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Disgregazione Italia
Sarà disgregazione Italia? La diversità interna del Belpaese è la sua ricchezza, ma il passaggio di civiltà a cui stiamo assistendo rischia di frammentarlo.
Ehi, ma che succede? Dove? Qui a Matera e dappertutto. Sta solo cambiando il mondo: più il pianeta si apre, si allarga e
diventa casa tua, più riscopri la tua radice più profonda e il paesello tuo,
perché se sei di casa ovunque non hai dove tornare.
La rivoluzione informatica sta sostituendo quella industriale. È la terza volta che accade nei 200.000 anni della storia dell’umanità: a pochi, scrisse Manlio Sgalambro, è dato il privilegio di osservare una civiltà che muore (e qualcuno fa a tempo a vedere quella che nasce). Ogni volta che se ne impone una nuova riadatta il pianeta alle sue esigenze, e l’uomo cambia vita, valori, costumi, desideri (salvo quelli base: essere amati, stare bene, non avere fame); come racconto nel mio libro, L’Italia è finita.
La terza rivoluzione: l’informatica
La rivoluzione è sempre economica,
produce una politica, su cui
fiorisce una cultura: il vecchio è
distrutto dal nuovo e quel che ne resta è costretto alla minorità. L’agricoltura cancellò, diecimila anni
fa, le culture nomadi (e Caino uccise Abele: Caino significa agricoltore, Abele
nomade, allevatore), deforestò la Terra, la mise a coltivazione e inventò i
recinti; 230 anni fa, nel 1789 (la si fa coincidere con la rivoluzione
francese), parte la rivoluzione
industriale, e la sovranità passa dai re ai popoli. Il potere economico non
è più dato dal possesso della terra, ma dai capitali e dalle macchine di
produzione; gli Stati governano l’economia e diventano nazionali, come la
moneta, i giornali, la bandiera.
Trent’anni fa, nel 1989, con il crollo
del muro di Berlino (dopo duecento anni esatti, ed era il 9-11,
nine-eleven, 9 novembre) comincia la rivoluzione
informatica, e la Terra, come il mondo del web in cui non ci sono spazio e
tempo, si adegua: l’Europa e l’Asia non sono più divise dalla cortina di ferro,
la UE è senza frontiere e passaporti, ha una sola moneta, e se prima i soldi si
facevano con le merci (made in…), ora i soldi si fanno con i soldi, con la
finanza, che sono apolidi, senza bandiera (mille euro o mille dollari non sono
“made in”, non dicono nulla dell’identità del possessore). Il pianeta diviene
tutto percorribile e l’economia governa
gli Stati.
Questo comporta la demolizione degli Stati nazionali, che sono un ostacolo alla globalizzazione. L’Italia fu il laboratorio per crearli, a metà dell’Ottocento, con immense stragi taciute dai libri di storia (gli studi dei padri della nostra demografia, i milanesi Cesare Correnti e Pietro Maestri, mostrano che, con l’arrivo delle truppe sabaude al Sud, la popolazione, che cresceva più che nel resto d’Italia, smette di farlo, e in pochi mesi diminuisce di 120.000 unità; la stessa relazione del ministro Giovanni Manna al Re e al Parlamento denuncia che, dopo un anno di “guerra” sabauda al Sud, mancano 458.000 persone rispetto al numero atteso). Con le armi si volle creare una super identità “italiana”, non quale somma delle tante e forti e fertilissime già esistenti (nazione siciliana, nazione veneta, nazione sarda, nazione napoletana, che nella diversità ci facevano sentire italiani), ma con la loro soppressione.
Oggi l’Italia è ancora laboratorio, ma per la disgregazione degli Stati nazionali; lo dice Steve Bannon, campione dell’ultradestra satunitense, già consulente di Trump e ora di Matteo Salvini. Secondo lui «Roma è oggi il centro della politica mondiale».
L’Italia, frammento in frammenti nello scenario globale
Ma mentre la civiltà informatica adegua il pianeta alle sue necessità (si è
tutti intercambiabili, online, indistinguibili: nonostante i “profili”, siamo
così privi di identità che ne girano centinaia di milioni di false, con cui si
dialoga), la necessità di riconoscersi
induce alla riemersione delle identità più antiche, profonde e forti. È un
bisogno psichico di riequilibrio: la globalizzazione da una parte ci fa
universali e privi di identità, come la finanza; dall’altra ci riporta al dialetto, in cui recuperiamo quel che
siamo, e che ci rende riconoscibili. Per questo è chiamata civiltà glo-cal, globale-locale.
Lo si poteva capire il giorno in cui cadde il muro di Berlino (ero lì, per
un fortunatissimo caso, ma non lo capii): con la fine della cortina di ferro,
il più grande impero mai costruito sul pianeta si disintegra in 35 Stati, la
Yugoslavia in 7, la Cecoslovacchia in due; e nel blocco occidentale, che pareva
al riparo, solo un po’ più tardi esplodono le iniziative secessioniste e
identitarie delle nazioni soffocate in nazionalismi che le comprendevano con la
forza: la Catalogna tenta di
conquistare l’indipendenza con un referendum non ammesso dalla Costituzione
spagnola, ma sono state raccolte firme per referendum
secessionisti ovunque nel mondo, dalla California al Texas alla Baviera che
vuole andarsene dalla “Prussia”. E, camuffati da “autonomia differenziata”, anche in Lombardia e Veneto (il
presidente Zaia chiarì: ora indipendenza. Come da articolo uno dello statuto
della Lega).
Nel Mezzogiorno alimenta progetti
separatisti la riscoperta della vera
storia del Risorgimento (genocidio, furto dell’oro delle banche,
distruzione della prima economia industriale d’Italia: le più grandi officine
meccaniche del tempo, i maggiori cantieri navali, il più vasto stabilimento
siderurgico, la terza flotta commerciale dopo Gran Bretagna e Francia) e la
consapevolezza di essere ridotti a colonia del Nord (treni, alta velocità,
autostrade, centri di ricerca, grandi manifestazioni, persino asili nido: tutto
al Nord, con i soldi di tutti; zero o zero virgola al Sud).
L’Europa degli Stati nazionali sembra franare sotto le spinte della
globalizzazione da una parte e del localismo dall’altra, vedi l’uscita
dall’Unione della Gran Bretagna: la
Brexit. A meno che l’Unione non si trasformi da Europa di Stati nazionali a
Europa di nazioni, di popoli.
Forse è meno difficile di quel che sembri. L’Italia è il Paese delle diversità, il che ci rende interessanti
nel mondo; e la mia regione è l’Italia al cubo, avendo avuto più
stratificazioni culturali e popoli della Sicilia. Eppure, questo rende i
pugliesi inconfondibili. Identità non è
essere qualcosa, ma fare le cose in
un modo che ci rende riconoscibili. Il caffè ce l’ha tutto il mondo, ma sul’a Napule ‘o sanno fa’; e napoletana
è la pizza, che di napoletano non ha nulla: la base è mesopotamica, l’olio
venne dalla Grecia, la mozzarella di bufala dai saraceni, perfezionata da
longobardi e normanni, il pomodoro dall’America; persino ‘o babà nacque polacco.
La nuova civiltà pare ridarci le radici e le ali, ma al prezzo della distruzione degli Stati nazionali. Con una inquietante avvertenza: nessun passaggio di civiltà è stato incruento, né facile (su questo ho appena scritto il mio primo romanzo: Il potere dei vinti). Ma sono le identità e le culture locali che avevamo accantonato la merce di scambio più forte sul mercato della globalizzazione. E l’Italia in questo è unica al mondo: Leo Longanesi diceva che non siamo un popolo, ma una collezione.
Photo credits: La Cucina Italiana
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