Didattica a distanza. Houston abbiamo un problema

In emergenza la didattica a distanza ha funzionato. Alla riapertura delle scuole, però, manca un piano che la implementi su ampia scala.

Un fantasma si aggira per le scuole italiane. Anzi, più che un fantasma è un equivoco. Tutto nasce dalla recente “scoperta” della “didattica a distanza”, sull’onda dell’emergenza coronavirus. Per essere sinceri (a scanso di amnesie) non è una novità: in Italia ha avuto la sua apoteosi negli anni Sessanta, con la mitica trasmissione televisiva Rai “Non è mai troppo tardi. Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta”, organizzata col sostegno del Ministero della Pubblica Istruzione e basata su tecniche di insegnamento “multimediali” (filmati, supporti audio, dimostrazioni pratiche, disegni sulla lavagna per mano del maestro Manzi).

Però dopo più di mezzo secolo la “didattica a distanza”, nonostante il web da quasi 25 anni teoricamente ne favorisca la diffusione e l’evoluzione, è ancora un’esperienza invisa alla maggior parte degli insegnanti e dei burocrati della scuola. Soltanto grazie al lockdown si è trasformata improvvisamente (senza competenze diffuse in modo programmatico tra i docenti) nella scialuppa di salvataggio che ha permesso a scuole e atenei di garantire le lezioni con l’aiuto di smartphone, tablet e pc.

Didattica a distanza, una soluzione d’emergenza lasciata con poche prospettive

Qual è l’equivoco? La “didattica a distanza” (DAD in gergo) non può equivalere alle solite lezioni in stile novecentesco (se non ottocentesco), in cui un maestro o un professore fanno esattamente quello che facevano prima, però usando una videocamera, con studenti pietrificati di fronte. Non è neppure un’alternativa alle consuete lezioni “in presenza”, nel senso che non può sostituirle integralmente. Semmai le lezioni “in presenza” e “a distanza” vanno integrate per mezzo di una logica didattica e pedagogica che richiede una formazione specifica sul fronte della più complessa “didattica digitale”: quella svolta – in classe e/o fuori – utilizzando i mezzi che la tecnologia oggi mette a disposizione, coinvolgendo gli studenti in modo più dinamico e interdisciplinare. Proprio il tipo di metodologia che le istituzioni della scuola italiana non insegnano agli insegnanti.

Fatto sta che la DAD è stata usata con discreto profitto durante la chiusura forzata delle scuole. Certo, con maggiore o minore efficacia; ma con una velocità e diffusione eccezionali, mentre in condizioni normali, qualora si fosse voluta sperimentare soltanto per qualche giorno, si sarebbe probabilmente arenata subito tra resistenze corporative, amministrative e sindacali.

In questo senso, si tratta di uno degli effetti positivi dell’emergenza-pandemia (come il temporaneo calo dell’inquinamento, per fare un altro esempio). Però la “didattica a distanza” e le sue potenzialità mostrano di essere considerate soltanto come una ruota di scorta. Infatti le “Linee Guida per la Didattica Digitale Integrata (DDI)”, divulgate il 7 agosto scorso dal Ministero dell’Istruzione e previste dal “Piano per la ripresa di settembre” presentato a fine giugno, testimoniano che manca una visione programmatica.

Altro che scuola digitale: alla riapertura ogni istituto fa da sé

Per capire meglio, facciamo un passo indietro. L’unico progetto governativo che abbia affrontato in modo organico questo settore è stato Il “Piano Nazionale Scuola Digitale”, con cui ai tempi del Governo Renzi il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca aveva intenzione di attuare una parte strategica de “La Buona Scuola” (Legge 107 del 2015). Nell’impeto iconoclastico seguito (a torto o a ragione, non è questo il contesto in cui discuterne) alla fine del Governo Renzi, tutti i suoi progetti sono stati cancellati dai successori, incluso quello sulla scuola digitale.

Quest’ultimo piano, per ora ancora reperibile sul sito del ministero dell’Istruzione, non è il Vangelo, però offriva un progetto a medio e lungo termine. Al centro ci sono l’innovazione del sistema scolastico e le opportunità, con una valenza pluriennale e “azioni già finanziate”. Vi si legge inoltre che “risponde alla chiamata per la costruzione di una visione di Educazione nell’era digitale, attraverso un processo che, per la scuola, sia correlato alle sfide che la società tutta affronta nell’interpretare e sostenere l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita e in tutti contesti della vita, formali e non formali… Per questo servirà – e qui vi è l’investimento culturale e umano più grande – che tutto il personale scolastico, non solo i docenti, si metta in gioco, e sia sostenuto, per abbracciare le necessarie sfide dell’innovazione”.

Che cosa abbiamo cinque anni dopo, mentre, come scrive il Censis, “la scuola, la formazione, lo sviluppo del capitale umano ancora una volta sono ambiti di intervento scomparsi dalle priorità dell’agenda politica”? Il Ministero dell’Istruzione il 7 agosto scorso ha partorito le citate “Linee Guida per la Didattica Digitale Integrata”. Peccato che non sembrino tanto un progetto quanto, metaforicamente, le istruzioni di emergenza che troviamo sugli aerei nella tasca davanti al nostro sedile.

Si delega tutto alle singole scuole: il comunicato ministeriale spiega che “il documento contiene indicazioni operative affinché ciascun Istituto scolastico possa dotarsi, capitalizzando l’esperienza maturata durante i mesi di chiusura, di un Piano scolastico per la didattica digitale integrata” e “ogni scuola avvierà una rilevazione del fabbisogno di tablet, pc e connessioni che potrebbero servire per l’attuazione del Piano”. Tutto mostra di essere in balia dell’equivoco (cioè, dell’errore) citato all’inizio, visto che nelle “Linee guida” c’è una costante una sovrapposizione tra due concetti, come se il ricorso alle tecnologie digitali avesse a che fare soltanto con la didattica svolta a distanza. E sul fronte programmatico a lungo termine non c’è nulla o quasi.

“L’innovazione nella scuola è osteggiata dall’interno”

Che cosa ne pensano due importanti pionieri della scuola digitale in Italia? SenzaFiltro ne parla con Roberto Maragliano (pedagogista, professore ordinario di Tecnologie dell’Istruzione e dell’Apprendimento all’Università Roma Tre ed esperto di nuove tecnologie in ambiente formativo) e Antonio Brusa (professore all’Università di Bari e autorevole esperto di Didattica della storia).

Il professor Maragliano non usa mezzi termini: “Ben prima del coronavirus, sostenevo che la scuola italiana sia bloccata da una serie di interessi che si ritrovano in sintonia: università, editoria, sindacato e amministrazione. Questi quattro soggetti convergono nell’interesse di mantenere le cose come stanno. Ognuno fa finta di muoversi, ma tutto resta fermo”.

Maragliano segnala una situazione che definisce surreale: “L’opinione pubblica è fuorviata da anni di insistenza sul fatto che il digitale, il computer, il videogioco farebbero male. Si sente dire che il ragazzo non imparerà perché è distratto. Prima lo si diceva della tv. Per tutti la scuola seria è quella in cui si fanno le lezioni vecchio stile”.

Il professore non si meraviglia del naufragio del progetto digitale previsto dalla “Buona scuola”: “L’innovazione viene osteggiata dall’interno del mondo scolastico. Questa scuola non è riformabile se non cambia la mentalità, se nemmeno l’emergenza COVID aiuta a prendere coscienza del fatto che la vecchia didattica ormai è completamente fuori dalle esigenze di una società come la nostra. Oggi la didattica digitale è zona franca, si può praticare solo per vocazione. Ed è un’altra cosa rispetto a quello che si fa adesso, in emergenza. Cambiare dinamiche, puntando non più sull’insegnamento ma sull’apprendimento, vuol dire cambiare tutto”.

Il professor Brusa insiste sugli effetti dell’emergenza: “Sono nate iniziative di didattica a distanza eccezionali, nonostante i pochi mezzi. Alcuni insegnanti si sono attivati subito e spontaneamente. Altri si sono limitati a replicare quello che facevano già in presenza degli studenti. Diciamo che la pandemia ha accentuato il divario tra chi è capace di usare quei mezzi e chi – la maggioranza degli insegnanti – è refrattario, se non contrario al loro uso”.

Però, nonostante l’esperienza durante la pandemia, la didattica digitale è considerata solo uno strumento emergenziale. O no? Risponde Brusa: “Certo. Se ci si concentra solo sulla disponibilità o meno di computer o tablet si affronta soltanto un aspetto, il mezzo. Occorre indicare che cosa e come si deve insegnare attraverso quegli strumenti tecnologici”. I docenti lo sanno? “Nella scuola sono entrati, dal governo Renzi a oggi, decine di migliaia di nuovi docenti senza alcun obbligo di formazione. Oggi si è liberi di non imparare nuove forme di didattica. Sul fronte di quella digitale viene lasciato tutto alla spontanea iniziativa degli insegnanti. Un 10-20% si è formato da solo, per interesse personale, dal basso, grazie anche a iniziative di tipo associazionistico. Per il resto c’è il nulla. Invece sono richieste competenze. Non basta replicare online, davanti a una telecamera, la vecchia lezione. Si rischia di diventare ancora più noiosi”.

Continua Brusa: “Occorre la capacità di proporre gli argomenti in modo adeguato alle potenzialità offerte – a docenti e studenti – dal web e dai sistemi informatici. Per fare un esempio, non basta raccontare la storia di Federico II di Svevia, da quando è nato a quando è morto; bisogna sapere usare i mezzi che abbiamo a disposizione per rendere davvero dinamica, stimolante, interdisciplinare la lezione, legandola alla realtà di oggi. Ma per saperlo fare occorre una formazione che oggi non è prevista, né per le lezioni in presenza né per quelle a distanza”.

C’è dunque qualche speranza di riuscire ad avviare la stagione della scuola italiana del futuro? Risponde il professor Maragliano: “L’esperienza scaturita dall’emergenza coronavirus potrebbe rappresentare uno shock salutare. Nasceranno tante contraddizioni. E si sono aperte alcune falle, su cui si dovrà operare. Ci sarà battaglia. Da questo punto di vista non sono del tutto pessimista: agiremo sulle contraddizioni”.

Insomma, non resta che darsi da fare perché le crepe nel vecchio sistema si allarghino.

Foto di Julia M Cameron da Pexels

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