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Il futuro del lavoro lo decidiamo noi
L’economia e il mercato del lavoro stanno attraversando un periodo di messa in discussione dei paradigmi che sino a ieri costituivano l’ossatura delle società. Ormai lo sentiamo ripetere da tempo: la quarta rivoluzione industriale “cancellerà” le professioni più tradizionali. D’altra parte c’è anche chi dice che aprirà la strada a nuovi campi professionali, e ovviamente […]
L’economia e il mercato del lavoro stanno attraversando un periodo di messa in discussione dei paradigmi che sino a ieri costituivano l’ossatura delle società. Ormai lo sentiamo ripetere da tempo: la quarta rivoluzione industriale “cancellerà” le professioni più tradizionali. D’altra parte c’è anche chi dice che aprirà la strada a nuovi campi professionali, e ovviamente su questo fronte c’è un enorme interesse. Le chiamano professioni digitali di rottura.
Le nuove professioni digitali
Alberto Maestri, che per FrancoAngeli dirige la collana Professioni digitali, dichiara in un’intervista: “Che cosa vuoi fare da grande? Fino a qualche anno fa le risposte erano le stesse che avrebbero dato i nostri genitori, l’avvocato, il medico, l’insegnante. Oggi ci troviamo davanti opportunità prima sconosciute. La causa è la rivoluzione digitale, che sta cambiando il nostro modo di vivere e di definire i traguardi della vita adulta rimasti uguali per generazioni. Primo fra tutti il lavoro. Accanto alle professioni tradizionali stanno infatti nascendo nuove professioni digitali sempre più richieste dal mercato”.
Il grande cambiamento che stiamo vivendo, a volte nostro malgrado, è dato dalla connettività, dal fatto di essere perennemente online riducendo i confini fra il tempo libero e il tempo del lavoro. Sono aumentati poi a dismisura i contenuti a cui siamo sottoposti: testi, immagini, video. La rivoluzione è intorno a noi, indipendentemente dal settore di appartenenza. In qualunque modo si desideri affrontarla, questa deve essere considerata come un’opportunità per rifiorire e andare avanti.
Il “problema di Owen”
La difficoltà che incontra Owen a spiegare il suo lavoro in una serie di spot della General Electric, What’s the Matter with Owen?, riassume in maniera efficace e divertente la diffidenza verso la digitalizzazione del lavoro. Oppure si potrebbe anche dare una risposta alla Nanni Moretti in Ecce Bombo: “Be’, come campi?”, “Mah, te l’ho detto: giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio cose”.
Non cito a caso la General Electric. Infatti, nonostante sia una delle aziende più longeve del mondo – o forse proprio perché lo è – nel 2016 ha deciso di cambiare rotta e diventare un’azienda digitale, che punta a diventare uno dei primi dieci produttori di software a livello mondiale entro il 2020. secondo Jeff Immelt, presidente e CEO di GE, “L’Europa ha le competenze e le infrastrutture per condurre una rivoluzione della produttività, e la digitalizzazione del settore deve essere al centro di questa missione. GE è impegnata ad aiutare l’Europa a sviluppare le basi dell’industrial Internet, che consentiranno alle aziende del continente di trasformare le informazioni in conoscenze e le intuizioni in risultati”.
Il ruolo strategico dell’educazione
Anche la scuola deve guardare al futuro, coinvolgere gli studenti e appassionarli al mondo della tecnologia. La consapevolezza dei mutamenti ai quali ci stanno portando le nuove scoperte tecnologiche è fondamentale per farle diventare una risorsa.
Cristina Pozzi con la sua start-up Impactscool lavora proprio in direzione di questo cambiamento: “La tecnologia è neutra ed è una naturale estensione dell’essere umano, di per sé non è né buona né cattiva. È l’utilizzo che ne facciamo che determina come influirà sulle nostre vite e sul mondo che ci circonda, amplificando gli effetti delle nostre azioni. Da questa consapevolezza nasce IS, e dalla voglia di stimolare e educare le persone a riflettere in modo critico e consapevole sui possibili impatti che avranno le tecnologie sul nostro futuro. L’obiettivo è quello di formare cittadini consapevoli e di rendere accessibili a tutti gli strumenti per gestire il proprio futuro e indirizzarlo nella miglior direzione possibile”.
Le donne e il digitale
Un’altra opportunità da cogliere riguarda la sfida al femminile. Il divario rispetto all’universo maschile è ancora troppo grande. I motivi sono noti: poca formazione scolastica, stereotipi da abbattere, la diffidenza che trasmettiamo di figlia in figlia verso la “matematica”.
In America esiste l’Associazione Girls Who Code che cerca di coinvolgere le bambine sin da piccole nell’ambito tecnologico. In Italia lo sta facendo Mirta Michilli, direttrice generale della Fondazione Mondo Digitale e presidentessa dell’associazione Coding Girl, che piena di entusiasmo sulle pagine di Cosmopolitan consiglia: “Big Data analyst, Data scientist e IT specialist sono i tre lavori del futuro su cui dovresti puntare adesso. Si muovono tutti nell’ambito dell’analisi dei dati, un settore ad alta vocazione femminile: la capacità di pianificare e organizzare una grande mole di dati è molto apprezzata dalle aziende. Vuoi formarti in questo ambito? Molte università in Italia stanno attivando dei corsi di laurea specifici: alla Bicocca di Milano, all’università di Pisa e alla Sapienza di Roma sono già partiti dei corsi di laurea in Data Science. Proprio quest’anno si sono laureati i primi 4 studenti in Italia in questa materia: due sono ragazze, ma il numero è destinato a crescere. E tu potresti essere la prossima!”.
L’Unione Europea si è mossa in tal senso lanciando l’iniziativa Grand Coalition for Digital Jobs e eskills4jobs. Entrambe cercano di sensibilizzare e stimolare l’interesse dei giovani di entrambi i generi verso la tecnologia, e di orientare verso carriere tecnico-scientifiche e professioni digitali. Fra le aziende che le sostengono c’è la CA Technologies, che conferma: “Ad oggi CA Technologies ha raggiunto oltre 6.000 fra alunni degli istituti secondari e studenti universitari, tra cui oltre 2.000 ragazze”.
La rivoluzione coinvolge tutti i settori
Di rivoluzione ne sanno qualcosa i bibliotecari, che da anni hanno visto il loro lavoro cambiare fino a entrare tra le professioni digitali a tutti gli effetti.
Un tempo, non molto lontano, ce li immaginavamo immersi fra le carte e intenti a catalogare e archiviare tomi. Oggi si sono trasformati in metadata librarians, cioè coloro che raccolgono e ampliano le competenze del catalogatore; oppure in electronic resources librarians addetti allo sviluppo delle collezioni.
Tutte figure nate per far fronte ai nuovi bisogni, per gestire nuovi servizi e nuovi strumenti di recupero dell’informazione. Questa spinta però ha portato anche a degli ottimi risultati anche a livello nazionale, come la realizzazione di un progetto di digitalizzazione di un enorme patrimonio letterario, Mlol Plus.
Le reazioni alla rivoluzione
Le enormi possibilità all’orizzonte però allo stesso tempo fanno paura. Saremo davvero preparati al cambiamento? E le aziende come si stanno muovendo?
IL 30 maggio 2017 si è svolta la seconda edizione del Jobless Society Forum, organizzata dalla Fondazione Feltrinelli. Un evento il cui nome già ci racconta tanto, che si è interrogato su quali saranno gli scenari di sviluppo ed evoluzione del lavoro in ambito nazionale e internazionale, spinti dalla crescita esponenziale del digitale e delle nuove tecnologie. Il punto su cui si è focalizzato l’incontro ha riguardato le disuguaglianze sociali e salariali che scaturiranno dal divario di competenze.
Stefano Scarpetta, Direttore per Lavoro, Occupazione e Affari sociali dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) ha dichiarato in quell’occasione che “Il vero punto non è quanti lavori scompariranno e quanti ne verranno creati, ma proprio quanta diseguaglianza sarà prodotta dall’innovazione tecnologica. La rivoluzione digitale premia chi ha competenze più elevate, lasciando indietro chi ha competenze più basse. Si crea quindi una frattura tra chi può accedere ai nuovi lavori ad alta competenza, alti salari e alte prospettive di carriera e chi non avendo queste skill sarà relegato nei lavori a bassa qualifica. Il nostro punto di vista è questo: i robot non portano necessariamente a una disoccupazione tecnologica massiccia, ma a forti diseguaglianze”.
Le grandi questioni che hanno riguardato i tavoli di lavoro durante la giornata, hanno riguardato questioni specifiche dal grande impatto sociologico. Le tematiche principali che sono emerse è che occorre lavorare a un nuovo partenariato tra pubblico e privato, tra impresa e sistema scolastico, tra nativi digitali e professionalità basate su sistemi tradizionali. Un nuovo patto sociale dove la cittadinanza digitale sta a rappresentare un mondo basato su democratizzazione, accesso e partecipazione.
La politica, la scuola, il welfare le Istituzioni devono essere coinvolti in un’ottica di formazione continua, di scambio generazionale che favorisca l’entrata e l’uscita dal mondo del lavoro. La creatività va premiata, in un approccio flessibile e sperimentale, ma senza portare necessariamente a un aumento della precarietà. Anzi, come suggeriscono le tematiche di discussione del Forum: “si può rispondere con l’identificazione di tutele minime per chi lavora, a prescindere dalle categorie e dal contratto, e attraverso la fornitura di servizi per agganciare i lavoratori, stimolarne la partecipazione e favorire la formazione di nuove coalizioni”.
Il cambiamento digitale, insomma richiede una riflessione sui nuovi attori che influenzano la contemporaneità per includerli nei processi.
Gli studi sul futuro
In una recente intervista a Repubblica il futurologo Nick Bostrom, direttore del Future of Humanity Institute di Oxford, alla domanda se la “superintelligenza” sarà un’opportunità o un pericolo dichiara: “Potrà essere entrambe le cose. C’è l’enorme opportunità che ci aiuti a risolvere problemi che hanno afflitto la specie umana per millenni, dalle malattie alle crisi economiche. Ma ci sono anche dei rischi. Il principale è il controllo che potremo esercitare sulla superintelligenza. Quando sarà realizzata, come faremo a sapere che sia allineata ai valori umani? E se anche i tecnici saranno in grado di ‘programmare’ la AI in modo che sia rispettosa dei nostri valori, occorrerà una classe politica che indirizzi le decisioni in quella direzione e che non usi la superintelligenza come arma. Sono elementi che saranno decisivi nel fare la differenza tra uno scenario utopico e uno distopico”.
Abbandonando le previsioni di un futuro cupo e inquietante tipico dei romanzi di genere, è certo che il rapporto uomo-macchina sta diventando sempre più profondo e l’ambito lavorativo è del tutto coinvolto nel cambiamento. Un’altra ricerca, realizzata questa volta dall’Institute for the future (organizzazione statunitense indipendente e non profit) per conto di Dell Technologies, è il risultato di The next era of human-machine partnership, che ha coinvolto venti tra accademici ed esperti di tecnologia e impresa di tutto il mondo. L’obiettivo era capire in che maniera le nuove tecnologie trasformeranno le nostre vite e il modo in cui lavoreremo nel 2030.
“Siamo stati esposti a due prospettive estreme sulle macchine e sul futuro: l’ansia della disoccupazione causata dalla tecnologia e la visione ottimistica della tecnologia come cura per tutti i nostri problemi sociali e ambientali”, ha detto Rachel Maguire, direttrice della ricerca. “Invece dobbiamo concentrarci su ciò che potrà essere la nuova relazione tra tecnologia e persone e su come possiamo prepararci. Se ci impegniamo per fare in modo che abbia successo, il suo impatto sulla società arricchirà tutti noi».
Secondo lo studio, “l’85% dei lavori che si faranno nel 2030 non sono ancora stati inventati”. È quindi probabile che proprio oggi si stiano laureando giovani che svolgeranno mestieri destinati a scomparire a breve. Non occorre drammatizzare, anche perché non è certo la prima volta che questo accade. Basta pensare, per esempio, al mondo dell’editoria, dove alla comparsa del digitale è scomparso il ruolo del compositore tipografico, che è stato però sostituito dal grafico senza nessuna perdita di lavoro. Anzi, il ruolo è diventato più gratificante dal punto di vista creativo.
Quello che colpisce è che i tempi di questo cambiamento sono rapidissimi e la sensazione è che le aziende debbano rincorrerlo.
Il futuro in Italia
Di studi sul futuro si è di recente occupata anche l’Italia. In particolare l’Università di Trento, dove sono stati istituiti un master universitario, una cattedra sui “Sistemi anticipanti”, convegni e giornate di lavoro.
“Riuscire ad ‘anticipare’ attraverso l’analisi delle dinamiche umane (caratterizzata da continuità e cambiamento) le priorità sociali da qui ai prossimi 10/15 anni aiuta ad assumere oggi le decisioni strategiche più efficaci in un sistema sempre più complesso”, spiega Roberto Poli, titolare della cattedra UNESCO. “Il tema del futuro sta diventando comune in tutti i discorsi scientifici e politici, come nei dibattiti sull’attualità di problemi come crisi economica, sicurezza alimentare e cambiamento climatico. Le comunità confidano sempre meno nelle prospettive tradizionali di gestire i problemi perché si rendono conto che queste ci aiuteranno sempre meno nell’affrontare le sfide emergenti. L’impiego dell’anticipazione sta diventando dunque un riferimento sempre più necessario per la vita delle aziende, delle istituzioni, delle comunità e anche delle singole persone. La ricerca scientifica però non è al passo con la domanda della società”.
L’Università degli Studi di Firenze, da parte sua, ha appena pubblicato il bando per la seconda edizione di un master universitario di primo livello dal titolo “Futuro Vegetale” che ha il contributo della Fondazione CR Firenze: l’intento è di formare professionalità competenti in un nuovo territorio dove ricerca botanica, sociale e progettuale si incontrano.
Il mondo vegetale è parte integrante dei cambiamenti che coinvolgono la nostra società, come lo sono il cibo e l’alimentazione. Le aziende infatti non possono più permettersi di ragionare in un’ottica miope, quella che ha funzionato in passato, devono far fronte ai grandi problemi ambientali, di cambiamento climatico, e all’impoverirsi delle risorse, tutte tematiche che appassionano anche i singoli consumatori.
È il caso di citare la Barilla, che ha condotto uno studio su quello che mangeremo fra 30 anni. L’intento era quello di fornire un approccio realistico e positivo rivolto all’alimentazione “per poter infine costruire uno scenario plausibile e desiderabile che possa aiutarci a individuare un percorso capace di superare le contraddizioni riscontrate nei comportamenti e nelle dinamiche dei sistemi alimentari contemporanei. Definito il punto di approdo, il nostro è un esercizio relativo alla ricerca di una via e di un nuovo patto tra gli attori del sistema”.
In conclusione, il 2030 – che, come si è capito, rappresenta la data di un futuro abbastanza vicino per poter fare delle ipotesi di cambiamento – non ci deve trovare impreparati: dobbiamo proiettarci nel futuro orgogliosi del nostro passato, di tutti i patrimoni immateriali che fanno parte della nostra cultura (l’arte, la storia, il cibo) e che ci hanno sempre permesso di affrontare le nuove sfide in maniera propositiva. E, per quanto possibile, ottimistica.
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