Il déjà-vu della ruota panoramica

È facile da capire. La vista è meravigliosa dalla ruota panoramica, ma non stai andando da nessuna parte. In questo c’è qualcosa di romantico, una certa bellezza, ma in fin dei conti c’è soprattutto un senso di inutilità. (Wonderful Wheel, Woody Allen) Estate, anni ’50. Sembra che tutta New York si sia trasferita a Coney […]

È facile da capire. La vista è meravigliosa dalla ruota panoramica, ma non stai andando da nessuna parte. In questo c’è qualcosa di romantico, una certa bellezza, ma in fin dei conti c’è soprattutto un senso di inutilità.

(Wonderful Wheel, Woody Allen)

Estate, anni ’50. Sembra che tutta New York si sia trasferita a Coney Island, a giudicare dal caleidoscopio di costumi da bagno sgargianti riflesso nella ruota panoramica, che sorveglia la battigia come un gigante affamato di turisti. È la scena iniziale dell’ultimo film di Woody Allen, Wonderful Wheel (“La ruota delle meraviglie”). Oggi come allora, esattamente come nella pellicola del regista newyorkese, è possibile estrapolare ogni genere di simbolismo dalle attrazioni di un parco divertimenti. Una giostra dalla quale si cerca di afferrare un anello di ottone, le montagne russe sulle quali lasciarsi andare, la vita che gira in tondo, senza imprevisti, di una ruota panoramica.

Ruote, avventure, inconvenienti

Gilbert Keith Chesterton scrisse che “Un’avventura è solo un inconveniente preso nel modo giusto. Un inconveniente è solo un’avventura presa nel modo sbagliato”, ma certamente non avrebbe scelto una ruota panoramica come simbolo di questa affermazione. È passato quasi un secolo dall’installazione della prima ruota, ma ogni volta che vengono scelte come attrazione per una città, in qualunque luogo del mondo raccolgono consensi e innovazioni. Da Coney Island alla Gran Bretagna, dove il numero annuale di visitatori della London Eye è superiore a quello del Taj Mahal e delle grandi piramidi di Giza; fino all’Italia, dove nell’ultimo anno sono state montate più di settanta ruote, tra piccole e grandi, per permettere ai cittadini di guardare la città dall’alto e di ammirarne la bellezza.

Nel 1982, per la prima volta dopo più di cinquant’anni, il Time scelse un essere non animato, il “computer”, come persona dell’anno. Quello attualmente in corso potrebbe essere considerato, paradossalmente, l’anno delle ruote panoramiche. Si parla di altezza, peso, numero di cabine, persone ospitate, ma che cosa succede davvero nelle nostre città, e perché le ruote panoramiche sono improvvisamente tornate così di moda?

Proprio mentre a Parigi il consiglio comunale sceglie di far smantellare la grande roue con la motivazione di voler restituire ai parigini e ai turisti lo spazio urbano che va dal Louvre all’Arco di Trionfo, Ancona, Bari, Genova, Salerno, e tante altre città si sono dotate di una attrazione antica che oggi assume nuovi significati. Dall’alto le città appaiono più belle, più sicure, i punti di vista e gli orizzonti si allargano. Panta rei, tutto scorre, con alti e bassi, simbolici e non. Vedere ma non toccare.

Panem et circensem 4.0

La teoria del panem et circensem non basta però a scavare nelle motivazioni alla radice del successo di questa attrattiva. Affinché un’operazione commerciale funzioni deve ottenere l’approvazione dei consumatori, e l’approvazione in questo caso si misura con il numero di biglietti staccati dai cittadini. Tanti, tantissimi in tutti i comuni, a un prezzo non irrisorio – in media 7 euro – rispetto alla tipologia di attrazione.

Statica, lenta, prevedibile. Ed è proprio in questa prevedibilità il successo della ruota: la forma circolare, la possibilità di dire “abbiamo ancora un altro giro da fare”, rassicurano, tranquillizzano e annoiano in senso positivo. Se chiedete a un viaggiatore che cosa lo spinge a fare, ad esempio, la Route66 (la più antica strada d’America, che collega Chicago a Los Angeles), vi risponderà che la bellezza di quel viaggio, il segreto per cui è ancora uno dei preferiti dai travellers americani e non, è la noia.

Viviamo un’epoca di sollecitazioni continue, con lavori che cambiano, aspettative di vita che si modificano, mezzi di comunicazione che evolvono. “Uscire dalla zona di comfort” è un motto molto caro ai motivatori, ai coach e a chi scrive gli aforismi su Facebook; ma siamo sicuri che la voglia di uscire da questa zona sia poi così sentita? O tutto sommato stiamo bene dove siamo, e abbiamo bisogno di abbellire questa zona di comfort, esattamente nel modo in cui una ruota panoramica dà nuova luce e colore alle nostre città?

La ruota panoramica e il lavoro

Il mondo del lavoro è rappresentato benissimo da questa simbologia. Cabine confortevoli, tanto storytelling (le luci, il mare, i luoghi conosciuti), ma guai a uscire dalla prevedibilità del giro. La ruota panoramica non piace ai bambini perché ai più piccoli piace l’adrenalina delle montagne russe, il brivido di una discesa con le mani alzate. La ruota piace agli adulti perché li rassicura, esattamente come alla generazione near fourty (i quasi quarantenni, principali fruitori dei social network) rassicura essere immortalati in foto simili.

E così all’improvviso ci siamo ritrovati a vedere attrazioni uguali, città uguali, fotografie uguali. Come siamo noiosi su Instagram, titola un articolo pubblicato i primi giorni di febbraio dal Corriere, rilanciato un giorno dopo da Vanity Fair e da Rivista Studio con il titolo La verità è che su Instagram facciamo tutti le stesse foto. La ricerca, proposta originariamente dal blog Gizmodo, spiega come noi esseri umani siamo molto più noiosi di quanto crediamo, ed è anche grazie a questa ricerca che possiamo spiegarci il successo della ruota panoramica. Lo mostriamo sui social network ogni volta che pensiamo di comunicare qualcosa di originale, mentre invece ci conformiamo pur di avere il consenso degli altri. L’effetto che si ottiene riunendo tutte le foto scattate dagli utenti di Instagram – spiega il video di Gizmodo – è impressionante: nella reiterazione in decine e decine di versioni, gli atteggiamenti coi quali tendiamo a condividere e catturare un’esperienza si rivelano in tutta la loro natura rituale, che appiattisce persone e scenari in un eterno déjà-vu.

Il rito delle foto

Mai come in questi anni è la fotografia a suggellare un patto definitivo con i nostri modelli culturali, un processo industriale sul piano dei comportamenti: salgo sulla ruota, fotografo, condivido, sono. E così via, ad libitum. Il gigante panoramico ci osserva – come accadeva a Coney Island nei primi anni ‘50, come è capitato a Londra, Parigi, Vienna, quando i social network non c’erano – e ci consente di apprezzare la città dall’alto, o diventa una scusa per immortalare le sfumature del cielo dal basso. Ci dà la certezza che oggi i panorami si assomigliano tutti. Ma la cosa, anziché destare preoccupazione, ci consola.

Perché in fondo, cittadini o professionisti, facciamo ancora una gran fatica a uscire dalla zona di comfort, dal cerchio della ruota, dal numero di giri prestabiliti. “È facile da capire”, dice uno dei protagonisti di Wonderful Wheel. “La vista è meravigliosa dalla ruota panoramica, ma non stai andando da nessuna parte. In questo c’è qualcosa di romantico, una certa bellezza, ma in fin dei conti c’è soprattutto un senso di inutilità”. Ci succede nel mondo del lavoro, nella quotidianità e persino quando utilizziamo i social network per raccontare le nostre vite scegliendo sceneggiature prestabilite, che ci regalano una vista meravigliosa, simbolica, iconica. Purché uniformata e distante dalla realtà.

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