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Il rito della carta alla prova del digitale
L’informazione ha una sua ritualità. Chiunque abbia lavorato in una redazione lo sa. Dal rito consolidato e catartico dell’assemblea di redazione a quello, più problematico, della riunione ristretta con il direttore, fino a quello della chiusura, delle pagine e del giornale, si tratta di ritualità che sul fronte del lavoro servono. Servono a definire tempi […]
L’informazione ha una sua ritualità.
Chiunque abbia lavorato in una redazione lo sa. Dal rito consolidato e catartico dell’assemblea di redazione a quello, più problematico, della riunione ristretta con il direttore, fino a quello della chiusura, delle pagine e del giornale, si tratta di ritualità che sul fronte del lavoro servono. Servono a definire tempi e metodi di un processo che per definizione è privo di tempi e metodi o, meglio, li possiede ma spesso sono sconvolti dalla cronaca, dagli eventi o anche solo dal fuso orario.
Per anni il ritmo del lavoro giornalistico è stato scandito al tentativo di razionalizzare, anche ritualizzando, l’irrazionale del mondo. Incrociando tutto ciò con l’innovazione tecnologica che nell’editoria è stata sempre presente. Il telegrafo, il telefono, il telex, il fax (per testi e fotografie) sono stati alcuni degli strumenti utilizzati per la produzione dell’informazione che si sono susseguiti, mentre ai media s’aggiungevano altri media. La carta stampata mutava da quotidiana a periodica, mentre radio e televisione s’affiancavano alla carta senza che s’avverassero le facili profezie di catastrofi per i media più “anziani” cannibalizzati da quelli più “moderni”. Ed era un mondo, quello delle redazioni, fatto di professionalità intellettuali – i giornalisti -, affiancate a quelle più tecniche e talvolta artigianali – come grafici e linotipisti, con i fotografi in mezzo al guado – fatto anche questo di riti, basati sul rispetto reciproco.
Fino all’arrivo nel 1981 del computer su ogni scrivania che ha mutato nel giro di pochi anni la struttura del lavoro interno alle redazioni, mentre il “prodotto” rimaneva nella sua forma finale sempre lo stesso: un giornale su carta. Certo l’introduzione delle tecnologie informatiche, con il passaggio dalla composizione a caldo, da quella con il piombo fuso a quella a freddo, con il computer ha migliorato la qualità del giornale, ma sempre di giornale si tratta. Di una prima pagina e di pagine affiancate in sequenza dove un contenuto “tira l’altro”. «Ciò ha portato alla formazione di un’ “idea di prodotto” che si è consolidata nella realizzazione dello stesso. Ossia si lavorava (e in parte si lavora ancora, ndr.) avendo un’idea precisa e a senso unico di ciò che doveva essere il risultato finale, usando anche determinate categorie concettuali», ci dice Mario Tedeschini Lalli, giornalista che ha passato la propria carriera tra l’analogico e il digitale ed è stato tra i primi a lavorare, nel 1997, al sito di Repubblica.it, guidandolo per due anni.
Trasformazioni forzate
Ma le grandi testate, recentemente, hanno modificato il flusso delle riunioni e dell’organizzazione interna. «Repubblica.it, per esempio, da alcuni anni copre l’aggiornamento del sito h24, ma fino a un anno fa c’erano due squadre diverse che lavoravano sul cartaceo e su sito; ora la cosa è radicalmente cambiata e secondo me la proiezione digitale della testata non è più considerata un supplemento, ma è la prima forma nelle 24 ore con la quale la testata si presenta ai suoi lettori.
Nel primo appuntamento del mattino che si svolge alle 8, sono presenti, oltre ai giornalisti dell’edizione web, anche rappresentanti dei diversi settori (Esteri, Cronaca, ecc.) e un vicedirettore, perché questo appuntamento non riguarda solo più solo il sito, ma tutta la testata. Poi alle 11 si svolge anche la riunione “classica”». Oltre a ciò si registra anche una mutazione nella natura stessa della riunione di redazione. Un tempo si iniziava valutando l’edizione precedente uscita al mattino, poi si iniziava a ragionare sui fatti “prevedibili” immaginando e declinando ciò che si sarebbe realizzato il giorno dopo.
«Si tratta di uno schema che dovrebbe essere un pochino scardinato perché la pianificazione del lavoro giornalistico deve prescindere dalla forma del giornale. Si tratta d’immaginare dei criteri e dei parametri d’organizzazione del lavoro che si riferiscano agli eventi in sé. E quindi decidere in base a ciò quali sono i pubblici che si vuole raggiungere e quindi con quale mezzo li si vuole raggiungere. Questa è la grande libertà che il digitale offre, e bisogna tenere conto che nel digitale ci sono anche la carta e il video, per esempio».
Secondo Tedeschini Lalli, però, questo passo – ossia quello d’immaginare un giornalismo a prescindere dalla propria rappresentazione ma che agisce soltanto rispetto ai contenuti che si vogliono fornire, a chi li si vuole fornire e quando – è distante dall’essere intrapresa. «Su quest’aspetto che io chiamo l’integrazione dei cervelli, a prescindere dai flussi lavorativi, penso che in Italia siamo in ritardo, ma sia chiaro non è che all’estero stiano molto più avanti. C’è ancora molto da lavorare su questo piano», prosegue Tedeschini Lalli. «Si tratta di problema culturale profondo del giornalista, quello di immaginare il proprio prodotto in maniera più astratta a come si è stati abituati a fare finora». Su questo fronte anche le tecnologie che si utilizzano per lavorare influenzano la cultura del lavoro. Secondo Tedeschini Lalli avere due Cms (Content managment sistem) influenza la cultura del lavoro perché si parte dal front end.
Tutte le introduzioni tecnologiche del giornalismo passato, infatti, hanno ottimizzato e reso più efficienti i processi senza modificarlo nella logica – visto che il prodotto finale era sempre lo stesso – è ora è arrivato il momento di ribaltare questa logica. «Oggi il digitale diventa parte integrante del nostro mondo, non è più soltanto un mezzo per fare – meglio – ciò che abbiamo sempre fatto, ed è questa la differenza tra l’universo analogico e quello digitale. Sono gli items dei database che diventano i fattori abilitanti dei racconti e delle notizie, ci si deve scordare del front end e pensare all’architettura dell’informazione e poi elaborare gli strumenti in modo da poter fare ciò che si desidera. E perché sia possibile fare questo salto, è indispensabile che si lavori su un unico database, dove i dati sono strutturati per tutti gli utilizzi e non solo per uno». Si tratta di una cultura che può resistere anche nelle redazioni web.
La cultura dei titoli
«Il caso dei titoli è emblematico», prosegue Tedeschini Lalli «Per i giornalisti italiani il titolo su carta non deve “girare” da una riga all’altra, ogni riga deve reggersi da sola. Per intenderci in un titolo come “Il nuovo annuncio del Presidente del Consiglio” non si può dividere “Il nuovo annuncio del/Presidente del Consiglio”, il “del” deve essere sulla seconda riga e se non succede tutti i caporedattori saltano sulla sedia. È scolpita nella cultura dei giornalisti italiani ma non è una regola mondiale. È solo italiana. Nell’ambiente digitale ciò è privo di senso perché il contenuto nell’universo digitale è liquido e prescinde dalla forma. E si tratta di un problema serio. Quando lavoravamo al sito di Repubblica mandavamo a capo con il tag html <br> la riga, con il risultato che questo codice veniva visualizzato come se fosse testo quando si accedeva alla pagina via Rss. L’idea che il testo con il digitale possa girare come pare a lui per i giornalisti italiani, fino a poco tempo fa è stata una specie di bestemmia». Non è una cosa da poco se si pensa alla possibilità di avere, in automatico, dei prodotti derivati. La necessità di avere un codice “pulito” e utilizzabile senza interventi umani è sempre più sentita, anche per sviluppare nuovi modelli di business che diano ulteriori possibilità di introiti alle realtà editoriali.
E al rito interno della fattura del giornale inteso come prodotto statico e precostituito anche a livello della cultura giornalistica, in un prossimo futuro si potrebbe sostituire quello della “cura” dei lettori, come succede a De Correspondent in Olanda dove al giornalista, oltre che a specializzarsi su un determinato argomento, viene chiesto anche d’occuparsi della comunità dei lettori che sono interessati a quell’argomento. Una logica che non è solo giornalistica, ma anche di business e tecnologica. I lettori, infatti, sono la ricchezza del giornale visto che sono abbonati paganti e non ci sono pubblicità sulle pagine di De Correspondent, mentre su fronte tecnologico il giornale ha realizzato, fin dalla sua uscita un Cms proprietario che facilita l’interazione tra i giornalisti e i lettori. Un nuovo rito. O meglio una nuova frontiera che sarà complicato superare vista la logica che ha pervaso i giornalisti fino a oggi, ossia quella di considerare il proprio lavoro monodirezionale. Cosa reale quando parliamo di carta, radio e televisione, ma che non vale per e con il digitale.
L’autore ringrazia:
Mario Tedeschini Lalli per la disponibilità
Virginia Fiume per l’informazione su De Correspondent
La comunità di Wolf da cui ho appreso parecchi spunti
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