La parola “lavoro” viene spesso associata al concetto di regole. Regole che riguardano l’aspetto normativo e comportamentale delle persone e regole di funzionamento delle aziende. In accordo con una delle basi fondamentali del nostro pensiero: “Se esiste una cosa deve esistere il suo contrario”, concetto affermato non solo da Eraclito di Efeso (Efeso 535 a.C.-475 […]
Evita Paleari, Mediaset: “Il mio lavoro ai tempi del bianchetto”
Ha 54 anni, e il suo ingresso in Mediaset si può definire di un’altra epoca: correva l’anno 1985. Aveva solo 19 anni, la patente e il diploma. In quel periodo la holding del gruppo Berlusconi assumeva tante persone, e lei, dopo aver spedito il curriculum tramite raccomandata con ricevuta di ritorno e dopo aver superato […]
Ha 54 anni, e il suo ingresso in Mediaset si può definire di un’altra epoca: correva l’anno 1985. Aveva solo 19 anni, la patente e il diploma. In quel periodo la holding del gruppo Berlusconi assumeva tante persone, e lei, dopo aver spedito il curriculum tramite raccomandata con ricevuta di ritorno e dopo aver superato il colloquio, ha iniziato subito a lavorare come assistente di direzione. Oggi, dopo 34 anni, è ancora in Mediaset con lo stesso ruolo. E già questo la rende un caso da studiare. Ha solo cambiato “zona”: infatti negli anni è passata dalla direzione del personale alle news.
Riesco a sentirla in un momento in cui è in pausa dal lavoro. L’azienda le ha concesso un’aspettativa per assistere i genitori che hanno problemi di salute, e così Evita Paleari riesce a trovare un po’ di tempo anche per me. Sospetto che se fosse stata al lavoro, difficilmente avrebbe trovato il tempo per questa intervista. A Evita ho chiesto di raccontarmi i suoi 34 anni in Mediaset, come ha vissuto le evoluzioni del suo lavoro e il rapporto con i capi, e anche perché questo è un ruolo che si declina quasi sempre solo al femminile. Ma iniziamo dal principio.
E in principio ci fu il colloquio.
Ero fresca di scuola e sicura che la mia professoressa mi avesse insegnato tutto quello che c’era da sapere. Invece neanche il primo giorno di lavoro, ma direttamente al colloquio, mi sono scontrata con la dura realtà, cioè che nessuno ti insegna ad affrontare un colloquio di lavoro. Sei lì da sola e devi giocare la tua partita. Ancora rido quando penso che alla domanda “ci parli dei suoi hobby” io avevo paura di scrivere che la mia grande passione era la danza e scrissi: amo correre. Da quel momento in poi fui condannata, perché la mia vita fu una corsa unica.
E il colloquio come si svolse?
Prima c’era una parte scritta, un formulario da compilare. Ricordo ancora che me lo consegnò una ragazza, in tailleur, curatissima e bellissima, mentre io ero lì con le mie scarpe scalcagnate. Avevo una valanga di scarpe per ballare, ma nulla che fosse adatto a un colloquio; ero lì con un paio di Superga. Non avevo mai la scarpa adatta, non ne azzeccavo una. Mi sentivo piccola, sulla punta di quel divano arancione e meraviglioso quando quella ragazza mi porse il modulo e mi disse: “Dovrebbe riempire prima questo formulario, poi la farò parlare con il direttore così vi confronterete faccia a faccia”. Le mie ascelle erano due laghi gemelli.
Eri tanto giovane, sei stata tradita dall’emozione.
Tanto che ho sbagliato due volte e per due volte mi sono fatta ridare il modulo. Sono riuscita a compilarlo solo al terzo tentativo. Quindi sono entrata nell’ufficio di questo megadirettore, e non so se sia stata l’emozione o altro, ma mi sono partiti una serie di starnuti pazzeschi. In una mano avevo il formulario, con l’altra cercavo di salvare il naso dalla goccia e con quella stessa mano ho dovuto presentarmi e ovviamente stringere quella del direttore.
Detta così fa ridere, ma lascia poche possibilità di successo. Ti sei chiesta come mai ti hanno assunta lo stesso, nonostante in quel momento fossi posseduta da un’antenata di Bridget Jones?
Me lo sono chiesta tante volte. Francamente di quello che ho detto al colloquio non ricordo nulla perché ero troppo agitata, però il pomeriggio stesso mi hanno richiamata a casa per indicarmi tutta la serie di documenti che dovevo produrre perché il posto era mio.
Il passo successivo qual è stato?
Ho fatto una serie di corsi, anche perché nelle aziende grandi la formazione era già una prassi consolidata. In quel periodo si investiva molto nella formazione del personale, un patrimonio che all’epoca non ho riconosciuto, ma che oggi è veramente oro. Magari ci fossero ancora così tanti imprenditori che hanno voglia di investire sulle loro assistenti e sui loro dipendenti. Ho fatto corsi di tutti i generi, ma quello che mi ha lasciato un segno più profondo è quello tenuto da un manager che ha spiegato l’importanza del sorridere dentro.
Be’, quello è fondamentale anche nella vita.
In realtà lì per lì io ero sconcertata. Ero davanti a un omino che mi diceva di sorridere anche mentre ero al telefono e parlavo con qualcuno che poteva essere dall’altra parte del mondo. Continuava a ripetere che il pensiero positivo e il sorriso possono essere contagiosi anche attraverso un filo, e alla fine mi resi conto che aveva ragione. Lì ho scoperto che il mio superpotere non era la danza, ma il sorriso. Da quel momento non l’ho più lasciato; questo ha cambiato il mio modo di pormi con gli altri, ma anche il modo che hanno gli altri di porsi verso di me.
Difficile che oggi si possa pensare di dedicare un corso a questi temi, anzi prima di iniziare questo reportage ho incontrato alcune assistenti e tutte lamentavano il fatto che devono lottare per fare formazione. “Tutte le volte sembra di chiedere la luna”: queste le parole testuali che hanno usato.
Oggi tutto viaggia a una velocità supersonica, e quando chiedi al capo un po’ di tempo per fare formazione diventa un dramma. Non si riesce a capire che le ore spese per la formazione potrebbero far risparmiare tante altre ore di lavoro. È il ritmo del tempo che è cambiato.
Quindi paradossalmente la tecnologia ci ha permesso di risparmiare un sacco di tempo, anche e soprattutto nei luoghi di lavoro, però sembra di non averne mai abbastanza.
La tecnologia è favolosa, ma solo se non ne diventiamo succubi.
Vero è che da quando hai iniziato la tecnologia ha rivoluzionato gli strumenti e le modalità di lavoro.
Pensa che nell’85 quando entravo in ufficio, dopo aver appoggiato la giacca e la borsa, la prima cosa che facevo era togliere il fodero argentato della mia Olivetti ET, la prima macchina da scrivere elettronica. Mi sembrava di possedere una Ferrari. Sulla scrivania avevo anche una calcolatrice, un’agenda, un blocco note e un telefono (uno dei primi telefoni a tasti). E poi c’era il mitico rotolone con gli indirizzi, una ruota con tanti cartoncini divisi in ordine alfabetico. Quella era la mia rubrica.
Senza gli strumenti che hai oggi qual era la tua giornata tipo?
Quando dovevo organizzare le riunioni usavo semplicemente il telefono. Il dramma era scrivere le lettere. Le comunicazioni ai nuovi assunti ad esempio erano sempre scritte in tre copie, la carta carbone era la nostra alleata. Ancora mi manca il suo profumo; un po’ meno a mia mamma, visto che la carta carbone si appiccicava ai polsini delle camicie bianche e lei doveva lavarle con sapone di Marsiglia e olio di gomito. Una disperazione. E poi se sbagliavi era un disastro, perché l’errore si ripeteva su tutte le copie.
In effetti la mail ci ha fatto completamente dimenticare il tempo che serviva per scrivere lettere e comunicazioni.
Per fortuna, dopo qualche anno di errori e ricopiamenti vari, una signora in Inghilterra inventò il bianchetto. Era figlia d’arte, perché suo padre faceva le vernici e lei se l’è inventato con qualche esperimento a casa e usando un pentolino.
E in quel momento ti è cambiata la vita.
Non puoi capire quanto! Perché quando eri lì che scrivevi una lettera e avevi quasi finito e facevi un errore, avresti voluto spararti. Anche perché a quel punto passavi la giornata a fare una lettera. Una sola lettera! Una volta che il bianchetto è arrivato sulle nostre scrivanie abbiamo svoltato, eravamo bravissime a diluirlo e a trovare la densità giusta perché la correzione si notasse il meno possibile. Ovviamente era il bianchetto con il pennellino, non quello di oggi con la striscia bianca già pronta. Finché non ci sono state le stampanti abbiamo lavorato così; ed era anche il periodo dei tailleur.
C’era un’etichetta ben precisa nell’abbigliamento?
In realtà nessuno ci ha mai imposto un’etichetta, ma a noi non sarebbe mai venuto in mente di metterci i jeans. Si viveva in uno status diverso, c’era un tacito dress code. Oggi tutto è cambiato, anche io vado in ufficio coi jeans, però l’impostazione di quegli anni non la dimentico.
Qual è il capo che ti ha dato più da fare?
Non faccio nomi, ma io lo chiamavo lo 007. Faceva di tutto, si lanciava dagli elicotteri e girava da una parte del mondo all’altra. Era spericolato e un bel giorno mi disse: “Io vado a Denver per una settimana, dovresti prenotarmi anche un elicottero che mi porta ad Aspen perché vorrei farmi una sciatina. Dopo dovresti prenotarmi un aereo su Parigi perché c’è l’inaugurazione di un famoso ristorante e non voglio mancare”. Io, ancora oggi non so perché, gli ho risposto: certo!
Scusa che anno era?
Brava, hai già capito. Era il 1997, come diavolo potevo prenotare l’elicottero, l’attrezzatura da sci, il volo per Parigi e tutto il resto in una settimana? Internet non esisteva e con il mio fluido inglese, solo per trovare il numero di telefono di un aeroporto americano ci ho messo un’eternità. Poi ho dovuto contattare l’aeroporto, l’eliporto, il pilota. Non ci dormivo la notte. Pensavo: “Oddio, gli avrò detto il numero giusto degli scarponi, avrà capito bene?”. Se a 007 non fossero entrati gli scarponi una volta giunto sul cucuzzolo della montagna lo avrei sentito urlare fino a Cologno Monzese. Ho impiegato una settimana a organizzare tutto, però andò tutto bene. Oggi posso fare la stessa cosa in mezza giornata, e dico mezza giornata perché c’è di mezzo il fuso orario, altrimenti ci vorrebbe anche meno.
Quindi ad oggi pare tutto più semplice.
La tecnologia aiuta, ma fare l’assistente non è un lavoro che la sera chiudi in un cassetto: vuol dire essere a completa disposizione del capo.
Perché gli uomini che fanno questo lavoro si contano sulle dita di una mano?
Forse è necessaria quella resilienza che nello spirito femminile è un po’ più spiccata. Però io spero che gli assistenti al maschile aumentino, anche perché se ci fossero più maschi forse il nostro ruolo sarebbe un po’ meno stereotipato.
Si fa ancora troppa fatica a uscire dagli stereotipi.
Certo! Ma questo vale per entrambi. Ad esempio, quando dovevo partorire e mi sono trovata davanti un ostetrico maschio gli ho detto “vai via, io non ti voglio”. Lui mi ha detto “come vuoi, ma partorisci da sola perché oggi ci sono solo io”. Quindi ben venga la mescolanza dei ruoli e soprattutto ben vengano le condivisioni. Anche se, per ora, in Mediaset di assistenti maschi non ce ne sono.
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