Mestiere che fai, parola che trovi. E’ così, le parole sanno essere provinciali o cosmopolite, dipende da dove le mettiamo e cosa vogliamo tirarne fuori. Negli ultimi dieci anni, guarda caso da quando il mercato politico-economico ha iniziato ad arrossire, con la “rete” i governi italiani ci hanno tirato su intere legislature di fumo, le […]
Editoriale 116. Cavalli di battaglia
In campo musicale internazionale la chiamano signature song, è il cavallo di battaglia, il pezzo che marca l’artista; ai concerti, se non lo canta, è delusione assicurata. Quello che non sempre si racconta è che molti cavalli di battaglia musicali sono stati creati a tavolino dalle case discografiche per legare i fan a quell’artista, per […]
In campo musicale internazionale la chiamano signature song, è il cavallo di battaglia, il pezzo che marca l’artista; ai concerti, se non lo canta, è delusione assicurata. Quello che non sempre si racconta è che molti cavalli di battaglia musicali sono stati creati a tavolino dalle case discografiche per legare i fan a quell’artista, per strutturare e consolidare nel tempo fama e carriera del musicista o della band, per aumentare le vendite. Il lato oscuro del cavallo di battaglia è che, se te lo giochi male, diventa una gabbia all’infinito.
Fra tutti i cavalli a disposizione del condottiero, quello addestrato per la battaglia era il migliore: l’origine dell’espressione sta tutta qui.
Nel giornalismo è un’altra storia da quando questo mestiere ha smesso di raccontare il Paese se non scendendo a compromessi. L’altra azione nobile che il giornalismo ha smesso di esercitare da tempo è l’azione della memoria: se dimentichi i fatti, i momenti storici, le ragioni del presente e le cause del passato, a poco vale scrivere notizie.
I cavalli di battaglia, nel giornalismo, sono atteggiamenti rari per due ragioni: la prima è che per stare addosso a un tema o a un’inchiesta, e farlo per lungo tempo, così da monitorare gli sviluppi o i passi di lato, servono soldi; la seconda è che serve pulizia nella linea editoriale, indipendenza. Nella maggior parte dei casi il giornalismo italiano va in carenza di ossigeno su entrambi i fronti.
Questo editoriale è l’ultimo che firmo, questo mensile è l’ultimo che leggete: da gennaio parte una seconda vita di SenzaFiltro fatta di attualità quotidiana e reportage. Negli otto anni con cui abbiamo generato un giornale come questo, l’unica certezza che non ci ha mai tolto la mano sulla spalla è stata la consapevolezza di vivere un piccolo miracolo italiano; l’unica incertezza, altrettanto piena, è stata il non sapere mai – e non sapere ancora – fin dove saremmo arrivati.
Noi i cavalli di battaglia non ce li siamo creati a tavolino: alcuni ci sono proprio venuti a sbattere, tanto erano imbizzarriti dentro un mercato del lavoro convulso e opaco, altri ce li siamo andati prima a cercare e poi a badare.
Perseveranza e fermezza: così spiegherei come i mensili di SenzaFiltro hanno raccontato la cultura del lavoro in questi otto anni, facendo giornalismo serio dove regnava un buco enorme che non prendeva in considerazione le persone mentre parlava di lavoro.
Quando nel 2015 tutti andavano di corsa verso una logica digitale mal compresa e mal usata, e lo facevano con articoli brevissimi perché sembrava che meno scrivevi più i lettori ti leggevano, noi andammo a passo di salmone. Articoli lunghi, approfondimenti, desiderio di essere letti abituando le persone a vincere le inerzie. Oggi, grazie al vantaggio capitalizzato, ci permettiamo di andare oltre.
La vita dei salmoni è legata al ciclo riproduttivo: diventano adulti in mare e, dopo una media di cinque anni trascorsi in quelle acque, risalgono i fiumi per deporvi le uova e garantire alla prole acque ben ossigenate e particolarmente dolci. Ritrovano la strada grazie al proprio olfatto, usano come bussola il magnete terreste, percorrono al contrario rapide e cascate, non cedono finché non mettono in sicurezza le uova. Ci somiglia molto, questo processo generativo del salmone.
Anche noi negli ultimi anni abbiamo messo in sicurezza molti temi legati al lavoro, purtroppo mai felici. I nostri cavalli di battaglia si chiamano rider e food delivery, Reddito di Cittadinanza, navigator, sessismo, imprese che non trovano lavoratori, discriminazioni e inclusioni, giovani, over 50, scuola, salute mentale, sanità, precariato, cultura e mestieri invisibili, povertà, grandi crisi aziendali, salari, whistleblowing, Sud, libri, caporalato, partite IVA, ipocrisia delle emergenze.
Abbiamo puntato su ognuno di questi cavalli, anno dopo anno, e attraverso loro siamo riusciti a documentare l’Italia zoppa del lavoro.
Il mensile 116 è un collage, un album, un archivio vivo, è SenzaFiltro che fa la muta dicendo grazie a ciò che è stato e a chi c’è stato. A chi ci conosce tanto o poco, offriamo il punto su ognuno dei cavalli, anno dopo anno ci siamo occupati di loro. Lo abbiamo fatto anche per ricordarci noi per primi, giornalisti e redattori, da cosa veniamo.
Il primo editoriale della storia di SenzaFiltro parlava di promesse da mantenere:
La sfida di un nuovo giornale sta nel coraggio dell’impegno che si assume.
C’è chi con il lavoro deve mantenerci una famiglia o solo se stesso.
C’è chi con il lavoro deve mantenere la calma.
C’è chi con il lavoro deve mantenere i tempi.
Ma le promesse, nel lavoro, chi le mantiene?
Noi abbiamo dato il massimo ogni mese, per otto anni, per mantenere le nostre promesse. Continueremo con ancora più maturità.
I mensili che si chiudono non lasciano buchi, ma allargano uno spazio per farci entrare altro, qualcosa in più. Intorno a noi sono cambiati intanto i tempi, le fisionomie e i ritmi dei lettori, la qualità dell’informazione, la fiducia nei giornali.
I nostri cavalli di battaglia non saranno mai in gabbia, il nostro giornalismo sarà sempre brado.
Leggi gli altri Editoriali.
Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.
L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.
Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.
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