La meritocrazia e le parti uguali tra diseguali

Un’università qualsiasi, una sessione d’esame qualsiasi. Diritto tributario, diciamo. Due studenti sostengono il colloquio: uno risponde con sicurezza alla domanda che gli viene posta, l’altro invece dice poco o niente, scuote la testa, abbassa lo sguardo. Il professore che interroga può giudicare facilmente: uno conosce il diritto tributario, l’altro no. Uno merita di essere promosso, […]

Un’università qualsiasi, una sessione d’esame qualsiasi. Diritto tributario, diciamo.
Due studenti sostengono il colloquio: uno risponde con sicurezza alla domanda che gli viene posta, l’altro invece dice poco o niente, scuote la testa, abbassa lo sguardo. Il professore che interroga può giudicare facilmente: uno conosce il diritto tributario, l’altro no. Uno merita di essere promosso, l’altro di essere rimandato; il preparato avanti, l’impreparato indietro. Si chiama meritocrazia: inequivocabile, univoca, equa. Ma è proprio così?

Innanzitutto, nei principali contesti di valutazione, il concetto di merito viene spesso equivocato, perché viene ristretto al solo momento della performance. Giudicare qualcuno per una prova particolare (come un esame) non significa in alcun modo valutare il suo merito rispetto alla complessità di una disciplina o l’attitudine generale del soggetto verso di essa: significa soltanto valutare come ha svolto la prova in sé.
Allo stesso modo, il criterio dell’esame non è affatto uno strumento meritocratico, se non a prezzo di una quasi sempre impropria generalizzazione: si può sapere (o sapere fare) molto bene o molto male una singola cosa per un complesso di ragioni casuali, che non coincidono affatto con la conoscenza globale di un argomento. Insomma, si può azzeccare una domanda su di un tema che ci è molto familiare, così come incappare nella nostra bestia nera – tutti ne hanno una.

Basta porre tre o quattro domande sui fondamenti di una disciplina a un riconosciuto luminare della stessa, per accorgersi della fallibilità del luminare e della scarsa validità del nostro test. Ma anche interrogare un politico sulle leggi dello stato è un buon esercizio, in tal senso; e non necessariamente un cattivo politico.
Quindi il merito deve essere valutato con accuratezza, altrimenti la meritocrazia si riduce a giacobinismo. Che è un’altra cosa.
Poi, il concetto di meritocrazia non è affatto univoco. A che cosa corrisponde il merito? Diciamo che ci sono almeno due risposte perfettamente accettabili.
Risposta 1: Il merito di una persona, di un professionista, di uno studente, di un politico, è il complesso di abilità e conoscenze in relazione al suo ruolo.
Risposta 2: Il merito di una persona corrisponde all’impegno speso per accumulare tali abilità indipendentemente dal livello di competenza fino a quel punto raggiunto.
Parafrasandole: quanto sei bravo (nel primo caso), o quanto sei stato disposto a impegnarti per diventarlo (nel secondo).

Sicuramente in molti sono pronti ad abbracciare la prima definizione, e senza esitazioni. Perché tale visione pare rispondere direttamente al buon senso: sapere molto in un campo sembra infatti essere garanzia di un maggior rendimento. A pensarci meglio, invece, un occhio che valuta solo nel presente e solo l’immediata e tangibile capacità produttiva di un soggetto è un occhio miope; perché non tiene conto di una dinamica di evoluzione e cambiamento di cui la seconda risposta è invece espressione.
Chi ha saputo impegnarsi per raggiungere un risultato molto lontano dal suo punto di partenza, sarà motivato a migliorare e, probabilmente, anche a impegnarsi in altri contesti. Risposta 2, quindi. L’accendiamo? No, perché alla resa dei conti nessuno vorrebbe versare la parcella a un mediocre professionista, per ripagarlo, certo, della sua buona volontà.

Dalla prima definizione sistematica di Meritocracy (nel 1958, del sociologo inglese Michael Young – che ne scrisse però con intento satirico) in poi, si parla di una formula (I+E=M) che definisce il merito come la somma di un potenziale (Intelligence) e di un impegno (Effort). Come a dire che né la produttività né lo sforzo per raggiungerla, singolarmente, coincidono mai con il merito di una persona; ma solo la complessa somma di questi due fattori. E di tale complessità bisogna tenere conto per non rischiare di perdere risorse (magari, chi lo sa, quelle più preziose).

 Il concetto di meritocrazia, infine, può essere talvolta persino iniquo: tutte le volte in cui è strumentalizzato, e tutte le volte in cui è semplificatorio. Per esempio quando viene impiegato come sinonimo di misurazione oggettiva, sulla base di un assunto fallace, ovverosia che il merito (o il demerito) sia una categoria data una volta per tutte e indipendente dai soggetti ai quali viene attribuito.

In proposito, chiunque sia chiamato a valutare il merito di un soggetto dovrebbe tenere a mente un famoso passo di Don Lorenzo Milani (il contesto del suo Lettera a una professoressa, come si sa, è la feroce critica alla bocciatura dei ragazzi nella scuola dell’obbligo):

“La [professoressa] più accanita protestava che non aveva mai cercato e mai avuto notizie sulle famiglie dei ragazzi: «Se un compito è da quattro io gli do quattro». E non capiva, poveretta, che era proprio di questo che era accusata. Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali”.

Una vera meritocrazia non fa parti uguali tra disuguali; altrimenti, come è stato rilevato da qualcuno, essa diventa solo lo strumento di autocelebrazione e conferma dei più potenti a discapito dei più deboli.
In conclusione, se il mito della meritocrazia come immediata panacea di giustizia e oggettività è quasi sempre un falso mito, è tuttavia vero che un modello di reale valutazione (e valorizzazione) di una persona in base al suo merito è sempre auspicabile. Basti pensare all’ennesimo giovane ricercatore respinto dalle logiche clientelari italiane che negli Stati Uniti viene invece apprezzato e messo nelle migliori condizioni per fare scoperte straordinarie. E con lui gli altri mille professionisti che cercano e trovano altrove, finalmente, un po’ di riconoscimento in sistemi, appunto, più meritocratici.

Ma tali sistemi sono davvero meritocratici solo perché (e solo se) in essi la valutazione del merito non prescinde da una complessità di giudizio sul valore di un soggetto, dall’accurata verifica della validità dei criteri del giudizio stesso e soprattutto dalla meticolosa ricognizione dei contesti di valutazione.
La meritocrazia è invece illusoria ogni volta che coincide con il semplicistico egualitarismo dei “tutti a casa”, cessando di esprimere una reale e proficua attenzione verso il soggetto e tutte le sue potenzialità.

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