Tra le poche ragioni per spingere giovani laureati e lavoratori a tornare in Italia c’erano le agevolazioni fiscali: le stesse che il Governo sta pensando di ridurre in modo drastico. Con quali conseguenze? Le testimonianze: “Volevo rientrare, ma con questa riforma sarà impensabile”
Etiopia, la “Cina dell’Africa” bloccata dalla guerra
Il coordinatore della Comunità Volontari per il Mondo Attilio Ascani, intervistato da SenzaFiltro, racconta gli sviluppi del conflitto etiope: “La guerra consuma ambiente, risorse ed economia. E l’odio interetnico espone a rischio escalation”.
“L’Etiopia ha avuto un periodo di bellissime prospettive tra il 2019 e il 2020, con un cambiamento politico verso la democrazia, e un passaggio di poteri che si è svolto senza problemi, cosa non scontata per un Paese africano. Il riconoscimento internazionale di questi sforzi è arrivato con l’assegnazione del premio Nobel per la Pace al primo ministro Abiy Ahmed Ali, che è riuscito a creare un clima di distensione sia all’interno, sia all’esterno del Paese, in particolare con l’Eritrea. Ma ora la situazione è profondamente cambiata”.
Con Attilio Ascani, coordinatore delle attività presso CVM (Comunità Volontari per il Mondo) abbiamo cercato di capire qual era la situazione prima del 2020 e che cosa ha cambiato il quadro.
Ascani ha dedicato infatti buona parte della sua vita al sostegno della popolazione etiope, con progetti di sviluppo dedicati ai giovani e alle donne. Ha assistito alla crescita del Paese, al fiorire della sua economia, fino al momento buio dell’inizio della guerra. Un conflitto che compromette il presente, ma anche il futuro di una nazione dove il 50% della popolazione ha meno di venticinque anni.
“Per vent’anni – spiega Ascani – l’Etiopia è cresciuta a più del 10% e sembrava destinata a diventare una delle tigri emergenti del continente africano, con la possibilità di uscire dalla povertà. La crescita interessava soprattutto le infrastrutture e il settore delle energie, in particolare l’idroelettrico; basti pensare alla diga sul Nilo. L’idea era quella di trasformare l’Etiopia nella ‘Cina dell’Africa’, grazie a una popolazione di 115 milioni di abitanti di cui oltre la metà sotto i venticinque anni, e a un potenziale di manodopera a buon mercato molto ampio. L’Etiopia è seconda solo alla Nigeria in questo senso. Oggi si sta cercando di aggiungere energia pulita a buon mercato per cercare di attirare investimenti, soprattutto nel settore manifatturiero, per creare posti di lavoro. Ora, a causa del conflitto, si è fermato tutto. Nel giro di due anni il Paese è ripiombato in una situazione molto difficile per via della crisi politico-militare.”
Che cosa è cambiato nel novembre 2020?
Il 4 novembre 2020 sono iniziati scontri armati diretti tra le forze federali e quelle della regione Amhara contro le forze regionali del Tigray. A novembre 2021 si è arrivati al culmine di questa situazione, con le forze tigrine che avevano conquistato terreno fino ad arrivare a circa 150 chilometri dalla capitale Addis Abeba, tanto da far temere che si arrivasse a un cambio di potere sotto la forza delle armi. Oltre a loro c’era l’Oromo Liberation Army, con una presenza territoriale meno definita ma più diffusa in tutto il Paese. Grazie ai droni turchi e alle forze armate eritree, che si sono allineate con Addis Abeba, il governo è riuscito a rovesciare la situazione militare e a riprendere il controllo del territorio, e i tigrini sono rientrati nella regione del Tigray.
Oggi quali sono gli equilibri?
A distanza di due anni ci sono ancora scontri e tensioni, piuttosto limitati, al confine della regione Tigray. Alcune settimane fa c’è stata una dichiarazione unilaterale di cessate il fuoco da parte del governo, seguita da un approccio simile da parte del Tigray. Il quadro generale è preoccupante. Contemporaneamente ci sono situazioni di scontri in altre parti del Paese per mano dell’Oromo Liberation Army, che continua a operare in alcune zone al confine con Kenya e Sudan con una tensione continua.
Quali sono le conseguenze sui civili?
È di pochi giorni fa la notizia che l’ospedale di Macallè ha dovuto mandare via i pazienti perché non c’erano più forniture alimentari. Siamo di fronte a un assedio di tipo medievale in cui si costringono quasi sei milioni di persone a soffrire la fame. Quello che oggi manca è il lasciapassare, da parte del governo, all’ingresso degli aiuti nella regione del Tigray, se non in quantità molto limitate. Siamo di fronte a quella che viene definita una punizione collettiva, soprattutto contro le donne, con una situazione di abusi di diritti umani massiva e ripetute stragi di civili. I bambini vengono particolarmente penalizzati. Questa situazione è stata in parte documentata da Amnesty International, con grandi difficoltà dovute al diniego dell’accesso al territorio a giornalisti e operatori civili, anche delle Nazioni Unite. Anche i tigrini hanno applicato queste politiche quando hanno occupato territori fuori dalla loro regione.
Sul piano delle relazioni internazionali, quanto incide una situazione come questa?
Basti pensare che gli Stati Uniti d’America hanno tolto il diritto di accesso privilegiato al mercato americano, che rappresentava uno strumento molto vantaggioso per alcuni Paesi africani. Gli americani hanno un accordo che permette di esportare negli Stati Uniti prodotti industriali senza dazi, a condizione che si rispettino certi criteri. A causa della crisi politico-militare a gennaio del 2022 gli USA hanno revocato questo diritto all’Etiopia; di conseguenza i prodotti che vengono esportati ora pagano i dazi doganali, e ciò li rende meno competitivi. Questo ha portato alla chiusura di diverse fabbriche, alla perdita di posti di lavoro e di opportunità importanti. Molte aziende cinesi avevano investito in Etiopia per esportare negli Stati Uniti, per beneficiare delle facilitazioni doganali con una manodopera a buon mercato, mentre ora la situazione non offre più alcun vantaggio e stanno chiudendo.
Quali sono le ripercussioni più gravi?
Si contano circa 250.000 posti di lavoro persi per via di questa situazione. Sul piano diplomatico molti Paesi europei e non solo hanno cercato di spingere il governo a cercare di negoziare con il Tigray, ma c’è stata assoluta rigidità e sono state imposte sanzioni, che però si ripercuotono sui civili. Si spera che questo cessate il fuoco spinga le parti a sedersi a un tavolo di negoziati che possa interrompere la crisi. L’impatto di un conflitto ha conseguenze sulla sicurezza nazionale, sull’economia, sulla diplomazia. Lo sforzo bellico implica l’introduzione di nuove tasse, nuove spese, la perdita di potere economico, la crescita dei costi e la diminuzione delle entrate. Lo sforzo bellico richiede anche logistica e servizi che hanno un costo, ma che per qualcuno rappresentano un introito. La guerra è una sorta di buco nero che risucchia tutte le energie e le risorse di un Paese.
Come si lavora quando inizia un conflitto?
Nelle aree toccate da un conflitto non si lavora, si scappa, mentre nelle aree che non sono direttamente interessate la vita e le attività continuano. Il Paese deve produrre, la gente deve mangiare, ma si lavora con una forte preoccupazione per quello che può accadere. Quando il conflitto non ha aree ben definite, come nel caso del governo centrale e dell’Oromo Liberation Army, ci si può trovare in situazioni di rischio anche quando si pensa di essere al sicuro. I civili non hanno molta scelta, sanno di correre rischi, ma devono cercare di andare avanti. Ci sono poi conseguenze economiche di cui tenere conto, come la scarsità di carburante e materie prime e le file ai distributori. Fortunatamente, eccetto nel Tigray, non si è arrivati alle file per il pane, ma siamo già ad alcune zone colpite dalla carestia e già a rischio siccità. Il problema è quando diverse situazioni di crisi si sovrappongono. L’area vicino alla Somalia è prossima al rischio fame. Dove la viabilità è a rischio sicurezza, gli stessi aiuti umanitari sono minacciati e le autorità impegnate nella crisi non hanno risorse da investire nella tutela dei cittadini. Se la stagione delle piogge, da giugno a settembre, dovesse essere al di sotto degli standard minimi, avremmo un aumento di milioni di persone a rischio.
Senza acqua potabile la crisi sarebbe irreversibile.
L’acqua è vitale e la sua assenza rappresenta una tragedia. Le priorità sono l’igiene e la qualità della vita; non bisogna dimenticare che l’acqua non pulita provoca malattie che risultano mortali per la popolazione. Come Comunità dei Volontari per il Mondo dagli anni Ottanta lavoriamo in Etiopia e Tanzania con programmi dedicati. Attualmente abbiamo un progetto che prevede, entro tre anni, la fornitura di acqua potabile per circa 100.000 persone in due aree dell’Etiopia. Abbiniamo queste attività alla cura dell’ambiente, alla riforestazione e al controllo del territorio, oltre alla promozione di cooperative femminili che utilizzano l’acqua per scopi produttivi. Abbiamo previsto la creazione di diciotto cooperative di donne che nel tempo si dedicheranno a queste attività utilizzando fonti idriche che recuperiamo con loro.
I negoziati potrebbero disinnescare definitivamente il conflitto?
In Etiopia molto è stato giocato con un fervore ideologico, dando colorazione etnica alla conflittualità, Amhara contro Tigrini, Oromo contro Amhara, e questo ha suscitato un’adesione spontanea dei giovani, che si sono arruolati in modo volontario, spinti dall’animosità contro l’altro su cui si è costruita tutta la situazione. Questo è ancora più pericoloso perché si semina un odio che poi rimane. Costa meno arruolare persone motivate da odio verso gli altri, poi però si apre il cancello di una bestia, quella dell’odio interetnico, che porta ad abusi e a modalità di guerra che vanno ben oltre le guerre “tradizionali”. Non si sa come potrà andare a finire perché il rischio, se non si trova una soluzione diplomatica, è che l’Etiopia vada incontro a un’ulteriore escalation interna causata dall’odio interetnico che è stato volutamente alimentato.
Dove si inceppa il cammino di un Paese che sembra avere tutte le carte in regola per guardare al futuro con fiducia?
L’Etiopia è un Paese bello e variegato, che va da meno 50 metri sul livello del mare a più quattromila, con tante aree climatiche, ma l’ambiente va curato e la cura implica risorse, senza le quali la situazione si deteriora. Se tutti tagliano la legna e nessuno pianta nuovi alberi, i boschi si rarefanno. Curare l’ambiente, riforestare, prevenire l’erosione è un impegno che richiede notevoli risorse umane ed economiche. L’Etiopia queste risorse non le ha, e questo limita la possibilità di sviluppo in tutti i settori. Le risorse naturali sono vittime dell’abbandono e della razzia, dove ognuno prende ciò che vuole senza costruire futuro per questi territori.
Che responsabilità hanno i Paesi stranieri nello sfruttamento?
A differenza di altri Paesi africani l’Etiopia non ha grandi risorse minerarie; non è come il Congo, dove tutti vanno a razziare. Anche in Etiopia, tuttavia, c’è un intervento esterno con una logica predatoria, che va dall’appropriazione delle aree da coltivare, con enormi concessioni di terra assegnate a multinazionali straniere destinate a produzioni da esportare. Non bisogna poi sottovalutare lo sfruttamento di manodopera a bassissimo costo: un costo che consente sì e no la sopravvivenza diventa una forma di predazione. Si preda cioè la vita delle persone e non si lascia nulla al Paese, se non la possibilità di vivere oggi per domani, senza creare ricchezza perché i salari sono così bassi da non permettere alle persone che lavorano di generare benessere. È una medaglia a due facce, con le fabbriche che creano sì sviluppo, ma predano energia umana.
Una maggiore alfabetizzazione rappresenterebbe una svolta?
Questo è un punto su cui l’Etiopia ha investito molto. Da decenni la crescita culturale delle nuove generazioni ha fatto enormi passi in avanti. Hanno intuito l’importanza dell’educazione e della formazione, si sono moltiplicate le facoltà universitarie. L’alfabetizzazione ha raggiunto circa l’80% della popolazione, anche se la percentuale dei laureati è ancora al 10%. L’impegno delle autorità nella cura dei giovani è stato notevole. Grossi passi avanti sono stati fatti anche in ambito sanitario, ma quando si creano situazioni di guerra questi passi avanti rallentano e a volte si azzerano. Un Paese così giovane, con milioni di persone che ogni anno entrano nel mondo produttivo, ha bisogno di dare risposte ai giovani, altrimenti l’unica risposta è la migrazione.
È il caso delle lavoratrici domestiche?
Molte ragazze non arrivano alla scuola per via della povertà, con le famiglie che sono costrette a mandarle a lavorare, prevalentemente come lavoratrici domestiche. Purtroppo è l’unica scelta che hanno davanti, non ci sono opportunità di aprire loro piccoli business. Nelle zone rurali operano molti trafficanti di esseri umani che portano queste ragazze nelle città, dove le giovani e giovanissime vengono sfruttate all’interno delle case dove prestano servizio, senza ricevere retribuzione. Per molte di loro, quindi, l’idea di migrare verso i ricchi Paesi arabi e del Golfo diventa come andare in una terra promessa, ma spesso i loro sogni si trasformano in incubi. Molte non sanno dove vanno, partono solo con uno zaino in spalla, senza alcuna consapevolezza né formazione. Vengono portate in aeroporto e per loro si apre un mondo del tutto sconosciuto, nel bene e nel male. Uno scoglio importante è la lingua, in quanto nessuna di loro parla inglese.
Che cosa si può fare per tutelarle?
Finché in Etiopia e in altri Paesi africani non si ratificherà la Convenzione 189 OIL sul lavoro domestico non ci sarà giustizia per chi lavora in casa. Come CVM siamo impegnati da anni in questo senso, facendo sensibilizzazione, creando corsi di formazione sul territorio e sostenendo direttamente associazioni di donne che lottano per rivendicare i propri diritti. È importante lavorare sulla “safe migration policy”, che punta a tutelare le persone in partenza per prevenire che finiscano nelle mani di trafficanti, anche se non basta perché spesso, sebbene si parta con dei contratti, questi non vengono poi rispettati nel Paese di arrivo e si finisce senza paga e senza tutele. Servono quindi numeri verdi che permettano ai lavoratori di contattare l’ambasciata e chiedere aiuto. Non si possono lasciare sole persone tanto vulnerabili e fragili.
Leggi il reportage “Lavorare con il nemico“, e il mensile 111, “Non chiamateli borghi“.
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