AAA: cercasi esperti in situational awareness. L’eredità del coronavirus per università e aziende

Aprile 2020, secondo mese della pandemia da COVID-19, Italia. Immaginiamo di dover andare in un laboratorio per fare le analisi del sangue. Un’incombenza di routine: prendi il biglietto, ti siedi aspettando il tuo turno, paghi il ticket, ti tolgono il sangue, fai colazione, esci e vai al lavoro. Questo in tempi normali. Ma la pandemia […]

Aprile 2020, secondo mese della pandemia da COVID-19, Italia. Immaginiamo di dover andare in un laboratorio per fare le analisi del sangue. Un’incombenza di routine: prendi il biglietto, ti siedi aspettando il tuo turno, paghi il ticket, ti tolgono il sangue, fai colazione, esci e vai al lavoro. Questo in tempi normali. Ma la pandemia non è un periodo normale, è una situazione extra-ordinaria che ci impone, prima di compiere banali azioni quotidiane, alcune domande che i direttori delle centrali nucleari, i piloti di aereo o i militari operativi si fanno ogni giorno prima di andare al lavoro, e che si inquadrano in una procedura per loro ben codificata chiamata situational awareness (SA), ossia consapevolezza della situazione. Si tratta di un processo mentale che ciascuno di noi in queste settimane compie inconsciamente, senza porsi troppe domande teoriche, che noi cercheremo di affrontare nel modo più semplice e chiaro possibile.

 

Che cos’è la situational awareness, la strategia di pensiero nata per militari e piloti

Torniamo per un istante nella sala di attesa del nostro laboratorio di analisi. Forse chi è in fila sta covando l’influenza, dovrebbe andare in ospedale ma non lo sa; forse ha contratto il coronavirus ma non è sicuro; magari l’ha contratto, è infetto e l’ha tenuto nascosto. È prudente entrare in una stanza dove c’è tanta gente con problemi di salute veri, probabili o presunti? Devo indossare la mascherina e i guanti? Devo disinfettarmi le mani dopo aver premuto il tasto dell’ascensore? Posso permettermi, in questo momento, di contrarre il virus? Le mie condizioni fisiche, familiari ed economiche me lo consentono? Un soggetto particolarmente paranoico potrebbe perfino domandarsi: uscirò mai vivo da quel luogo? Certo, molto dipende da dove ci troviamo: se il laboratorio fosse contiguo a una zona rossa dovremmo porci qualche domanda in più rispetto a chi si trova a Lampedusa o in una valle sperduta del Trentino, e il nostro comportamento si adeguerà di conseguenza: mascherina, guanti. Oppure anche la decisione più drastica: non entrare.

Ebbene, quella che abbiamo appena descritto è un’analisi del contesto, altrimenti detta situational awareness, disciplina acerba – non ancora scienza, ma abbastanza ben codificata come soft skill – per ora, dicevamo, confinata ad alcuni ambienti militari e dell’aviazione. Una disciplina che di fatto cerca di rispondere a tre domande basilari: di quali informazioni ho bisogno in un determinato momento (percezione), che cosa significa questo per me (comprensione), che cosa penso che accadrà (proiezione).

Finora si pensava che questo tipo di procedura fosse relegata appunto a quelle professioni che, per la loro natura, sono costrette a prendere importanti decisioni nell’arco di pochi secondi, come appunto i piloti di aereo, esposti quotidianamente a circostanze e ambienti estremamente mutevoli. Oggi si scopre però che questa forma mentis è diventata necessaria anche per affrontare a livello quotidiano la pandemia che stiamo attraversando, a livello personale e soprattutto lavorativo. Nel caso dell’odierna minaccia COVID-19, di fronte a questo evento oscuro, imprevisto e sconosciuto, chi deve decidere se un’azienda può fare entrare i suoi dipendenti? E quali, e con che modalità, e con quali protezioni?

La decisione non è facile, perché le informazioni che abbiamo avuto in questo ultimo mese da autorità nazionali e locali sono state frammentarie, a volte vaghe o incomplete, e in alcuni casi anche in palese contrasto tra loro. È qua che entra in campo la situational awareness. Ora, per prendere decisioni in tempi incerti e in situazioni inusuali solo le grandi multinazionali possono permettersi una figura dedicata, un risk manager degno di questo nome, che magari si affida alla consulenza esterna di una società specializzata di intelligence: ma tutti gli altri, che fanno?

 

Come si impara la situational awareness?

Non è casuale che nelle inserzioni di lavoro delle aziende, tra le competenze richieste, cominci a comparire in queste settimane anche da noi (nel mondo anglosassone è più frequente) il possesso di cognizioni di situational awareness.

Già, ma dove si imparano? La disciplina, dicevamo, è acerba. Alcuni la definiscono sintetica, nel senso che ha a che fare con un mix di materie spesso apprese sul campo (militare, aeronautico) e che – aspetto interessante – hanno affinità con le discipline umanistiche, a partire dalla psicologia. Sul mercato sono disponibili dei corsi, per lo più brevi, a volte online, fatti da sconosciute società di contractor o intelligence, personale specializzato dei vigili del fuoco, o più frequentemente ex militari.

“In effetti il concetto di situational awareness risale ai tempi della guerra fredda”, ci dice Alessandro Politi, direttore della NATO Defence College Foundation di Roma, analista con un passato come consulente per missioni militari all’estero. “Qualunque attività devi intraprendere devi essere ben cosciente della situazione, ossia non puoi muoverti senza sapere com’è il contesto. E a ben vedere possiamo anche andare più indietro nei secoli: la prima a crearsi una situational awareness errata è Eva nel giardino dell’Eden che dà credito alle parole del serpente (“non è vero che morirete mangiando il frutto”) senza domandarsi se la sua fonte fosse affidabile e quale scopo avesse. Scherzi a parte, la realtà è che per avere coscienza di cosa sta accadendo intorno a noi non basta, come dice qualcuno, mettere in fila i fatti per trarne le conclusioni su come muoversi. Ci vuole l’analisi delle fonti, bisogna capire cosa è importante e chi è attendibile o meno, e questa abilità umanistica si può imparare”.

 

Il coronavirus ha cambiato i nostri paradigmi

Quindi la buona notizia è che l’analisi del contesto si può imparare, cercando possibilmente di non affidarsi a corsi o professionisti improvvisati per non perdere tempo e soldi. La cattiva notizia è che probabilmente alcuni degli attuali insegnamenti di situational awareness non saranno applicabili o adattabili al 100% all’insolita situazione emergenziale di questi giorni.

“Stiamo vivendo in un liquido amniotico”, dice Letizia di Tommaso, responsabile comunicazione e crisi per il Corpo italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta. “Mentre un terremoto o un attentato sono degli eventi finiti, circoscritti e ristretti in un luogo e nel tempo, questa situazione emergenziale ha completamente modificato il paradigma. Ad attentato compiuto tuttalpiù potevamo aver paura di andare in metropolitana o in treno, ma il rischio tutto sommato era davvero molto basso, e la risposta all’evento abbastanza ben codificata e conosciuta. Oggi non è così. Il rischio sono gli amici, i familiari, e potremmo esserlo noi stessi inconsapevolmente. Siamo insomma passati dal ‘se’ accadrà un determinato evento emergenziale al ‘quandoprenderò il virus: in sostanza la percezione del rischio stesso è sovvertita e l’attenzione si sposta al come affronterò un’eventualità che ancora oggi, in mancanza di un vaccino o di cure, non fa dormire sonni tranquilli”.

È cambiato il paradigma della disciplina, dunque, e ogni volta che accade qualcuno si prende la briga di capire il come e il perché è successo per modificare le conoscenze acquisite e adattarle alle nuove situazioni, magari utilizzando nuovi strumenti concettuali mutuati da altri ambiti scientifici o umanistici. È il caso dei fisici nucleari, ad esempio, che in questi giorni stanno mettendo a disposizione le conoscenze sulla statistica legata alla fisica delle particelle per capire come si diffonde il virus.

Alcuni studi su questo cambio di paradigma stanno già circolando in rete. Resta ora da codificare in maniera sistematica la situational awareness post COVID-19 per metterla a disposizione della comune didattica universitaria; una soft skill sdoganata come oggi lo sono il public speaking o il team building. Sarà forse questa una delle prime eredità della pandemia di coronavirus per i nostri figli. Eredità, visto il tributo delle perdite, della quale onestamente avremmo fatto a meno.

 

 

Photo by Harshal Desai on Unsplash

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