L’Italia troppo protetta dallo Stato non sa esportare

Perché l’economia italiana ha mostrato forti ritardi nei processi di internazionalizzazione e, soprattutto, perché quando ha varcato i confini nazionali ha utilizzato in modo massiccio la delocalizzazione della produzione? L’economista Francesco Giavazzi, in un’intervista che abbiamo pubblicato su SenzaFiltro, sosteneva che una risposta a quei quesiti è la scarsa competitività di cui ha sofferto per […]

Perché l’economia italiana ha mostrato forti ritardi nei processi di internazionalizzazione e, soprattutto, perché quando ha varcato i confini nazionali ha utilizzato in modo massiccio la delocalizzazione della produzione? L’economista Francesco Giavazzi, in un’intervista che abbiamo pubblicato su SenzaFiltro, sosteneva che una risposta a quei quesiti è la scarsa competitività di cui ha sofferto per anni il sistema Italia. In parte è così ma credo che per comprendere a fondo le debolezze del sistema Italia a proposito di internazionalizzazione e globalizzazione, sia necessario aprire una riflessione sulla natura e sulla struttura del capitalismo italiano.
Per decenni il capitalismo italiano si è basato su una struttura familiare, protetta dallo Stato e dal sistema bancario, che faceva capo a Mediobanca. Poche famiglie che controllavano la grande industria e la Borsa, che venivano finanziate a medio termine da quel sistema bancario fondato da Enrico Cuccia e che riuscivano attraverso la protezione dello Stato a privatizzare i profitti e socializzare le perdite. Una struttura di questo tipo era naturalmente poco avvezza a internazionalizzare: i grandi gruppi industriali, soprattutto, godevano nel paese di una sorta di oligopolio che gli consentiva di dominare il mercato interno senza doversi esporre sui mercati internazionali. E anche quando i grandi gruppi industriali mettevano il naso fuori dai confini italiani venivano protetti da una politica di svalutazione della lira che li rendeva più competitivi ma soltanto per brevi periodi.

I casi della Fiat, del sistema bancario italiano e di Alitalia sono emblematici a questo proposito. Per anni il colosso torinese è stato monopolista in casa propria ed è stato coccolato dallo Stato Italiano attraverso gli ammortizzatori sociali e una legislazione che proteggeva la Fiat dalla concorrenza internazionale. Per decenni il sistema bancario italiano ha guardato con diffidenza ai processi di internazionalizzazione, visto che era protetto dal sistema Mediobanca. I competitor internazionali sanno bene quanto era difficile fino agli anni 2000 per una banca straniera entrare in Italia e partecipare ad esempio al collocamento di un’azienda italiana. Viceversa quando alla fine degli anni ‘90 il gruppo Unicredit decide di muoversi oltre i confini nazionali e conquistare la maggioranza del gruppo bancario tedesco Hvb, la notizia fa molto clamore perché è la prima volta che una banca italiana si lancia nell’internazionalizzazione dei suoi assets. Non ultimo per importanza il caso Alitalia che, essendo controllata per decenni dallo Stato, godeva di un monopolio puro a danno dei cittadini che viaggiavano a prezzi stratosferici.

Questo sistema chiuso non valeva tuttavia per la piccola e media impresa che si doveva confrontare invece con la competizione internazionale senza poter godere della protezione dello Stato e del sistema bancario sia in termini legislativi, sia in termini finanziari come avveniva per i grandi gruppi industriali. La media impresa italiana, compreso il made in Italy, è riuscita, e questo gli va riconosciuto, a imporsi sui mercati internazionali nelle fasi espansive dell’economia italiana senza aiuti dallo Stato, ma poi quando negli anni ‘90 è iniziata la lunga e interminabile fase recessiva, coincidente con la globalizzazione dei mercati, le medie imprese italiane per riuscire a sopravvivere alla concorrenza internazionale, hanno scelto la scorciatoia della delocalizzazione della produzione e della manodopera. Un’operazione che alla lunga ha impoverito il paese.
Infine c’è un altro tipo di internazionalizzazione piuttosto anomala che riguarda l’Italia: quella che passa per la cessione di grandi aziende a gruppi stranieri. Un fenomeno sul quale varrebbe la pena riflettere. I numeri parlano da soli: dal 2008 al 2012 sono 437 le aziende italiane passate in mani straniere si legge nel Rapporto “ Outlet Italia. Cronaca di un Paese in (s)vendita” di Eurispes. Alcuni gioielli di famiglia che di recente sono stati ceduti a gruppi stranieri sono, tanto per fare un esempio, Indesit che faceva parte del gruppo Merloni, venduto agli americani e il colosso Italcementi, ceduta ai tedeschi di Heidelberg, che faceva parte del gruppo Pesenti. Ma se si guarda al settore agroalimentare decine di gioielli come Riso Flora, Bertolli, Invernizzi, Negroni, Simmenthal, Perugina ed altri marchi importanti sono stati ceduti a multinazionali straniere come Unilever, Kraft Foods, Nestlè.

“Certo – si legge nel rapporto – i gruppi stranieri hanno speso circa 55 miliardi di euro per portare a casa i famosi marchi italiani, ma sono soldi che sono andati a finire nelle casse delle vecchie proprietà, non portando valore aggiunto al Paese”.

E, in ogni caso, il gioco non vale la candela.

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