Tito Boeri: “Tra i buchi italiani c’è l’operato dei dirigenti pubblici: non viene esposto al giudizio dei cittadini”

La lucida rilettura della pubblica amministrazione dalle parole di Tito Boeri: è urgente lavorare sulle competenze, tentare innesti dal settore privato, insistere sulla terzietà.

Riprendiamoci lo Stato è un libro di cui c’era bisogno.

Ho ascoltato Tito Boeri (coautore con Sergio Rizzo, Feltrinelli, 2020) al festival culturale Moby Dick che ogni anno porta aria fresca di pensiero in provincia di Arezzo, nel Valdarno, a Terranuova Bracciolini.

Avrei voluto sbobinare subito gli interventi, poi mi sono detta che avrei fatto bene a leggere prima il libro. Avrei voluto leggere subito il loro libro, e l’ho fatto un mese dopo. Per arrivare a capire che digerire la nostra storia politica è un gesto lungo.

Politica, burocrazia e tecnostruttura da una parte, cittadini dall’altra: un rapporto impari che testimonia il retaggio storico di un elefante pubblico di cui guardiamo troppo spesso il peso e meno il carattere. 

Più o meno ciclicamente escono dossier e report sui dati che affliggono la vita delle imprese italiane nel rincorrere la macchina burocratica: secondo l’Ufficio Studi CGIA Mestre il cattivo funzionamento del nostro settore pubblico grava sul sistema produttivo italiano per quasi 100 miliardi di euro all’anno, dati dalla somma tra i 57,2 miliardi di mala-burocrazia e i 42 miliardi circa di mancati pagamenti della PA. Certo è un dato che pesa ma coi dati non si guardano in faccia le cause, semmai gli effetti.

L’ex Presidente INPS, tornato a fine febbraio 2019 nelle vesti di economista e accademico, scava con maestria dentro gli ingranaggi intossicati del lavoro pubblico, della sua formazione e delle sue competenze.

“Non c’è alcuna terzietà nell’amministrazione pubblica e nella burocrazia italiana, a differenza di altri Paesi, ma l’aspetto ben più grave è che il pubblico impiego è stato utilizzato come ammortizzatore sociale e come trasferimento occulto in alcune parti del Paese dove il mercato del lavoro funzionava peggio o dove c’erano meno opportunità. Il Sud, ad esempio, è stato un territorio in cui i salari del pubblico impiego erano particolarmente elevati per mansioni di base. Questa dimensione non rispondeva alle esigenze di natura organizzativa e, ancor meno, cercava competenze particolarmente evolute.

Non è questo lo spirito con cui dovrebbe lavorare una Pubblica amministrazione: dovrebbe offrire servizi di qualità ai cittadini nelle migliori condizioni possibili. Migliori servizi qualitativi al costo più basso visto che ce ne facciamo carico tutti noi.

Ne consegue che anche tutte le carriere interne hanno risposto ad una logica politica più che di funzionalità delle amministrazioni.

Il sindacato poi ha fatto il resto: in Italia il sindacato si è molto indebolito nel settore privato ma è rimasto forte nel pubblico impiego che ha continuamente spinto verso un estremo egualitarismo. Inoltre il tetto imposto a 240mila euro per i livelli retributivi più alti ha di fatto determinato un appiattimento generale della struttura; il paradosso è che mansioni relativamente elementari vengono pagate molto di più di quello che sarebbero pagate nel privato e retribuzioni molto più basse che nel privato vengono riconosciute a mansioni dal contenuto e professionalità elevate.

Il problema dell’Italia è che facciamo molta fatica a portare dentro il pubblico le persone di cui ci sarebbe bisogno per migliorare il livello dei servizi.

Non dico assolutamente che la struttura pubblica debba replicare la struttura salariale del privato – non fosse altro perché quando parliamo di settore pubblico parliamo di un lavoro che garantisce una estrema sicurezza nell’impiego e lo abbiamo visto nel 2008/2009 che ha visto segnare numerosissimi licenziamenti nel privato ma non nel pubblico. Anche col Covid 19 ci sono state riduzioni occupazionali nel privato ma non nel pubblico.

Dico che nel pubblico, in materia di retribuzioni, ci si potrebbe appellare anche ad un senso civico da parte di chi interpreta quel lavoro come una forma di contribuzione personale alla comunità. Personalmente quando ho scelto di fare il Presidente dell’INPS ho accettato una forte riduzione dello stipendio semplicemente perché ne capivo il valore sociale.

Nel pubblico bisognerebbe cercare di capire a monte quali sono le competenze necessarie e urgenti per tenere alto il livello dei servizi, provare ad intercettarle e raccoglierle pagandole il meno possibile, che è nell’interesse di tutti noi contribuenti; se proprio non è possibile farlo al ribasso, alziamo allora un po’ le retribuzioni pur di portarle a casa. Non è mai stato fatto, purtroppo.

Non parliamo nemmeno dei concorsi – quando sono stati fatti, perché si è spesso cercato di inserire persone con logiche di altra natura – che non hanno rappresentato una certezza dato che la politica è abituata ad imporre meccanismi di cordata o di interesse personale.

Non dobbiamo mai dimenticare che le amministrazioni sono fatte di persone e non riusciremo mai a cambiare le amministrazioni se non cambieremo le persone che ci lavorano ogni giorno.

Torno al tema delle qualifiche dei dipendenti che lavorano nelle pubbliche amministrazioni in Paesi diversi dal nostro: ho estrapolato un dato curioso sul loro coinvolgimento privato nel sociale e nell’associazionismo a vari livelli. Altrove, mediamente sono persone che anche prima di avere un pubblico impiego erano socialmente molto impegnate, in Italia questo aspetto è introvabile. Io desidererei proprio che chi sceglie di lavorare nel pubblico avesse di fondo una spinta sociale di questo genere verso la collettività, dovrebbe essere uno dei tratti identitari di chi lavora nel pubblico.

Quando si fanno i concorsi pubblici bisogna andare a guardare nei curriculum anche gli impegni extracurriculari nel sociale, così come questo aspetto andrebbe sondato nei colloqui per averne conferma.

Non dico che non sia già così per molti dipendenti italiani ma serve agire a livelli interni più alti. Lavorando all’INPS ho trovato persone straordinarie, cito su tutti i dipendenti allo sportello di Scampia che facevano davvero da unico avamposto dello Stato in un territorio tanto complesso. Così come vorrei sottolineare che i funzionari allo sportello non hanno alcuna responsabilità personale su scelte politiche che magari determinano la cessazione di certi pagamenti ma ciononostante vengono presi di mira dai cittadini.

In Italia manca totalmente la formazione di chi sta ai vertici delle amministrazioni; non siamo la benché minima ombra di ciò che accade in Francia con le scuole di amministrazione per quanto anche lì il reclutamento non vi attinga più come in passato nonostante la solidissima tradizione dell’ENA (ndr; si tratta dell’Ecole Nationale d’Administration: creata da De Gaulle per non avere dirigenti che fossero compromessi col nazismo, col tempo ha ceduto a logiche di ammissione “ereditaria” per concorso, di padre in figlio, per quanto le vada ancora riconosciuto sul piano del modello formativo il grande merito di non avere al suo interno un corpo di docenti stabili ma di dirigenti che prestano la propria esperienza concreta di insegnamento e facendolo generalmente pro bono).

Noi storicamente abbiamo avuto il retaggio di una burocrazia totalmente asservita al regime durante il periodo fascista e lì, più o meno, siamo rimasti. Su questo aspetto è molto difficile intervenire, parecchie Università stanno cercando di investire su una formazione che colmi il vuoto alle spalle ma è un vuoto ormai impossibile da colmare, semmai si può recuperare qualche passo.

Quello che dobbiamo fare, e non c’è più tempo da perdere, è lavorare sulle competenze, tentare innesti dal settore privato, insistere sulla terzietà. La terzietà dovrebbe guidare ogni dipendente della pubblica amministrazione, proporrei persino un loro giuramento al momento dell’accesso al posto pubblico. Sono troppe le decisioni che vengono prese da funzionari senza competenze.

C’è come un ceto intermedio tra la politica (mediamente poco preparata) e la tecnostruttura (mediamente molto preparata): è il ceto che sopravvive ai governi, ai capi di gabinetto, ai capi degli uffici legislativi: i politici che man mano si avvicendano non se la sentono di entrare in contatto con la tecnostruttura e quindi tagliano corto affidando le sorti della politica a quei capi di gabinetto o a quei capi degli uffici legislativi e così via. In pratica, alla fine, le stesse amministrazioni pubbliche vengono gestite da figure che non sono né tecnici e competenti, né politici con le conseguenti responsabilità. Noi cittadini scegliamo politici che delegano tra i corridoi alle figure del ceto intermedio e invisibile: dovremmo pretendere che un Ministro che vara un provvedimento si sieda al tavolo con tutti i dirigenti della struttura e discuta con loro dei dettagli per filo e per segno. Insieme dovrebbero fare uno stress test, farlo sempre.

Sono convinto che anche per questi recenti DPCM non sia stato coinvolto nessuno, sono convinto che se i Ministri Catalfo o Gualtieri avessero discusso delle CIG con i funzionari dell’INPS nemmeno uno di quei funzionari avrebbe garantito realisticamente il pagamento agli italiani prima di due o tre mesi perché avrebbero saputo circostanziare la condizione oggettiva di quel decreto, la lungaggine di quelle procedure previste e la lentezza che sarebbe derivata da quei controlli. 

Altro buco italiano è che l’operato dei dirigenti non viene esposto al giudizio dei cittadini.

Quando sono arrivato all’INPS c’erano 48 dirigenti e stavano tutti a Roma: abbiamo ridotto i dirigenti e li abbiamo portati sui diversi territori perché lì potessero rispondere del proprio incarico.

In modo ridicolo, nelle amministrazioni si lega la performance alla produttività ma serve dare un senso agli indicatori con cui vengono valutate: spesso sono parametri interni che guardano al numero di pratiche prodotte o cose di questo genere ed è assurdo che non ci sia la valutazione del gradimento dei cittadini verso il loro operato. 

È fondamentale esporre le amministrazioni pubbliche alla disciplina dell’impulso che arriva dai cittadini. Noi cittadini dovremmo essere sempre ferocemente critici verso amministrazioni che non fanno il loro dovere, anche e soprattutto perché abbiamo un’imposizione fiscale altissima.

Riconoscere quando lavorano bene e al tempo stesso non risparmiare critiche feroci quando le meritano. Io per primo, quando mi fu proposto di accettare la presidenza INPS, alla fine ho accettato per un motivo semplice: se mi fossi tirato indietro davanti al senso di responsabilità con cui avrei potuto provare a lasciare un segno di miglioramento, con quale faccia verso me stesso e verso gli altri mi sarei potuto arrogare il diritto di criticare?

Solo l’indipendenza garantisce la buona politica, chi lavora dentro la politica dovrebbe avere sempre una propria sfera professionale alternativa e una durata ragionevole; diversamente è un disastro.

Indipendenza, autonomia e terzietà sono parole che faticano a entrare nella scala dei valori delle amministrazioni pubbliche, della burocrazia e, purtroppo, anche della politica”.

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