera l’80% della spesa.

E se la spesa sanitaria pubblica crolla, viceversa quella privata aumenta: nel 2022, ha raggiunto infatti i 40,1 miliardi di euro, in crescita dello 0,6% medio annuo nell’ultimo quinquennio. L’incremento si è registrato in tutte le Regioni (+5,0% di media). A guidare la classifica il Trentino-Alto Adige (21%) e la Lombardia (19,7%), a chiuderla la Sicilia, che ha quota più bassa di spesa privata (1,0%) tra le Regioni italiane. In media, le famiglie italiane spendono privatamente 1.289,7 euro l’anno per la sanità (+9% rispetto al 2020).

Non tutti, però, possono permettersi di sostenere queste spese, mentre chi vi è costretto per motivi di salute si ritrova a vivere condizioni di forte disagio economico, legato ai consumi sanitari, che nel 2021 ha afflitto il 6,1% dei nuclei famigliari, ossia 1,58 milioni di famiglie. Un fenomeno in crescita del +1,5% rispetto al 2019, con un’incidenza superiore al Sud (8,2%) rispetto al Nord.

Lavorare nella sanità non attrae più: il personale fugge da stress e stipendi bassi

Se i pazienti e i cittadini sono in sofferenza, il personale sanitario non se la passa meglio.

Tra il 2003 e il 2021, il numero di medici per 1.000 abitanti over 75 è passato da 42,3 a 34,6 (corrispondente a un gap di 54.018 unità), mentre il numero di infermieri da 61,0 a 52,3 (per un gap pari a 60.950 unità). Il rapporto spiega che i professionisti escono dal sistema soprattutto per cambiare lavoro, andare all’estero o in pensione, mentre le possibilità di ricambio generazionale sono condizionate dal numero di posti limitati messi al bando negli atenei.

A questi problemi si somma la perdita di attrazione di queste professioni, come testimoniato da Paolo Misericordia, responsabile del centro studi di FIMMG (Federazione italiana Medici di Medicina Generale) e da Maurizio Zega, presidente di FNOPI (Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche), che parla di un calo di iscrizioni al corso di laurea in Infermieristica del 10% nell’ultimo anno (che sale al 15% nel Lazio). A incidere su questo cambio di prospettiva sono in particolare lo stress elevato, la carenza di organico, la percezione di lavorare in un contesto non favorevole e, soprattutto, l’aspetto economico: i professionisti richiedono infatti un aumento della retribuzione compreso tra il 20 e il 40% in più.

Il rapporto sottolinea, inoltre, una forte carenza di assistenti alle cure, in primis i cosiddetti OSS (Operatori Socio Sanitari), che operano sia in contesto residenziale che domiciliare. Per queste figure l’Italia, se si esclude l’esercito di badanti (non professionali) costituito, tra regolari e irregolari, da circa 880.000 persone, conta solo 86,4 assistenti per 1.000 abitanti over 75, contro i 114,6 della Spagna, i 175,8 della Francia e i 211,1 del Regno Unito.

Un quadro, quello emerso dall’ultimo rapporto C.R.E.A., che mette in risalto forti criticità e seri interrogativi sul futuro del SSN, istituito nell’ormai lontano 1978 e diventato oggi qualcosa di molto diverso da com’era stato immaginato in origine. A minacciare la sua sostenibilità e la sua stabilità ci sono anche le profonde differenze regionali – cristallizzate e accresciutesi da quando la competenza sanitaria è stata delegata alle Regioni – e appunto la carenza di personale, che è sempre più disaffezionato al settore o scappa in Paesi con opportunità migliori.

Diverse le proposte e le riflessioni in merito presentate durante il dibattito al CNEL. Tra gli altri Achille Iachino, a capo della Direzione generale dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico del ministero della Salute, ha dichiarato sarebbe opportuno “riesumare l’idea del Piano Sanitario Nazionale, ossia quel documento programmatico che mette al centro l’operato del SSN, che controlla e vigila su tutto dall’alto, ma non in maniera autoritaria, per concordare innanzitutto principi di equità distributiva e stabilire modelli di governance e di performance delle Regioni”.

 

 

 

Photo credits: ilparagone.it

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