I fondi europei necessari a riportare la medicina sul territorio possono essere spesi in strutture e macchinari, ma non per reperire chi li gestisce: il Governo lascia la patata bollente alle Regioni, che rischiano di ricorrere agli appalti.
Elena Granata: “Basta sentimentalismi all’italiana: alcuni paesi non possono rinascere”
La professoressa di Urbanistica del Politecnico di Milano, intervistata da SenzaFiltro, parla del Piano Nazionale Borghi del PNRR e analizza i cospicui rischi di interventi artificiali, privi di efficacia duratura.
Paesi che potrebbero rinascere, paesi che rischiano di rimanere esattamente come sono e in mezzo la solita critica a un sistema che nel corso degli anni non è riuscito a fornire risposte contro l’abbandono e lo spopolamento di interi territori, specialmente quelli delle aree interne.
Eppure sul fatto che un finanziamento possa risultare la panacea di tutti i mali sono in molti a dubitare. Per comprendere il punto di vista di chi di luoghi se ne intende abbiamo dialogato con Elena Granata, professoressa di Urbanistica presso il Dipartimento di Architettura e Studi urbani del Politecnico di Milano, vicepresidente della Scuola di Economia Civile e autrice di Placemaker – gli inventori dei luoghi che abiteremo, Einaudi. La raggiungiamo alla fine di un convegno a Milano.
Elena Granata, parliamo di paesi, o di borghi se preferisce. Quelli che si vuole far rinascere: operazione di maquillage oppure qualcosa si può davvero realizzare?
Penso che abbiamo un problema sentimentale: pensiamo che bastino la bellezza di un borgo, il tipo di paesaggio, il fatto di essere stato un borgo particolarmente attraente nel suo contesto per poterlo rianimare come un Frankenstein attraverso finanziamenti e progetti di recupero svincolato dal fatto che ci sono delle condizioni oggettive che rendono possibile o impossibile il ritorno a vivere nei paesi. Mi spiego meglio: se un paese è molto vicino a una città, magari raggiungendola agevolmente in un’ora di macchina, quel paese ha più possibilità di consentire una sorta di bi-residenzialità. Quindi consente di vivere una parte della settimana nel paese e l’altra in città. Quando invece il paese è stato bello, è stato importante ma è molto isolato perché si trova in aree difficilmente raggiungibili, ogni tentativo astratto e chirurgico di rimettere in piedi un corpo morto secondo me è vano. Non tutti i borghi sono uguali, ce ne sono alcuni del tutto inaccessibili per i quali risulta quasi impossibile pensare a un recupero, ed esiste invece un sistema di paesi prossimi alla città, chiamiamoli borghi o paesi, come preferite; pur essendo consapevole – e in questo concordo con gli altri che dicono di non chiamarli borghi ma paesi – del fatto che definirli borghi abbia molto più appeal. È ovvio che se parlo di borghi c’è una fascinazione intrinseca alla parola; se parlo di paesi, insomma, metà del fascino se n’è andato. Comincerei a parlare di paesi e borghi prossimi alla città entro un sistema di accessibilità, di infrastrutture e di servizi che rendano possibile a un giovane trentenne nel 2022 di tornare a viverci, in un paese. Perché se poi ti trasferisci e non hai i servizi, non hai l’ostetricia, non hai gli asili nido, dopo un po’ che cosa fai? Si naviga nel campo della non plausibilità, e mi domando: chi è quel cittadino che può reggere nel tempo l’isolamento dai servizi fondamentali?
Ma prima che esistesse il PNRR ci siamo ricordati dei paesi delle aree interne?
No. E non solo non lo abbiamo fatto, ma negli ultimi dieci anni abbiamo smantellato tutti i sistemi territoriali: abbiamo accorpato i tribunali, abbiamo accorpato le strutture sanitarie in grandi ospedali di provincia. Tutta la storia di quest’ultimo decennio ci dice che abbiamo realizzato investimenti su grandi contenitori, sui grandi servizi centralizzati sui territori. E quindi di fatto, abbiamo smantellato i servizi di pronto soccorso, le scuole. Poi, però, pensiamo di finanziare il ritorno a vivere in aree isolate immaginando che basti ripristinare le condizioni fisiche, quindi il recupero del paese, dei manufatti, dei monumenti per attivare un processo virtuoso. Ecco che qui si va in loop, perché questa cosa non può succedere: si rischia – non avendo una strategia di sviluppo – di finanziare cose e non processi, che è il grande problema del PNRR. Non basta finanziare strutture fisiche, recupero di immobili, costruzione di nuovi immobili dove il tutto ha una forte matrice edilizia, non facendosi carico a priori delle strategie che consentano ai territori uno sviluppo reale.
Ma quindi, se i soldi non fanno la felicità, che cosa occorre nel concreto per far sì che i progetti funzionino?
Occorrono processi complessi, che non sono quelli edilizi: sono quelli che riguardano le infrastrutture, l’accessibilità, la rete, i servizi, e poi un fattore fondamentale che è quello umano, altrimenti detto capitale sociale. Alcune storie sono virtuose e hanno successo perché c’è ancora la storia “in carne e ossa” dei piccoli gruppi di comunità di persone con una motivazione molto forte, che tornano a fare impresa perché hanno un radicamento con quel territorio. La motivazione non si compra: o c’è o non c’è.
Facendo riferimento al suo ultimo lavoro, Placemaker, esistono anche nei paesi delle aree interne gli inventori dei luoghi che abiteremo?
Di casi italiani ce ne sono svariati, legati a biografie particolari e a un’ottica di “ritorno a casa”. Sono storie di persone giovani, tra i 25 e i 40 anni, che magari hanno studiato all’estero, si sono formate nelle università in giro per il mondo e a un certo punto della loro vita sono tornate in Italia con un sogno imprenditoriale, e questo loro sogno spesso è legato a un bene di famiglia, come per esempio una cava, una rocca, un paese con cui hanno legami sentimentali, e quindi in qualche modo si tratta di storie di restituzione, di “give back”, inteso, come detto, come una sorta di “ritorno a casa”.
E quindi iniziano la loro “seconda vita”, come racconta appunto nel libro. Chi sono quindi i Placemaker all’italiana?
Sono storie di ritorno a casa della “meglio gioventù” di questa generazione colta, preparata, che diventa imprenditrice di luoghi. Oppure sono cittadini in fuga dalle città nella loro seconda parte di vita, e qui di storie di italiani che lasciano la multinazionale per andare in Toscana o in altri luoghi lontani dalle grandi città ce ne sono tantissime. Questi attori però non vengono identificati come significativi dalla politica, mentre invece sono molto importanti, perché oltre ad avere una grande capacità imprenditoriale hanno anche un fortissimo civismo: si impegnano nelle attività politiche locali, fanno cultura locale, promuovono festival. Questo fenomeno informale non interseca i finanziamenti del PNRR, e quindi il rischio reale è quello di finanziare artificialmente progetti in contesti dove non c’è futuro, e non sostenere quelle filiere di civismo del ritorno a vivere in campagna nelle aree interne, che sarebbero promettenti perché già le persone lo fanno.
Se non si intersecano – come dice lei – queste iniziative di civismo, che cosa occorrerebbe fare per permettere che queste esperienze vengano intercettate dalla politica?
È ovvio che le scelte che calano dall’alto non si incontrano con le mappature informali di iniziative indipendenti. Bisognerebbe capire quali sono oggi in Italia i territori più promettenti, quelli che hanno già in corso un micro sviluppo autoctono e fare strategia selettiva. Purtroppo noi abbiamo l’idea che tutti i borghi più belli d’Italia vadano salvati: noi però non dobbiamo salvare i borghi, ma dobbiamo consentire alle persone nel 2022 di poter vivere dove vogliono, e al meglio. Meglio partire dalle persone e non dai luoghi: o facciamo un salto nel futuro oppure questo approccio così nostalgico non porta nulla.
Da dove occorre partire per la rinascita?
Partiamo da un turismo sostenibile e da imprese sostenibili. Poi non possiamo fare a meno delle infrastrutture: immaginiamo le zone terremotate con il deficit di collegamenti. Occorre pianificare. Basta sentimentalismi tipici italiani: è pur vero che alcuni territori potrebbero morire dal punto di vista sociale, ma potrebbero rinascere dal punto di vista ambientale, riportando la natura a essere protagonista di quei luoghi.
La criticità nei paesi è l’invecchiamento dei suoi abitanti e la fuga dei giovani.
Questo è un problema sociale: l’invecchiamento delle persone e la conseguente difficoltà delle persone anziane di vivere dignitosamente in alcuni territori. Occorre ripensare la politica sia per l’età adulta che per l’età anziana.
Progettiamo la seconda parte della vita: anche questo è il futuro. Prima delle persone e poi dei luoghi in cui viviamo.
Leggi gli altri articoli a tema PNRR.
Leggi il mensile 111, “Non chiamateli borghi“, e il reportage “Aziende sull’orlo di una crisi di nervi“.
L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.
Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.
In copertina Gairo Vecchio in Sardegna
Leggi anche
Il coordinatore nazionale di Base Italia, sulle lacune del Piano di Transizione 4.0: “È una mancanza culturale, aggravata dalle falle del sistema formativo. Ma l’innovazione ben fatta crea posti di lavoro di qualità”.
I Comuni non sono pronti ad affrontare la sfida del PNRR: i dipendenti sono pochi e non formati, e le scarse assunzioni previste da Brunetta non colmeranno il gap. La testimonianza di Jacopo Massaro, sindaco di Belluno e delegato ANCI, e Senia Bacci Graziani, della direzione nazionale di DirEL.