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Il tuo capo: se lo conosci lo eviti
I miei collaboratori mi evitano. Sono molto gentili e cordiali, ma io me ne accorgo: mi evitano. Non nel senso che non mi salutano o che cambiano strada quando mi vedono, no: mi evitano sul lavoro. Mi evitano mentre stanno lavorando. Eppure io sono il loro capo, dovrebbero fare riferimento a me, seguire le mie […]
I miei collaboratori mi evitano. Sono molto gentili e cordiali, ma io me ne accorgo: mi evitano. Non nel senso che non mi salutano o che cambiano strada quando mi vedono, no: mi evitano sul lavoro. Mi evitano mentre stanno lavorando. Eppure io sono il loro capo, dovrebbero fare riferimento a me, seguire le mie direttive, chiedermi aiuto, ma mi evitano. Io non penso di essere un cattivo capo, non sono come il mio vecchio capo. Lui non ha mai delegato. Era asfissiante, voleva essere informato di tutto e su tutto, controllava le mie mail, le mie telefonate, la mia scrivania. Io no. Io ho imparato che bisogna delegare se vuoi motivare i tuoi collaboratori, ho imparato anche la differenza che c’è tra delega per compiti e delega per obiettivi. La prima è quella che fai quando hai dei collaboratori ancora acerbi, che ancora non sono ben entrati nel ruolo e che hanno bisogno di essere seguiti passo passo, sinché non imparano; la seconda, la delega per obiettivi, la eserciti quando hai collaboratori che già sono in grado di gestire responsabilmente tutte le fasi del processo loro assegnato e rendono conto solo del raggiungimento degli obiettivi, non del “come” li hanno raggiunti. Io dei miei collaboratori mi fido, anche se sono giovani. E fidandomi, delego loro dei progetti, mica dei compiti.
Ma ogni volta che assegno loro un progetto nuovo, già in quella stessa riunione, cominciano a scambiarsi degli sguardi, che… non so. Fissato l’obiettivo, diventano immediatamente dei carbonari, si incontrano negli orari più impensati, fissano riunioni quando io certamente sono fuori sede, parlano del progetto durante la pausa caffè, nei corridoi, secondo me si incontrano la sera a casa di qualcuno per poter parlare lontano da me. Sembra quasi che portino avanti il progetto non per me, ma nonostante me. Certo, non mancano mai alle riunioni di avanzamento lavori, ci mancherebbe, ma mi comunicano le decisioni che hanno già preso, le cose che hanno già fatto. Io ne posso solo prendere atto. Anzi, certe volte mi sembra che fissino apposta le riunioni poco prima della consegna, in modo che non ci sia neanche tempo per eventuali modifiche.
Eppure io sono il loro capo, e lo sono diventato, due anni fa, perché sono il migliore nel loro mestiere, ho esperienza, competenza. Lo vedo ad occhio nudo quando prendono una strada sbagliata, che li costringerà ad allungare i tempi, a tornare indietro ed imboccare finalmente la strada giusta. E glielo dico, subito. Anzi glielo faccio proprio vedere. E quando la scadenza è vicina, cioè quasi sempre, mi rimbocco le maniche e lo faccio io, così non perdiamo tempo. Non sono uno di quei capi sempre assenti, sempre in giro a “pensare a cose strategiche”, che si è scordato di come si lavora. Io mi tengo aggiornato e se serve io, torno immediatamente operativo, sul pezzo. E lo faccio anche se questo mi costringe a fare tardi, a fermarmi in ufficio ben oltre l’ora in cui loro sono andati via. Ma il lavoro va fatto e va fatto bene.
E loro mi evitano.
L’altro giorno ho preso da parte uno di loro, uno di quelli di cui mi fido di più, il più bravo ma è anche quello che mi evita di più e gli ho chiesto, diretto franco, “perché mi eviti?” Lui ha fatto la faccia di quello che cade dalle nuvole, io ho insistito, ho insistito ancora e alla fine, con lo sguardo basso e rosso come un peperone mi ha detto, che non sono loro ad evitarmi, sono io soffocante.
Come “soffocante”? Ma lo sanno loro cosa vuol dire avere un capo soffocante?!? Io avevo un capo soffocante, non loro! Mi ha rinfacciato di aiutarli, di dare loro una mano quando avevano bisogno, di impedire loro di fare degli sbagli, di agire senza aspettare che siano sommersi dalla… Vabbé.
Gli ho urlato che erano degli ingrati, che non sapevano apprezzare il valore di un capo come me. Ho detto che non sarei mai più intervenuto, che se non sapevano cosa farsene di uno con la mia esperienza, li avrei accontentati, li avrei lasciati cuocere nel loro brodo.
Lui mi ha guardato, mi ha messo le sue mani sulle mie spalle, ha stretto forte come entrambe. Per un lungo attimo è stato in silenzio, poi, con uno sguardo commosso ha tirato un sospiro e con voce bassa ha detto “grazie”. E se ne è andato.
E adesso io che faccio?
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