[VIDEO] Hadi Noori, la ricetta è pace e spezie

“Sono nato il 7 ottobre del 1991 a Maidan Shahr, in Afghanistan, 50 chilometri da Kabul. Ma già a due anni ho iniziato una vita da rifugiato, quando con la mia famiglia siamo fuggiti in Iran. Mio padre era un alto ufficiale dell’esercito afgano, vegliava sui confini tra le montagne. Un giorno però ha capito […]

“Sono nato il 7 ottobre del 1991 a Maidan Shahr, in Afghanistan, 50 chilometri da Kabul. Ma già a due anni ho iniziato una vita da rifugiato, quando con la mia famiglia siamo fuggiti in Iran. Mio padre era un alto ufficiale dell’esercito afgano, vegliava sui confini tra le montagne. Un giorno però ha capito che il suo Paese non era più sicuro e che l’unico modo per proteggere la sua famiglia era quello di scappare altrove. Ed è dunque a Teheran che ho trovato la mia prima casa.”

La voce è ferma, lo sguardo brillante, le parole precise; il ricordo, nitido. Lui si chiama Hadi Noori, e oggi è il titolare di due ristoranti speciali e di successo. Alle spalle una vita densa di tappe, ricca di episodi che tanto somigliano all’avventura e che invece hanno solo a che fare con la sopravvivenza.

 

La storia di Hadi Noori: la fuga dall’Iran

Hadi, quarto di sei fratelli, inizia gli studi e crescendo diviene ben presto consapevole di essere nel posto sbagliato. Una nazione che tratta le persone come lui, della sua etnia, con disprezzo. Non c’è possibilità di trovare una posizione nella società, di avere un lavoro dignitoso, di raggiungere una vera emancipazione. Non può accettare di rimanere in quella terra, ed è così che a inizio ottobre del 2006, 15 anni, decide di partire. Da solo, a piedi, alla ricerca di qualcosa di meglio. Altrove, verso l’Europa, meglio se quella del nord.

Cammina, passa le zone desertiche; cammina, supera le montagne; cammina, supera ogni sole e pioggia, senza abbassare mai lo sguardo. Lungo la strada incontra, incrocia, affianca, tanti come lui. Giovani, vecchi, bambini, uomini e donne. Rivoli di un flusso unico, diretto verso un miraggio.

In due settimane è in Turchia, nella grande Istanbul. Solo la prima tappa, perché la porta d’Europa si chiama Grecia. Ma in mezzo c’è il mare. Incontra cinque nuovi amici, afgani pure loro. Assieme a loro compra un piccolo gommone e sei remi. Non serve altro, la determinazione fa il resto, anche se nessuno sa nuotare. All’una di notte gonfiano la loro speranza e partono, destinazione Mitilene, l’isola greca più vicina. Tanta fatica, tante navi da schivare, tanta paura dopo, arrivano finalmente sulla spiaggia, sfiniti.

Lasciano vestiti sporchi di mare e fuggono sparpagliandosi, ma alla fine la polizia li intercetta e li porta in un centro di accoglienza, consegnando loro un foglio di via e trenta giorni di tempo per uscire da quel Paese. Ma è proprio grazie a quel foglio che riescono ad approdare ad Atene.

“Io volevo migliorare la qualità della mia vita, volevo lavorare, volevo studiare. Per la prima volta ad Atene ho avuto la possibilità di respirare un’aria nuova, e in un anno ho fatto di tutto. Sono stato apprendista in un cantiere edile, sono salito tra le montagne a fare il formaggio, poi l’operaio in fabbrica, ma anche in una sartoria. Ho lavorato tantissimo, sono riuscito anche a far avere un po’ di soldi a casa, ma ancora una volta non avevo la possibilità di crescere, di continuare i miei studi. Non potevo più rimanere là. Dovevo proseguire il mio percorso, dovevo arrivare in Italia”.

 

Dalla Grecia all’Italia

La porta per l’Italia si chiama Patrasso, “il” porto per migliaia di speranzosi. Che si accampano – anche per diversi mesi – in una tendopoli non troppo distante dalle grandi navi porta-container. Provando a incastonarsi su qualche camion, provando a nascondersi in mezzo a qualche carico, e spesso venendo respinti e maltrattati.

“Dopo due mesi di attesa io e altri venti nuovi amici afgani ci siamo ricavati dello spazio all’interno di alcuni contenitori di arance caricati dentro un camion frigo, e così nascosti siamo riusciti a imbarcarci. Ci sembrava impossibile. Eravamo al buio, in una cella con una temperatura che poteva variare tra 0 e 4 gradi; non ci restava che attendere e resistere. 48 ore che non dimenticherò facilmente. Siamo rimasti immobili fino a quando non abbiamo avuto la certezza che il camion era sceso dalla nave e che si stava muovendo sulla strada. A quel punto era giunto il momento di far rumore e di farci aprire, per scappare. E così è stato, alla prima area di sosta nei pressi di Ancona”.

Hadi ha le idee chiare, e facilmente raggiunge in treno un suo zio che lavora a Venezia. Ancora una volta, da minorenne, ottiene dalle autorità una legittimazione a rimanere. Ed è così che inizia una nuova vita. Si mette subito a studiare l’italiano, completa la terza media riuscendo anche a farsi validare il titolo di studio già conseguito a Teheran. Nel frattempo non smette mai di lavorare, diventando apprendista in una gelateria tra le calli veneziane. Prosegue quindi gli studi con le scuole superiori serali, specializzandosi in economia aziendale.

“A 17 anni sono entrato come addetto alle pulizie in un’azienda veneta che si occupa di importazione e vendita di caviale. E passo passo ho fatto di tutto, assistendo a tutte le fasi del processo produttivo. In questo modo sono riuscito a crescere fino a diventare, nel giro di nove anni, maestro salatore, una figura davvero preziosa per l’azienda stessa”.

 

Un talent per soli rifugiati

Ormai il ragazzino afgano partito nel 2006 da Teheran sembra davvero lontano. Hadi è pienamente integrato, ha un lavoro, ha tanti amici, italiani e non; ed è proprio grazie alla rete di amici che si avvicina al mondo del food. In particolare, prendendo ispirazione dal ristorante Orient Experience di Venezia ideato dallo chef Alikhan Kalandari, nel 2016 arriva ad aprire il suo Africa Experience, sempre nella città lagunare. Due realtà diverse tra loro, ma simili nell’approccio. Sapori etnici, mix di diverse culture, contenuti e ingredienti locali.

Giorno dopo giorno Hadi e Alikhan consolidano una bella amicizia e decidono di voler far qualcosa in più per le persone che come loro sono arrivate in Italia alla ricerca di fortuna. Ispirandosi a un famosissimo talent si inventano Refugees Masterchef, una competizione a cui vengono chiamati a partecipare – dai diversi campi di accoglienza del NordEst – solo rifugiati, di tutte le etnie. In palio: uno stage presso uno dei due ristoranti etnici veneziani e a seguire, auspicabilmente, l’assunzione. È un grande successo, da ogni punto di vista.

Il progetto cresce e i due soci-amici approdano a Padova, rilevando la storica – ma ormai stanca – pizzeria Dai Gemelli, in pieno centro. Si rimboccano le maniche e ne trasformano l’anima con le loro mani, forti dell’esperienza fatta in ogni campo, dall’edilizia alla falegnameria. Nasce così, nell’ottobre 2017, il ristorante Peace ‘n’ Spice.

“Qui abbiamo studiato un menù di viaggio che potesse portare i visitatori a fare un percorso attraverso i molteplici gusti del Mediterraneo e delle nostre terre, rivisitati però per il palato italiano, con ingredienti e spezie a chilometro zero. Abbiamo voluto inoltre fare un passo in più, affiancando ai cibi anche bevande realizzate miscelando la tradizione orientale con l’approccio locale”.

Oggi l’insieme dei ristoranti di Hadi e Alikhan dà lavoro a più di cinquanta persone, di ogni nazionalità; anche a molti giovani italiani, che quotidianamente bussano alla porta per portare il proprio CV. “A noi interessa chi ha voglia di lavorare, non importa da dove venga”, spiega Hadi. Poi aggiunge, con un sorriso: “È bello poter restituire il favore e dare noi idealmente asilo a chi ci ha accolto nella propria terra”.

 

La ricetta dell’integrazione

Ascoltare la storia di questo ragazzo, dallo sguardo deciso e dal volto sereno, è una di quelle esperienze che lasciano il segno. Non è cosa ovvia, per come tutto è iniziato, essere ora di fronte ad un vero lieto fine. Merito di chi ha accolto, ma anche di chi ha voluto essere accolto.

“C’è un antico proverbio che dice: un uccello per volare ha bisogno di due ali. Per raggiungere una vera integrazione è proprio necessario che tutti facciano la loro parte: il Paese che riceve gli immigrati, che non può aprire le porte a tutti senza porre regole; le persone che arrivano nei più diversi modi in una nuova terra, che non possono pretendere di avere e basta, senza quasi fare fatica. Qui in Italia a volte ho avvertito una difficoltà a livello politico: c’è chi vorrebbe chiudere tutti gli ingressi, c’è chi vorrebbe lasciare aperta ogni strada. Ma nessuna delle due opzioni può andare bene. Il modello di riferimento che ho in mente è il nord Europa, dove gli immigrati sono davvero un patrimonio da valorizzare, una risorsa che diventa produttiva presto e che dunque si integra facilmente nella società. La prima regola ad esempio è chiara: è necessario metterli nelle condizioni di imparare la lingua locale, subito. Senza questa tappa non è possibile andare avanti in alcun modo, neppure con un lavoro regolare”.

La lucidità di Hadi mi lascia senza parole. In pochi minuti ho raccolto elementi per un ideale Ministero dell’Integrazione, di cui tanto avremmo bisogno nel nostro Bel Paese. Essere buonisti non serve, così come non ha senso essere a priori ostili a tutti. E sembra tutto così ovvio, ora. Lui è arrivato in Italia attraverso un percorso difficilissimo, e sempre, alla prima occasione, si è tirato su le maniche e si è dato da fare. Ha lavorato, imparato, lavorato, imparato, lavorato.

“Sono stato fortunato, ho trovato sempre accoglienza. Siete un popolo adorabile e qui mi sento a casa. Io ci ho sempre messo il massimo impegno, ma di fronte a me ho trovato persone aperte e disponibili. Di certo non per tutti è andata così. Sono in migliaia, ogni giorno, che provano a bussare ai confini. Donne, uomini, vecchi, bambini. E rimangono fuori”.

Una bellissima storia di integrazione e di nuove radici che fanno presa. Che ha portato Hadi anche a entrare, quasi per caso, nella squadra ASD Serenissima di Venezia, che ha vinto per ben tre volte il campionato italiano di Palo della Cuccagna. Strabiliante.

“Oggi quello che posso fare lo faccio nei nostri ristoranti, aiutando ad esempio alcuni immigrati a imparare la cucina sana, o ancora insegnando loro la lingua italiana, in modo semplice, quando riesco. Ma soprattutto stiamo cercando di far vivere esperienze di integrazione ai tanti italiani che ci vengono a trovare, attraverso i sapori, le musiche, le letture delle nostre terre. Sempre con un riferimento chiaro al luogo in cui siamo. Per far capire che un buon piatto diventa tale e interessante solo mettendo assieme nel modo migliore tutti gli ingredienti, specialmente quelli che sembrano avere provenienza diversa”.

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