Effetto collaterale da coronavirus: la catena dei “non ti pago”

È il periodo dell’emergenza. Emergenza sanitaria, ma non solo; la pandemia da COVID-19 o coronavirus è ormai a un passo dal far esplodere anche questioni di carattere antropologico, sociale ed economico. Dopo oltre un mese di provvedimenti confusi, reiterati e sovrapposti, anch’essi frutto dell’emergenza e non della programmazione, l’isolamento sociale e la chiusura di gran […]

È il periodo dell’emergenza. Emergenza sanitaria, ma non solo; la pandemia da COVID-19 o coronavirus è ormai a un passo dal far esplodere anche questioni di carattere antropologico, sociale ed economico.

Dopo oltre un mese di provvedimenti confusi, reiterati e sovrapposti, anch’essi frutto dell’emergenza e non della programmazione, l’isolamento sociale e la chiusura di gran parte delle attività produttive e commerciali per decisione delle autorità cominciano a incidere in maniera significativa sulle tasche della gente. Mancano i soldi, anche per le necessità quotidiane. Un fenomeno che si sta estendendo rapidamente.

I lavoratori dipendenti hanno speso lo stipendio riscosso i primi di marzo, e chissà quando riscuoteranno ancora: lo stipendio, chi ha continuato a lavorare anche in smart working; la cassa integrazione, chi lavora per attività sospese. Gli autonomi stanno ancora peggio. Piccoli imprenditori, commercianti, artigiani che hanno dovuto chiudere la loro attività hanno perduto fatturato e incassi; idem per i professionisti, da troppi ancora considerati come una casta di privilegiati, e che ormai da tempo sono trattati invece come l’ultima ruota del carro. Prova ne è il fatto che perfino il governo ha riservato alle professioni ordinistiche un sostegno minimo, relegato nel “Fondo per il reddito di ultima istanza”, da erogare attraverso le singole casse di previdenza private, che – beffa delle beffe – non sono state neanche autorizzate a utilizzare i loro fondi per integrare la misura di legge.

Eppure proprio grazie al lavoro di alcune categorie professionali, quelle giuridiche e contabili, sarà possibile far percepire a chi ne ha diritto i sostegni economici messi in campo, dalla cassa integrazione al bonus in busta paga per chi ha lavorato in azienda come dipendente, dal credito di imposta sull’affitto del negozio all’indennità per i lavoratori autonomi. Professionisti che rientrano in quelle attività riconosciute comeessenziali” e quindi non sospese, che sono in prima linea per dare concretezza ai provvedimenti di sostegno all’emergenza economica, e che al tempo stesso cercano di aiutare i lori clienti a non lasciarsi andare, e anzi a pensare al futuro, a riorganizzarsi, a ripensare le loro attività in vista della ripresa, di quel ritorno alla normalità che tutti auspicano ma sul quale nessuno è in grado di fare previsioni concrete sul quando e sul come sarà.

 

Da dove ha origine la catena dei mancati pagamenti?

La catena del “non ti pago” è partita da qui. Appena è cominciata la crisi, prima ancora che fossero emanati i provvedimenti più restrittivi, i clienti di questi professionisti hanno subito sentenziato: “dal prossimo mese non so se avrò i soldi per pagarti”. C’eravamo già abituati, ormai da tempo, al cliente un po’ furbetto che rimandava con ogni scusa di pagare le parcelle, eppure andava regolarmente al ristorante, dall’estetista e in vacanza – tutte cose che si pagano subito. Questi non cambiano mai, e forse sarebbe meglio non averli. Ma oggi “non ti pago” viene detto anche da quelle persone che dal non poter pagare lasciano vedere tutta l’angoscia e la paura del futuro, lo sconforto e a volte la vergogna di non essere in grado di onorare i propri impegni; il fallimento personale, più grave ancora di quello economico e giuridico.

È una catena perversa, quella del “non ti pago”, anche se non priva di giustificazioni: sono chiuso e non incasso, quindi non pago i fornitori. Ma a loro volta, quelli che non incassano dai loro clienti non potranno pagare i propri fornitori, e così via, a ritroso, lungo tutta la catena del valore, trascinando nel vortice negativo anche le attività di servizio, quelle accessorie, e infine le banche.

Perché chi non ha soldi e non può pagare non può neanche rimborsare le rate di mutui e prestiti, né rientrare dallo scoperto in conto corrente o dall’anticipazione su fatture che, appunto, non ha incassato. La sospensione delle rate e il divieto di revoca degli affidamenti fino al 30 settembre 2020 sono un piccolo aiuto, insufficiente però a garantire al sistema le disponibilità finanziarie necessarie a sostenere, nello stesso tempo, debiti pregressi, redditi mancati e investimenti da effettuare.

 

Il valore è generato dai pagamenti, non solo dai guadagni

È l’economia che cambia il mondo”, sostiene Yanis Varoufakis. E per quante analisi sofisticate si possano fare, è innegabile il fatto che tutti i processi economici si chiudano inevitabilmente con un incasso e un pagamento.

Siamo comunemente portati a considerare l’incasso come il momento positivo del sistema, quello che misura il ricavo economico conseguito, che ristora di quanto speso per produrre il bene o il servizio venduto, di tutti i costi e gli sforzi – anche non economici – sostenuti per ottenerlo, e che infine realizza il guadagno (il “profitto”). Il pagamento è invece considerato come il momento negativo, quello che misura il costo economico sostenuto, e che espone chi lo effettua al rischio di non trarre un guadagno dall’operazione compiuta, o addirittura di non riuscire neanche a recuperare il proprio denaro (il “rischio di impresa”).

Si tratta, in realtà, di due facce della stessa medaglia. Cambia il punto di vista, ma non la sostanza, un po’ come l’uovo di Colombo: quello che è il costo dell’uno, è il ricavo dell’altro. Ciò che accomuna le due situazioni è il valore generato; valore economico, ma spesso e sempre più valore sociale e ambientale. Da questo punto di vista è valore quello generato da chi incassa, che più facilmente lo percepisce perché gratificato dal raggiungimento dell’obiettivo, e si compiace di aver soddisfatto il proprio cliente. È altrettanto valore, però, quello generato da chi paga, che evidentemente è stato disposto a sostenere la spesa perché ha valutato il bene o il servizio pagato come in grado di soddisfare pienamente un bisogno, e si compiace dell’acquisto effettuato, anche se percepisce prima di ogni altra cosa l’aspetto negativo di essersi privato di fondi finanziari e della maggiore incertezza che ne deriva, rispetto a chi invece li ha a propria disposizione.

 

Per rompere la catena del “non ti pago” servono interventi coraggiosi

Il denaro, o meglio la moneta, non è un valore in sé, ma solo lo strumento attraverso il quale il valore può essere misurato. Anzi, oggi più correttamente possiamo affermare che il valore non può essere misurato solo attraverso l’aspetto finanziario, come ci insegnano la teoria dell’economia circolare e gli studi sulla sostenibilità. È però innegabile l’importanza della moneta per il funzionamento dell’intero sistema economico, senza la quale sarebbe impossibile per chiunque ottenere lo stesso livello di beneficio, e quindi di valore dei beni e servizi acquistabili grazie all’ausilio di questo prezioso “trasformatore”, indipendentemente dal prezzo che fosse disposto a pagare con qualsiasi altro mezzo.

La catena perversa del “non ti pago” rischia oggi di intaccare profondamente questo sistema, minando alla base proprio il concetto di valore. Pagare un fornitore o un professionista significa non solo onorare i propri impegni giuridici e morali, ma anche riconoscere il valore di ciò che è stato acquistato, e quindi soprattutto il valore del lavoro che è stato necessario per produrre quel bene o quel servizio. Non pagarlo o non poterlo pagare significa, di fatto, non riconoscere o non poter riconoscere quel valore del lavoro che ha così grande importanza dal punto di vista economico, ma anche culturale e sociale.

In questa fase di emergenza generale è quindi fondamentale che il sistema economico sia alimentato da un flusso di denaro sufficiente a rompere la catena delnon ti pago”, che oggi è più che mai “non posso pagarti”, ma che provoca lo stesso dannoso effetto. È necessario immettere nel sistema la liquidità idonea a far sì che imprese, lavoratori dipendenti, autonomi e professionisti possano onorare contemporaneamente i loro debiti pregressi, integrare i redditi perduti e sostenere gli investimenti per la ripresa. È auspicabile che il governo si muova in questa direzione con misure di entità appropriata, di semplice e sburocratizzata realizzabilità, superando la logica del “Quantitative Easing” da tempo attuato dalla BCE, che non ha sortito gli effetti sperati, dato che le maggiori risorse immesse nel sistema non sono arrivate agli operatori economici, ma sono rimaste per la quasi totalità nella disponibilità di banche e istituti finanziari.

Non possiamo permetterci il lusso di interventi nella stessa logica con cui il Marchese del Grillo rimedia a suo modo al torto perpetrato nei confronti dell’ebanista Aronne Piperno. Non avendolo pagato a tempo debito, con l’intento di dimostrare che la giustizia dei tribunali non sarebbe stata in grado di riconoscere le ragioni dell’artigiano, paga poi tre volte tanto il dovuto, dopo però aver fatto sopportare al malcapitato e alla sua famiglia ogni sorta di privazione. Celeberrima la frase “io c’avrei il conticino…”, alla quale il Marchese risponde semplicemente strappandolo, e aggiungendo all’artigiano esterrefatto, che ancora domanda “e li sordi miei?”, un altrettanto semplice “nun te li do!”.

Oggi tutti gli Aronne Piperno non hanno più tempo a disposizione, e neanche risorse alternative. Dopo oltre un mese di gestione dell’emergenza, abbiamo bisogno di interventi coraggiosi.

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