Il futuro di Napoli? Chiedetelo a Dante & Descartes

“Non sono riuscito a distoglierlo dalla mia stessa, identica passione per i libri. L’ho capito quando una mattina, accompagnandolo a scuola, gli ho sentito fare con gli amici dei discorsi che sembravano simili ai miei. Lì ho capito che, davanti a un’attitudine e a una predisposizione così naturale e così forte, non puoi impedire a […]

“Non sono riuscito a distoglierlo dalla mia stessa, identica passione per i libri. L’ho capito quando una mattina, accompagnandolo a scuola, gli ho sentito fare con gli amici dei discorsi che sembravano simili ai miei. Lì ho capito che, davanti a un’attitudine e a una predisposizione così naturale e così forte, non puoi impedire a un figlio di fare il mestiere che sente suo, anche se quel mestiere è quello del libraio, oggi così difficile. Almeno ha il diritto di provarci”.

Il figlio di cui si parla si chiama Giancarlo, lui è Raimondo di Maio che si muove come un astronauta leggerissimo nell’atmosfera della sua libreria, oggi scrigno minuto ma mai fragile dopo un trasloco sofferto. Editore e libraio che ha portato in giro per il mondo l’insegna della sua Dante&Descartes,al punto da riuscire a pubblicare persino Borges e a vivere una cena con Maria Kodama che qualche anno fa venne a Napoli appositamente per conoscerlo e ringraziarlo di quel libro. “Il mio mestiere a volte fa regali impagabili, le ore trascorse con Maria Kodama sono state come toccare Borges con un dito”. Raimondo ha sempre avuto a che fare coi nomi grandi della letteratura. È il libraio più vicino a Erri De Luca per stima e amicizia e gli cura tutti i contenuti sui social. Forte il legame anche con Domenico Rea, noto scrittore e giornalista morto nel ’94 di cui proprio a settembre ha rimesso in stampa Due matrimoni, una delizia di opera con testo inedito. Di Rea cura tuttora personalmente la pagina Facebook.

Lo guardo e mi chiedo se Raimondo sia piccolo di statura o se sia un effetto, se abbia delegato all’imponenza delle migliaia di libri che gli stanno addosso il compito di suggerire le misure giuste.

Siamo in via Mezzocannone, per chi conosce Napoli è dare una coordinata culturale ben precisa.

“Una volta, qui a fianco, avevo una libreria di tre piani, un reparto universitario, uno di antiquario e uno di libri usati. Poi purtroppo ho dovuto ridurre”. 

Raimondo di Maio

Avrai comunque un tuo ordine, immagino, qui in mezzo.

“Più o meno. A volte sì, a volte meno”.

Oggi a che punto è, della sua storia, questa Napoli?

“C’è un problema più profondo e più serio quando si parla di un’economia di scala. Napoli più che una città che produce consumo è una città che consuma. Noi napoletani siamo un popolo che consuma desideri e bisogni indotti dalla società e dal sistema economico. Oggi dall’alto ci esibiscono lo spauracchio dei migranti e invece il problema è completamente inverso; lo si capisce bene gestendo una libreria perché di qui passano i nostri migranti, le centinaia di studenti che studiano e comprano libri ma che poi sono costretti a migrare, a meno che non provino ad appassionarsi a un loro percorso. Migrante lo sono stato anch’io negli anni Settanta e non c’è niente di male. Adesso ho 60 anni ma dopo aver vissuto in Francia, Germania e poi in Emilia capii che il mio sogno e il mio bisogno era Napoli, la città dove sono nato e alla quale sento di appartenere.

La camorra nei suoi consigli di amministrazione istruisce ragazzini anche molto piccoli, li indirizza nel fare le stese e, quando nel 2018 assistiamo tuttora a queste sparatorie urbane, capiamo quanto sia “distratta” la politica cittadina e nazionale. È di una gravità assoluta che tutto ciò accada in una città che si dice civile. Napoli è una città non solo poco produttiva ma a tutti gli effetti parassitaria, che vive di qualsiasi cosa”. 

 

Per l’intervista ci siamo ricavati uno spazio seduti, spostando pile di libri e occupando una piccola poltrona di pelle liberata da centinaia di pagine. Tutti i giorni viene a sedercisi un uomo che con la vita non ha avuto fortuna – forse perché ha spinto troppo sui tasti sbagliati – ma sta di fatto che Raimondo lo accoglie e gliela fa trovare libera. Ci passa ore insieme, mentre lavora dietro il suo bancone.

E infatti, all’improvviso, l’uomo arriva e prova a interromperci.

“Scusate.”

“No, scusate voi, stiamo facendo un’intervista”, dice Raimondo.

“Ah. Io sono un affezionato cliente dell’amico qua presente”,  mi dice negli occhi. 

“Tre caffè vanno bene. Grazie”, gli dice Raimondo con un invito a darci tempo e uscire.

“Ma voi sapete cosa diceva monsignor Della Casa? Che l’ospitalità è tutto”, chiosa l’ingegnere.

 

Con quali presupposti tu andavi all’estero negli anni ’70 e con quale ci vanno invece i ragazzi di oggi?

“Completamente diverso. Io ero un ragazzo del popolo, io ho studiato solo grazie al Partito comunista che ringrazierò a vita. Io sono un comunista per errore”. 

Errore tuo o di altri?

“Diciamo per errore ontologico perché l’antropologia umana crea questi problemi.

Tornando a noi, io vengo da un mondo premoderno, ho iniziato a lavorare a otto o nove anni; una storia che non auguro a nessuno. In questa città c’è una fiaba retorica che è quella del caffè sospeso ma la tristezza della storia è che il caffè sospeso prevedeva un esercito di bambini che andasse a lavorare e io ero uno di quelli. Il mio primo lavoro in questo vicolo popolare è stato esattamente quello del bar e per giocare anche solo un’ora a pallone – come tutti i bambini vorrebbero – dovevi scappare di nascosto e con non poca paura dal capo-padrone. Scappare all’estero per me è stato fondamentale, vivere a Berlino e Parigi è stato fondamentale. Sono andato via perché là si lavorava con una naturalezza diversa e si guadagnavano somme impensabili per l’Italia e per Napoli”.

Cosa ti raccontano gli studenti che passano di qui e che vanno all’estero?

“Non mi raccontano nulla. Vedo biografie costruite con tanto studio e tanta passione e poi, quando arriva il momento in cui dovresti trovare la tua soluzione e il tuo spazio professionale, sei costretto ad andartene. Sai cosa vedo nei ragazzi di oggi? Il bere. Bevono continuamente, giorno e notte, e ci sguazzano sopra. Non ne capisco il senso. Non riconoscono più il giorno e la notte, non conoscono più la meditazione, vivono il silenzio stando tutti con una birra in mano senza dirsi nulla ma quello non è silenzio, quello è più simile al vuoto. Per fortuna alcuni di loro trovano la forza di scegliere e di andare fuori per desiderio, provano a costruirsi almeno il minimo di un sogno”.

Quanta vita sarà passata su questi marciapiedi qui fuori.

“Ho visto solo una involuzione. Su questa strada prima c’erano venti librerie, io sono rimasto l’unico e l’ultimo, risalendo via Mezzocannone”. 

Non può essere sparito anche il fermento dei napoletani, però.

“È vero, quello c’è ancora, quello è rimasto. Napoli è di una vivacità culturale straordinaria, da fuori non si ha idea di cosa ci sia in giro per Napoli che risponde sempre al bisogno di comunicazione pur non essendoci paragone col passato. I ragazzi stavano per ore in libreria a ragionare di politica e di cultura e di idee proprie. Oggi vivono tante identità tutte insieme, durante il giorno sono un po’ alcolici, un po’ studenti, un po’ sessuofobi. Mi sembra che di fondo ci sia un erotismo sfrenato che induce quasi tenerezza. Per noi da ragazzi lo scopo dello stare insieme era confrontarci, parlare, conoscere chi eravamo e il mondo che ci stava intorno e poi la domenica si andava ogni tanto al bar a dividerci una birra grande in quattro. Per carità è cambiato il mondo e la percezione, io parlo da osservatore e non mi permetto di decretare un meglio e un peggio”.

Ha senso provare a rendere attrattiva una libreria quasi fosse un bar? 

“Bella domanda. Fisicamente è difficile. Io cerco di curare molto i contenuti sui canali social e non nascondo che il minor afflusso di persone in libreria lo compenso con la possibilità del maggior tempo da dedicare alla relazione coi lettori, seppur in modo più virtuale. Se lavori bene sul territorio, lo sforzo alla fine ti ripaga ugualmente perché i lettori dei canali social vengono fisicamente in negozio. A me non dispiace affatto la dimensione creativa del gestire una pagina Facebook parlando di libri, riesco a metterci dentro tanto del mio mestiere. Faccio sicuramente errori ma provo continuamente a migliorare. Facebook permette un’immediatezza di rapporto con il mondo e con il fuori, niente è da demonizzare in assoluto. Le cose vanno gestite, mai allontanate”.

Quanto sei cambiato tu rispetto alla tua città?

“Gli anni ci sono ma non me li sento poi così tanto. Qualche sera fa sono stato a una cena e a un certo punto ho sentito che tutti mi salutavano come il decano delle librerie napoletane, e pensare che io mi sento ancora molto giovane. Quanto al mio rapporto con Napoli, posso dire che è buono, senza dubbio è un buon rapporto. Questo lavoro lo faccio perché l’ho scelto io. Avrei potuto fare altro con vantaggi economici ben diversi ma ho scelto questo. Questo lavoro è stato un’avventura straordinaria per la mia vita”.

Chi sono gli autori contemporanei capaci di raccontarci Napoli?

“Io credo non sia possibile raccontarla, si rischia sempre di fare la solita cartolina fasulla. Naturalmente abbiamo grandissimi intellettuali da Erri De Luca a Giuseppe Montesano che osserva la città da Sant’Arpino – tra Napoli e Caserta – un po’ come faceva Croce da Piazza del Gesù anche se Montesano ci mette un taglio più internazionale. E poi c’è, in parte, anche Roberto Saviano che è cresciuto per caso in questa libreria, facevamo una rivista insieme che si chiamava Sud. Il suo primo libro, Gomorra, lo abbiamo presentato in bozze nella mia vecchia libreria: se ne era capita subito la pericolosità perché le bozze che mi arrivavano da Mondadori erano bollenti”.

Chi sono i napoletani che non riconoscono Saviano come uno di loro?

“Credo che in un certo momento storico probabilmente lo star system abbia avuto bisogno di un testimone e abbia scelto Roberto Saviano ma lui è un uomo di grande intelligenza e ha saputo capire. I napoletani sono per natura di spirito contrario così come a lui avrà dato fastidio l’essere diventato per un po’ di anni il testimone e portabandiera di tutto ciò che accadeva a Napoli. Se è a rischio, Saviano lo è non tanto perché ha scritto libri ma perché ha detto cose, lo è per la sua uscita pubblica che ha messo sotto gli occhi di questo Stato cieco ciò che accade a Casale e per aver rotto il confine tra la camorra che spara e quella che porta i colletti bianchi o che fa politica. Questa nostra società, tutta, è dentro una profonda corruzione verticale, non abbiamo solo la camorra ma corrotti sono anche gli apparati produttivi. Mai così corrotti come oggi”.

Ma alla fine, di Napoli, cosa arriva al resto del Paese?

“Poco, pochissimo, e spesso distorto; potremmo chiamarla una guerra dell’informazione. Nel bene e nel male Napoli è scomoda e si preferisce metterla a tacere, è un dato di fatto che da Napoli le informazioni non passino. Qui ci sono problemi enormi col lavoro, soprattutto col lavoro nelle campagne: abbiamo centinaia di aranceti e limoneti che perdono i frutti perché nessuno li raccoglie ma al tempo stesso non vogliamo i migranti che sarebbero disposti a farlo con salari bassissimi e indecenti al tempo stesso, forse i più bassi della storia. Qui viviamo immersi nel controsenso e nella disorganizzazione totale del vivere insieme che vorrebbe dire, invece, essere un vero Stato. Va tutto riorganizzato, questo non è il postmoderno ma l’incapacità di vivere come una comunità, tra persone civili, ridistribuendo il reddito e i beni di una terra intera, avere la cura delle cose. La sensazione, al contrario, è che si spingano i poveri a farsi la guerra tra di loro, confondendo le carte.

La nostra Italia manca totalmente di un’etica del lavoro, si permette un caporalato che è diventato scientificamente presente quasi in ogni lavoro da nord sud. In Italia anche se vuoi fare l’attore devi pagare una mazzetta a qualcuno, anche se vuoi vendere libri rischi di doverlo fare. C’è una totale non libertà nell’accedere al mondo del lavoro”.

Che linguaggio parla Napoli?

“È cambiato radicalmente, Napoli è cambiata moltissimo anche perché sono gli strumenti che cambiano la città dal profondo, ne cambiano radicalmente i bisogni. In questi anni abbiamo quasi tutti figli che vanno all’università. Si pensa stupidamente che per accedere al mondo del lavoro serva una laurea e invece quanto servirebbero gli artigiani per ridare dignità al mondo del lavoro, quanto è complesso se non impossibile trovare giovani disposti a fare lavori di artigianato. Ripeto: manca un’etica del lavoro”.

 

“How much?”

Entra e paga i suoi due euro una giovanissima studentessa americana

che ha pescato un vecchio libro d’arte dal cesto che Raimondo tiene in strada.

 

Vorresti provare a darcela tu una definizione di etica del lavoro?

“Il lavoro è etico quando soddisfa i bisogni primari di una persona e della società in cui vive. Per lavoro si intende oggi solo la minima sopravvivenza, lo si vive mediamente solo per coprire le spese proprie e di una famiglia; che errore. Ci siamo accorti o no che le logiche del denaro fini a se stesse e della finanza tanto arida ci hanno ridotti così? Coi soldi, gli italiani sono facilmente corruttibili in tutto, non solo a Napoli, e non possiamo negarlo. Purtroppo la fatica dei tempi che viviamo deriva da una estrema complessità dei fenomeni che ci accadono intorno, il cittadino medio dovrebbe essere un epistemologo per dimenarsi tra le infinite articolazioni dei problemi del vivere e del governare. Siamo immersi dentro un’economia straziante, siamo immersi dentro un senso costante di sopravvivenza più che di vita, non c’è soddisfazione nel lavorare così”.

 

Giancarlo di Maio lo vado a incontrare in Piazza del Gesù dopo aver salutato Raimondo, è lui a insistere affinché lo vada a conoscere. Mi lascia il suo biglietto da visita bianco e verde, di un formato quadrato più grande dei soliti così che mi spunta per tutto il giorno dal resto dei contatti. Quello stesso padre che ha cercato di far desistere il figlio dalle sabbie mobili del mestiere di libraio, in realtà sa molto bene che il figlio farà la storia come lui. Giancarlo quel destino ce l’ha scritto in faccia mentre gli stringo la mano e mi presento.

“Sette anni fa ho deciso di aprire questa libreria in Piazza del Gesù. sapevo bene che non sarebbe stato facile ma alcuni lavori ci chiamano e ci chiedono un senso di responsabilità che diventa quasi una forma di servizio. Poi, da figlio cresciuto in mezzo al mestiere di mio padre, ho pensato che ogni generazione guarda prima indietro ai propri genitori per poi aggiungere qualcosa di suo e portare avanti una crescita.

“Questa libreria nasce anche da una ferita che è stata il dover chiudere per il caro affitto la storica sede in via Mezzocannone, oggi quella di mio padre è più una bottega che una libreria ma lui per fortuna ha la capacità di nobilitare anche uno spazio piccolo come quello. Un paio di anni fa però mi sono preso una prima rivincita, per quanto giovane: questo spazio doveva essere venduto praticamente con me dentro, i soliti giochi di speculazione, ma io ho attivato una sensibilizzazione pubblica nazionale anche attraverso i giornali e i social per far partire un crowdfunding e rivendicare il mio diritto di prelazione. Chiunque avesse sostenuto la raccolta fondi, avrebbe avuto in cambio un corrispettivo di valore in libri. Lo abbiamo chiamato A Piazza del Gesù Nuovo 14 non volava una carta e siamo riusciti a restare qui, comprare il locale ed essere liberi di fare questo mestiere che per me resta il più bello del mondo”.

 

 

Dimenticavo un dettaglio. 

Poco prima di salutare Raimondo, si è affacciato in libreria uno dei tanti clienti, un ragazzo con la faccia di chi vede più libri che donne.

“Ha per caso il libro Don Chisciotte e il problema della realtà di Alfred Schütz?”.

“Purtroppo no, mi dispiace. Arrivederci.”

Don Chisciotte, proprio lui sono venuti a cercare qui da Dante & Descartes dopo questa intervista lunga un’ora a scavare sotto il terreno sconnesso della realtà. Se non fossi stata a Napoli avrei pensato al caso, ma qui no. A Napoli il caso non esiste.

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