Fragole a chilometro zero, zero diritti

Torniamo su uno dei casi più eclatanti di caporalato del Nord Italia, quello dell’azienda milanese StraBerry, con un’intervista all’amministratore giudiziario Vincenzo Paturzo realizzata da due giovani giornaliste per il progetto della rivista gratuita “Emersioni”

Un'immagine dei dipendenti sfruttati di StraBerry insieme all'AD Stagno D'Alcontres

di Simona Berardi e Miriam Pasqui

 

Questo articolo non è firmato da un giornalista della nostra redazione.

SenzaFiltro ha deciso oggi di dare spazio a una giovane redazione tutta femminile che racconta il grave sfruttamento lavorativo. 14 ragazze tra i 16 e i 26 anni hanno dato voce a storie ed esperienze del territorio, da Milano a Legnano, passando per Gorgonzola, Busto Arsizio, l’hinterland e arrivando anche a toccare le rotte migratorie dal Bangladesh e Nord Africa nella nuova edizione della rivista gratuita “Emersioni”. Un lavoro che abbiamo deciso di sostenere e promuovere, perché le giovani redattrici hanno raccolto informazioni e interviste tra case di accoglienza, mercati informali, uscite diurne e serali, e crediamo che sia sempre più importante imparare a scrivere di cose difficili. L’iniziativa è promossa dalla Città Metropolitana di Milano nell’ambito del progetto a supporto di persone vulnerabili “Derive e Approdi”.

 

Vincenzo Paturzo è nato a Siracusa e si è formato professionalmente a Milano. Dal 2009 lavora per alcuni tribunali italiani, soprattutto per quello di Milano, come curatore fallimentare, commissario e amministratore giudiziario. In questa veste si è occupato della vicenda della StraBerry, l’azienda agricola fondata più di dieci anni fa, divenuta famosa per per la produzione e la distribuzione di fragole e frutti di bosco a chilometro zero, pluripremiata dalla Coldiretti e poi, nel 2020, accusata dello sfruttamento lavorativo di 73 braccianti, costretti a lavorare con turni anche di 12 ore al giorno senza bagni e docce. Lo abbiamo intervistato per capire meglio una delle vicende di caporalato più note del Nord Italia. E tra le più “esemplari”: i terreni dell’azienda finita sotto sequestro erano a soli 20 chilometri dal Duomo di Milano.

 

 

La vicenda della StraBerry ci sembra importante, anche se risale a un po’ di tempo fa. Ci sono novità? 

In effetti il sequestro, che ha dato origine al mio coinvolgimento come amministratore giudiziario, è stato avviato il 10 agosto 2020. Le ultime novità sono che la Cassazione ha revocato il provvedimento. L’amministrazione giudiziaria ha ripristinato infatti le condizioni che avevano determinato il sequestro: i servizi igienici sul luogo di lavoro e le strutture dove i lavoratori operavano. Il giudizio è ancora pendente sulle persone fisiche coinvolte. L’attività che ho svolto oggi è realizzata da un’amministrazione, nominata dai soci dell’impresa, ma che non vede nel consiglio d’amministrazione le persone coinvolte nelle vicende processuali, ancora soggette a giudizio.

Quali erano, nel dettaglio, le irregolarità risolte dall’amministrazione giudiziaria?

Quando siamo entrati ho ricevuto le prescrizioni delle autorità competenti, dall’ATS (l’Agenzia di Tutela della Salute) all’Ispettorato del lavoro. Mi hanno dato una specie di decalogo. Ad agosto 2020 abbiamo trasformato le serre in ambulatori e realizzato circa 90 visite mediche e la maggioranza dei vaccini. Poi ci siamo occupati dei dispositivi di protezione individuale e delle altre norme di sicurezza. Ci siamo occupati di servizi igienici, docce, spogliatoi, di contratti e corsi di formazione professionale sulla sicurezza. 

Si tratta di un caso isolato?

Credo che queste situazioni siano diffuse ovunque ci giriamo, dall’Emilia-Romagna alla Basilicata. Da una parte c’è la difficoltà di organizzazione del lavoro agricolo, con picchi di attività in alcuni momenti dell’anno, dall’altra c’è il tema importantissimo dei prezzi di vendita. Trovo assurdo che il produttore, che sia di fragole, di patate e quant’altro, si assuma tutto il rischio imprenditoriale e delle vendite. C’è uno scollamento totale tra le campagne, il mondo dell’agricoltura, l’organizzazione del lavoro agricolo e la grande distribuzione, i prezzi e i tempi che impone. Poi c’è l’aspetto contributivo: durante l’amministrazione giudiziaria abbiamo ridotto in via provvisoria i contributi INPS.

Ma secondo lei anche soltanto uno di questi ragazzi arriverà a prendere la pensione? Non sono contributi che finiscono nel dimenticatoio?

Quando hai un’azienda come quella che ho potuto seguire io e la metti in amministrazione, devi eliminare tutta la tassazione, visto che i soldi li gestisce l’amministrazione giudiziaria – che è un pubblico ufficiale – per reinvestirli nell’azienda e per creare condizioni primarie come le abitazioni stabili per questi ragazzi, così che possano portare qui anche le loro famiglie. Bisogna creare un’economia circolare: stabilizzi la forza lavoro in quella zona, dando possibilità di realizzare alloggi, riutilizzando case abbandonate da ristrutturare, rivalutando anche il tuo patrimonio. Le persone si radicherebbero sul territorio e potrebbero riprendere a pagare le tasse.

Lei fa affermazioni “rivoluzionarie”, dicendo che i giovani lavoratori stranieri dovrebbero portare qui le famiglie, che occorrerebbe assegnare loro le case popolari da ristrutturare per radicarli sul territorio e nelle comunità rurali.

Bisogna attenuare la pressione fiscale sull’agricoltore, ed è necessario porre dei limiti e delle regole alla grande distribuzione organizzata, perché non può fare il bello e il cattivo tempo. La politica dovrebbe essere disposta ad ascoltare, a ragionare su come far ripartire l’agricoltura, sul come promuovere sviluppo economico e sociale a partire dalla coltivazione della terra.

Ha parlato di cose molto elementari come i bagni, che dovrebbero essere ordinarie nelle aziende di tutto il mondo. Forse quello che manca è il controllo iniziale?

L’azienda agricola non deve avere il bagno con il marmo. Basta una semplice organizzazione fatta nel campo, e soprattutto snellire l’enorme carico di requisiti e obblighi. C’è bisogno di poche regole, chiare e di semplice utilizzo. Come per la formazione: noi abbiamo fatto una formazione in lingua francese, che risultasse comprensibile e utile. Le soluzioni ci sono nell’agricoltura, ma bisogna volerle applicare; quello che serve è investire con un’ottica di lungo respiro. Bisogna investire nella gente che lavora e che a sua volta investirà. 

Che cosa le ha dato questa esperienza dal punto di vista umano e relazionale?

Ognuno di questi ragazzi ha una sua storia. Ho conosciuto uno zoccolo duro di 20-30 ragazzi che lavoravano in continuità nell’azienda. La prima cosa che si nota è che alcuni hanno molta voglia di lavorare e non guardano nulla, non stanno a vedere le ore di lavoro, la fatica e la pausa, le ferie, la malattia, i bagni in azienda. Non conoscono i loro diritti di lavoratori, non sanno che cosa sono lo sfruttamento e le regole: devono lavorare e mandare i guadagni alle famiglie nei Paesi di origine, dove hanno genitori, figli, mogli. È questo il loro progetto migratorio; è questo l’impegno che hanno assunto. E poi in alcuni casi c’è un debito da saldare. Molti arrivano dai campi della Libia prima di prendere il barcone. Ho visto le cicatrici di un ragazzo: ogni cicatrice racconta quello che aveva passato. Questo è il vero dramma. Alcuni scappano da guerre di cui non si parla nemmeno, da conflitti di cui nessuno conosce il nome. Sono convinto che se chiamassi uno di questi ragazzi per un qualsiasi lavoro, una collaborazione, un’attività, dovunque in Italia, verrebbe di certo ad aiutarmi. 

 

 

 

Photo credits: ilgiorno.it

“Emersioni – Incontri, testimonianze e domande sul grave sfruttamento lavorativo” è accessibile gratuitamente a questo link: https://linktr.ee/emersioni

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