Il manager come il medico di famiglia: le malattie lavoro correlate colpiscono più lavoratori di quanti si pensi. Si rischia anche la morte. Come agire?
L’amara macchietta del commendator Zampetti: “Non vedo l’ora che sia lunedì”
See you later, ci vediamo più tardi. La frase dell’indimenticato commendator Camillo Zampetti – commerciante di salumi nei cinepanettoni anni Ottanta – campeggia nel cimitero di Zelata di Bereguardo, nel Pavese. È l’omaggio collettivo e postumo a un personaggio simbolo, interpretato da Guido “Dogui” Nicheli, il lombardo “sbruffone” che ha inglesizzato la cadenza meneghina per […]
See you later, ci vediamo più tardi. La frase dell’indimenticato commendator Camillo Zampetti – commerciante di salumi nei cinepanettoni anni Ottanta – campeggia nel cimitero di Zelata di Bereguardo, nel Pavese. È l’omaggio collettivo e postumo a un personaggio simbolo, interpretato da Guido “Dogui” Nicheli, il lombardo “sbruffone” che ha inglesizzato la cadenza meneghina per farne una macchietta. La battuta incisa sulla lapide è il segno di come l’immaginazione sia diventata realtà, se chi poserà un fiore a ricordo di Nicheli ne rivedrà le movenze, scandite dall’ostentazione di non fermare la macchina produttiva: “Lavoro, guadagno, pago, pretendo!”, per citare un’altra frase simbolo.
L’ansia del fine settimana: “Non vedo l’ora che sia lunedì”
Così, se la macchietta attinge alla realtà e ne riscrive i destini, di un attore come Nicheli o dell’immaginario collettivo sulla paventata “velocità lombarda”, allora è necessario muoversi fuori e dentro il recinto dell’opinione comune sul “motore d’Italia”. Fuori c’è la pressione collettiva a “correre, produrre”, riassunta dal “lavoro-pago-pretendo”. Dentro c’è una dipendenza che diventa “ansia del fine settimana”, la necessità di riprendere a lavorare il lunedì per “superare il vuoto e sentirsi vivi”.
Il quadro lo fornisce un esperto di dipendenze, Salvatore Bonfiglio, docente di Psicologia generale all’Università di Pavia: “La Lombardia – spiega – ospita molte persone in cerca di lavoro. Chi per bisogno e necessità, chi per maggiori opportunità e per migliorare e crescere. È facile che laddove la cultura del lavoro è preponderante, ci sia terreno più fertile per forme di dipendenza proprio da lavoro”.
Alcuni numeri: “Uno su dieci soffre di workaholism”
La “dipendenza” in questo caso ha un nome chiaro: workaholism, ovvero la “compulsione a lavorare per superare una situazione di ansia”. È in sostanza il frutto del contesto che vede la persona produttiva come meritevole, ma che diventa malattia se i giorni di riposo dal lavoro diventano rumore di fondo aspettando il lunedì.
Ci si muove, comunque, in un ambito ancora poco definito dalla casistica, ma alcuni dati a disposizione – non definitivi ma indicativi, secondo uno studio del 2011 – fanno riflettere: circa una persona su dieci in Europa soffrirebbe di dipendenza da lavoro; in Giappone – caso estremo – si arriva al 20% della popolazione. Il 10% è la stessa percentuale degli alcolisti, poco meno dei fumatori dipendenti da nicotina. Numeri oltre ogni aspettativa.
Work addiction: dipendenza chiama dipendenza
Nell’attesa di un quadro più chiaro sulla work addiction, alcuni punti fermi: si tratta di una dipendenza, come il gioco d’azzardo o l’alcol. E quindi dipendenza chiama dipendenza, sostanze e farmaci compresi: “Chi ha una dipendenza da lavoro presenta disturbi del sonno, e l’uso di farmaci come le benzodiazepine (nell’immaginario collettivo i tranquillanti, N.d.R.), agiscono come cura di tali disturbi”, chiarisce Bonfiglio. Secondo lo studio citato precedentemente chi soffre di workaholism ha il 20 % di rischio in più di sviluppare altre dipendenze: sessuali, affettive, da sostanze.
L’insostenibilità dei “drogati di lavoro”: “Tanta fatica, poca resa”
Nella “quantità del lavoro” come necessità vitale, più che esigenza economica, il prezzo da pagare è la “qualità” del lavoro, con conseguenze pesanti per la persona colpita, l’ambiente di lavoro e la sicurezza a esso legata.
Il primo mito da sfatare riguarda la produttività: “Non è detto che i workaholics rendano di più”, mette in chiaro lo psicologo. Anzi: “Per queste persone lavorare tanto diventa un bisogno, come respirare e mangiare. Così si riduce la prestazione lavorativa, perché si lavora per lavorare, per colmare un bisogno emotivo, e non per una crescita professionale”.
Quindi, la qualità del lavoro: “Chi è soddisfatto del proprio ambiente occupazionale e di quello che fa ha sicuramente una risorsa in più per non cadere nella dipendenza da lavoro. È necessario, però, stare attenti a non portarsi ‘i compiti a casa‘, perché anche questa tendenza può nascondere un problema”. Il passo finale è la sicurezza: meglio si lavora, meno rischio c’è. Nella regione delle 53 morti bianche del 2018, il riferimento è ai fattori di rischio, a partire dallo “stress correlato”, come formalizzato dal decreto legislativo 81 del 2008.
“Se non dormi e pensi sempre al lavoro, forse hai un problema”
La possibile strada verso una guarigione passa innanzitutto dalla consapevolezza: “Una persona affetta da dipendenza da lavoro – puntualizza il docente – difficilmente riconoscerà di avere questo problema. Però gli sarà più semplice riconoscere di avere difficoltà a dormire o altri problemi di salute”.
Dalla consapevolezza personale a quella collettiva, il passo successivo consiste nel “considerare la qualità delle relazioni fra colleghi, delle pause nel lavoro, della creazione di uno spirito di gruppo. Non sempre i lavoratori si organizzano autonomamente in questo senso. Sta al datore di lavoro promuovere spazi e momenti di scambio e condivisione”. Più a lungo raggio la strada prevede una terapia integrata, fondata sulla psicoterapia, e sui gruppi di autoaiuto.
La chiosa di Bonfiglio è chiara: “La dipendenza da lavoro dovrebbe avere un riconoscimento maggiore, essendo così profondamente intrecciata con la cultura occidentale e con una società prestazionale, anche per l’importanza che assume il lavoro come status sociale. Per questi e altri motivi andrebbe trattata e affrontata non solo come una dipendenza psicologica ma anche e soprattutto come un problema sociale”.
È, tornando a Zampetti, la presa di coscienza del singolo e dei tanti, oltre il confine tra macchietta e realtà, oltre l’ennesima, fulminea, battuta: “Il mio non è un punto di vista, è un teorema! Chiaro?”
Foto di copertina by Instagram, Spaghetti Comedy
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