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La politica italiana non rema verso il Made in Italy
Expo 2015 è iniziata e sono certo che avrà la sua utilità per chi vorrà vederla. Ma questo non toglie che si debba tacere sul paradosso più grande di tutti questi mesi: proprio nell’anno di Expo in Italia, proprio nel momento in cui tutti gridano alla difesa del made in Italy, proprio ora che si […]
Expo 2015 è iniziata e sono certo che avrà la sua utilità per chi vorrà vederla.
Ma questo non toglie che si debba tacere sul paradosso più grande di tutti questi mesi: proprio nell’anno di Expo in Italia, proprio nel momento in cui tutti gridano alla difesa del made in Italy, proprio ora che si grida ai 60 miliardi di euro che l’italian sounding porta via al business, il nostro Governo non ha opposto resistenza all’entrata in vigore, lo scorso dicembre, delle nuove regole siglate UE riguardanti le etichettature degli alimenti. Parlo del Regolamento UE 1169/2011,noto anche come Regolamento FIAC (Fornitura di Informazioni sugli Alimenti ai Consumatori) e che nei suoi scopi aveva proprio quello di alzare il livello di guardia per tutelare le esigenze e le preferenze dei consumatori ormai sempre più vigili, giustamente vigili. Dove sta allora il problema? Il problema è che se da un lato la UE ha ristretto i paletti alla tracciabilità delle materie prime, di fatto ha allargato a dismisura le maglie sulla garanzia di provenienza del prodotto. Il Regolamento UE ha fatto scomparire dalle etichette le indicazioni relative allo stabilimento di produzione e questo vuol dire che a meno di un nuovo intervento normativo, non sarà più obbligatorio indicare se il prodotto acquistato è stato prodotto e/o confezionato nello stabilimento italiano o estero di un’azienda.
Questo Regolamento è entrato a gamba tesa abrogando così la legge italiana del 1992 (D.Lgs 109/92) che invece ne prevedeva l’obbligo e che tutto sommato era una buona legge. Il Governo italiano è rimasto al palo davanti alla UE e ad oggi continua a non reagire.
In passato, di fronte a regole UE che non tutelavano il Made in Italy, il nostro Governo aveva inviato a Bruxelles una lettera di contestazione con cui ribadiva il proprio dissenso, stavolta niente. Non mi sono voluto tiare indietro e, tempo fa, io e molti altri – fra cui il sito “ioleggoletichetta -” abbiamo sollecitato il Governo, in particolare il Ministro Martina, affinché intervenisse con la UE. Il 28 dicembre scorso, sentendosi pressato da più fronti, lo stesso Martina ha twittato – a me e al sito – per informarci che stava trasferendo il tutto dal Mipaaf al Mise. Il ministro Guidi, al Mise appunto, ma per ora è tutto bloccato.
C’è comunque molta confusione in giro e una specifica va fatta: la contraffazione è una cosa, l’italian sounding è un’altra. Alla prima ci pensano gli organi preposti a controllare e sanzionare, il secondo invece non è un mostro ma semplicemente un termometro che misura le pulsazioni del Made in Italy. Se esistesse un Mario Rossi che vive in America e produce pasta a Brooklyn col marchio Mario Rossi specificando che è prodotta negli Usa, che facciamo gli togliamo il marchio? Certo che no. Del resto anche noi chiamiamo Jeans i Jeans. Il rischio, invece, è che ci sia un Mario Rossi in Italia che usa lo stesso marchio ma che produce all’estero: non essendoci più l’obbligo di indicare la sede dello stabilimento di produzione, è sufficiente che scriva solo la sede legale della distribuzione. Questo è il paradosso: in un esempio come questo, al consumatore medio arriverebbe l’idea che l’inganno sia ad opera dell’americano mentre ad essere in mala fede è soltanto l’italiano o chi domani comprasse un marchio italiano, e lo volesse produrre dove volesse.
Sono sempre di più e ormai troppi i produttori italiani che fingono di tutelare il Made in Italy.
Il “dove” dei nostri prodotti è più importante di quanto si pensi in un’ottica di tutela del prodotto.
Io non ho mai rilocalizzato perché non ho mai delocalizzato eppure avendo uno stabilimento in Portogallo avrei potuto approfittarne: il mio è un prodotto di origine portoghese che non ha un nome italiano ma che io ho deciso di fare in Italia. Gli imprenditori devono capire che occorre offrire lavoro nei paesi in cui vendono i propri prodotti: non possiamo solo lamentarci di Coca Cola – che ha stabilimenti nei Paesi in cui vende – e non fare nulla per dare vita ad una politica di impresa che viva davvero nei territori italiani e che crei un equilibrio autentico con i consumatori creando posti di lavoro. Da questa crisi usciamo solo con l’atteggiamento dei consumatori che, consapevoli di comprare italiano, rimettono in moto il mercato e ne sono parte attiva.
Queste nuove regole sono un vero boomerang nell’anno di Expo ed è proprio Expo, per ora, a non avere il coraggio di parlarne.
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