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Il primo maggio nasce da un’utopia che si realizzerà
Nel 1884 la American Federation of Labour, con appena 50.000 iscritti, dichiarò che a partire dal primo maggio 1886 la giornata lavorativa legale avrebbe dovuto essere di otto ore. Ci vorrà ancora qualche anno, e in alcuni casi qualche decennio, prima che il primo maggio diventi giornata di lotta della classe lavoratrice nel resto del […]
Nel 1884 la American Federation of Labour, con appena 50.000 iscritti, dichiarò che a partire dal primo maggio 1886 la giornata lavorativa legale avrebbe dovuto essere di otto ore. Ci vorrà ancora qualche anno, e in alcuni casi qualche decennio, prima che il primo maggio diventi giornata di lotta della classe lavoratrice nel resto del mondo, dove la rivendicazione per la riduzione della giornata lavorativa a parità di salario sarà completata da un’idea progressista quando non rivoluzionaria della società, con al centro il miglioramento generalizzato delle condizioni della classe lavoratrice. La giornata dei lavoratori e delle lavoratrici, se spogliata dai rituali e restituita alle sue origini, non è memoria in sé, ma uno sguardo sul futuro da costruire, presente che diventa storia.
Si dirà che era relativamente semplice scrivere la storia in un mondo che – agli occhi dei distratti – appare più piatto, più uniforme, dove i lavoratori erano alla fin fine tutti uguali e i capitalisti no, ma si sarebbero potuti distinguere facilmente dai primi; mentre oggi, si dice, il mondo del lavoro è talmente poliedrico e frammentato da inibire ogni prospettiva comune. Come se tale frammentazione fosse un risultato deterministico che rende differenti i singoli lavoratori, e non il risultato dei rapporti di forza interni alla società.
Come se non fossimo più, in fondo, in un sistema capitalistico basato su sfruttamento di molti e accumulazione di pochi. Troppo presto si è ceduto non soltanto all’ideologia dell’impresa e dell’imprenditore come unici soggetti in grado di creare crescita e benessere, ma anche a quella per cui la storia e la classe operaia fossero finite, sepolte per sempre dietro un muro tra le macerie del Novecento. Sappiamo invece che sempre più persone per vivere hanno bisogno di lavorare, che la produzione materiale esiste, che l’economia della conoscenza è solo un pezzo del nostro sistema economico e sociale.
L’esplodere della crisi ci ha restituito ancora una volta la confutazione di un’altra grande ideologia che ha permeato i decenni alle nostre spalle: quella della superiorità del mercato come meccanismo in grado di assicurare l’affermarsi di quella crescita e quella ricchezza che solo gli imprenditori, liberi dalle rigidità imposte per garantire condizioni dignitose ai lavoratori, possono generare. È questa la storia degli ultimi decenni, in cui le differenze formali tra lavoratori sono state anteposte ai loro comuni interessi.
I fallimenti della liberalizzazione del mercato del lavoro
Tra le fratture formali più evidenti del mondo del lavoro italiano vi è quella tra lavoratori dipendenti e autonomi, con le cinquanta sfumature di parasubordinazione in mezzo. Di per sé questo tratto non è specifico dell’Italia, ma attraversa molti Paesi occidentali e non solo.
La vera peculiarità italiana è la quota di lavoratori autonomi sul totale degli occupati, storicamente superiore agli altri Paesi europei. Una quota che dagli anni Ottanta vede una forte espansione, che nulla ha a che fare con l’affermarsi dell’economia della conoscenza, come si tenderà a dire persuasivamente più avanti. Dalla fine degli anni Settanta l’Italia vive la sua profonda ristrutturazione, caratterizzata dal decentramento produttivo e dalla pretesa padronale di gestire il ciclo economico attraverso la gestione flessibile della domanda di lavoro. I costi di produzione, oltre quelli legati ai contributi assistenziali e previdenziali fino a poco prima in capo all’azienda, si spostarono in capo al lavoratore, così come parte del rischio di impresa.
Un processo culminato alla fine degli anni Novanta con la quasi totale liberalizzazione del mercato del lavoro, supportata dalle retoriche di una nuova modernità inibita dal peso delle rigidità novecentesche. Una nuova psicologia di massa: l’affermazione sociale come imprenditore di se stesso, alle dipendenze di nessuno e artefice del proprio destino. Lo scambio tra libertà individuale (tutta da verificare) e sicurezza sociale (contributi, diritti sociali), dove l’effetto netto è risultato sempre più sfavorevole alla maggioranza dei lavoratori autonomi e parsubordinati. La libertà individuale rimane un miraggio, giacché la stragrande maggioranza dei lavoratori è inserita in un processo produttivo ben più complesso, che non controllano: scadenze e modalità di esecuzione saranno determinate dall’alto, dal committente, e tuttalpiù negoziate, ma pur sempre al ribasso; perché dietro un collaboratore c’è sempre uno stagista disposto ad accettare un prezzo più basso o orari di lavoro più lunghi. E nessuna sicurezza sociale.
Le utopie realizzabili che curano l’insicurezza sociale
Sarà proprio l’insicurezza sociale il cavallo di battaglia per esercitare un ricatto sempre più grande e spingere verso il basso le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori, con l’affermarsi del bipolarismo tra sottoccupazione strutturale e molteplicità di occupazioni svolte da uno stesso lavoratore. Inoltre, la vulnerabilità dettata dall’assenza di protezione sociale sarà caratteristica di segmenti ben precisi della forza lavoro: le donne e i giovani.
La crisi iniziata nel 2008 ha aggravato queste condizioni, dapprima con l’espulsione dall’occupazione di questi segmenti, facendoli in un secondo momento rientrare a condizioni sempre più svantaggiose. Tuttavia il secondo tempo non è stato giocato dalla crisi, ma dal suo governo, che ha mantenuto intatto il proprio paradigma di riferimento: adattare il mercato del lavoro alle esigenze del mercato. Non a caso a subire maggiormente gli effetti della crisi del coronavirus sono esattamente quegli stessi segmenti: giovani e donne, precari e autonomi. Sono milioni di famiglie a cui è negata libertà e sicurezza sociale. Senza alcuna differenza se non appunto quella di classe, che separa e continuerà a separare il basso dall’alto della società, fintanto che, come in quel lontano 1884, non sarà lanciato un nuovo assalto al cielo.
Le condizioni possono anche sembrare sfavorevoli, eppure si tratta di utopie realizzabili, come le chiamava Erik Olin Wright. Pretendere un salario dignitoso per tutti affinché nessun lavoratore sia povero indipendentemente dal tipo di contratto, dall’età, dal genere e dalla cittadinanza; estendere i diritti sociali a tutti i lavoratori; investire fortemente nei beni e servizi collettivi – la sanità, l’istruzione di ogni ordine e grado, le infrastrutture, il diritto alla casa, solo per citare i primi – sottraendoli al mercato, e garantirli in modo pubblico e universale. Fin da subito serve la messa a punto di un grande piano del lavoro pubblico e di gestione della produzione, democratica. Quella che evidentemente il mercato non è stato finora in grado di garantire, se non per consolidare i propri privilegi e le proprie rendite.
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