Il lavoro chiama, l’informazione tv non risponde

Si sa che parlare di lavoro a fine anno, con dati più o meno confortanti, è d’obbligo. Aumentano i posti di lavoro, sì però non quelli della popolazione giovane. I voucher sono una risorsa, sì però alimentano il lavoro nero. Chiudono fabbriche, sì però ci sono start-up che hanno un grande successo. Non darò numeri. Ne […]

Si sa che parlare di lavoro a fine anno, con dati più o meno confortanti, è d’obbligo. Aumentano i posti di lavoro, sì però non quelli della popolazione giovane. I voucher sono una risorsa, sì però alimentano il lavoro nero. Chiudono fabbriche, sì però ci sono start-up che hanno un grande successo. Non darò numeri. Ne sono pieni blog, quotidiani, settimanali, radio e tv. Si possono facilmente cercare e confrontarli, se se ne ha voglia. Mi interessa di più come se ne discute, come se ne parla, come viene raccontato quello che è uno dei temi centrali per la vita delle persone e delle nazioni.

I ragazzi se ne vanno, non so se i più bravi o i più intraprendenti o i più superficiali, provocatori o curiosi. Si sa semplicemente che se ne vanno. Lasciano un Paese che bene o male ha investito per loro e su di loro. Poi c’è chi si augura che stiano pure dove sono andati. Non se ne fa granchè, il Paese, di questi ragazzi irriconoscenti. Chissà, mi chiedo talvolta, come sarebbe stata la loro vita professionale se fossero rimasti qui e avessero accettato, qui, regole e sacrifici che tanti di loro si son visti imporre dai Paesi ospitanti.

Di questi ragazzi e del tema del lavoro ne ha parlato il Presidente Mattarella nel discorso di fine anno. Uno degli argomenti clou. Lo sapevamo gia, prima delle 20,30 del 31 dicembre 2016, che sarebbe stato il perno del discorso, più o meno considerato breve, a seconda dei commentatori (si aggira attorno ai 17 minuti).  Lo avevano ripetutamente annunciato tutti i tg, i gr, le cronache pomeridiane, i quotidiani, i social. Non ci hanno lasciato alcuna sorpresa.

«Combattere la disoccupazione e, con essa, la povertà di tante famiglie è un obiettivo da perseguire con decisione. Questo è il primo orizzonte del bene comune». Con queste parole il Presidente richiama non solo il tema basilare per una nazione, cioè l’occupazione, ma lo collega prontamente e coerentemente a quello delle famiglie e dei giovani: a quelli che restano e a quelli che appunto se ne vanno. Chissà se nelle pieghe di quel discorso ci sia stato anche un messaggio di recupero (o una bacchettata) nei confronti delle parole di chi, nei giorni precedenti, si era espresso diversamente da lui. (Ma non sta a me entrare nelle strategie istituzionali, spero anzi che non me ne vorrà per questo commento). Occorre invece che il Paese e il Governo su questo tema investano davvero, a partire dall’informazione. Ed è proprio su questa che mi concentrerò.

Parto dalla regina della informazione, la tv. Secondo l’ Osservatorio News Italia è dalla tv che I’88% degli italiani riceve le notizie. Sembra strano come la bistrattata e criticata scatola – spesso seguita su tablet o smartphone – faccia ancora così tanto opinione. Eppure è così. Semmai possiamo dire che non è più sola, possiamo dire che interseca le sue notizie con commenti di altri media, di donne e uomini che stanno sulla rete e che, come non era mai successo prima dell’arrivo del web, dicono la loro, dal basso e senza filtri o appartenenze dichiarate. Ben si coniuga questa idea di una informazione crossmediale, ibrida e condivisa con quanto detto dal Presidente Mattarella sempre nel suo discorso di fine 2016: «Internet è stata, e continua a essere, una grande rivoluzione democratica, che va preservata e difesa da chi vorrebbe trasformarla in un ring permanente, dove verità e falsificazione finiscono per confondersi».

Parlare di lavoro significa tener conto dell’intreccio dei vari media, del ruolo della rete, in sintesi delle nuove modalità che usiamo per essere informati: sempre più trasversali, connesse e complesse. Il dibattito quindi è acceso.

Lo vediamo nei Talk di tutti i tipi: specialistici e di intrattenimento, serali e pomeridiani. Ogni contenitore si preoccupa di introdurre l’argomento, facile per l’attenzione che può attirare; difficile per le risposte che può dare. Certamente i Talk seguono le loro regole. Intercettano i gusti dei cittadini. Non sempre a dir la verità. Lo dimostra la discussione in questi giorni legata soprattutto alla programmazione Rai. Chiuso Politics, troppo veloce o troppo poco salottiero, arriva Carta bianca con Bianca Berlinguer che ha avuto uno share d’esordio niente male. Anche il ruolo e i tempi della pubblicità sono un argomento che l’Azienda Rai sta discutendo in questi giorni di dimissioni e conferme; senza dimenticare cosa ne pensano cittadini e televisioni commerciali che ritengono, a ragione o a torto, che la raccolta pubblicitaria dovrebbe essere maggiormente controllata o ridotta nella emittente di Stato.

Avrebbe successo un talk show sul lavoro?

Ci potrebbe essere, in questa continua modifica di programmazione, un Talk che si occupi specificamente di lavoro, occupazione, formazione? Chissà se intercetterebbe il plauso dei cittadini. In verità al momento il tema viene trattato trasversalmente. L’argomento è naturalmente fortemente politico, spesso partitico, anche per il modo in cui viene proposto. La visione che ci viene restituita è spesso connessa all’appartenenza politica di chi partecipa al dibattito. Voglio dire che talvolta si bypassano numeri e dati per dare spazio a ipotesi e talvolta a forti posizioni politiche. Ma il pubblico può intervenire. Ed ecco il cambiamento, dato dalla possibilità di commentare in diretta con più o meno competenza e conoscenza.

Una forma di democrazia guadagnata grazie al web e ai social network che hanno determinato un ritrovato grado di partecipazione. Siamo spettatori più attivi e più partecipi. Si fa un gran parlare, in queste ultime settimane, di regole o regoline, censure e democrazie legate all’attività di socialnetworking di tanti di noi che guardano e commentano l’informazione in tv. Le bufale non le hanno di certo inventate i social network. Tutte le organizzazioni di comunicazione e informazione possono confezionare narrazioni rendendole verosimili. Insomma credibili. Se la tv ha ancora il seguito che gli italiani le attribuiscono (ricordiamolo, ben l’88%), è ancora tanto credibile? Non ho numeri certi ma dalle mie ricerche emerge chiaramente che gli italiani non si fidano più allo stesso modo della televisione. Fanno factchecking, verificano e confrontano notizie e opinioni con quelle di altri: amici, opinion leader, follower. La narrazione perciò subisce una evoluzione che è forse più una rivoluzione. Lo spettatore contemporaneo costruisce in modo più indipendente la sua dieta mediale, la sua coperta fatta di pezzi (un patchwork) che vengono da web e mainstream, da persone qualunque e grandi commentatori, da coloro che la pensano allo steso modo e da quelli di posizione avverse. Mettono perciò in discussione la credibilità di una fonte unica. Non fanno eccezione per un tema tanto sensibile come quello del lavoro che non può essere reso solo credibile ma deve avere un contenuto di veridicità sostanziale. Concetti difficili e complicati che l’informazione dovrebbe fare propri.

In questi momenti di crisi, non solo economica, credo che l’informazione possa prendersi la sua rivincita. Rendendosi utile, offrendo un ventaglio di conoscenze comprensibili e decodificabili in grado da permettere, ai tanti che lo vorranno, di costruirsi una propria idea di ciò che accade intorno. Questa la risposta da dare alle tante provocazioni circolate in questi giorni. L’informazione dia le risposte. Può farlo, l’ha fatto e lo continuerà a fare con la consapevolezza che tanto di quello che sappiamo dipende proprio dalle organizzazioni informative. Occorre formazione, etica, conoscenza e competenza per comunicare tutti i temi che coinvolgono la nostra vita.

Il lavoro non fa, non può fare eccezione. Senza lavoro potremmo tornare all’Arcadia. Forse. Non ne vedo la ragione.

Tant’è!

 

(Photo credits: unsplash.com)

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