Vito Antonio Vitale, FISTEL CISL: “L’arte non si sporca coi contratti”

“Quest’anno si celebrano i vent’anni di mancato rinnovo del contratto nazionale delle troupe, e già questo legittimerebbe gran parte delle richieste dei lavoratori. È chiaro che il mondo, e il settore del cine-audiovisivo in particolare, hanno subito in questo tempo modificazioni straordinarie e radicali, affrontate dalle aziende sulla linea di galleggiamento a spese dei lavoratori […]

“Quest’anno si celebrano i vent’anni di mancato rinnovo del contratto nazionale delle troupe, e già questo legittimerebbe gran parte delle richieste dei lavoratori. È chiaro che il mondo, e il settore del cine-audiovisivo in particolare, hanno subito in questo tempo modificazioni straordinarie e radicali, affrontate dalle aziende sulla linea di galleggiamento a spese dei lavoratori e della qualità. Ci rivolgiamo a quegli imprenditori del settore che vogliono, come noi, il rilancio del settore a livello internazionale: basta galleggiare. Regole certe, mercato sano, prodotti di grande respiro, percorsi di formazione e certificazione per aziende e lavoratori.”

L’arte non si sporca coi contratti, con gli scioperi. Quando pensiamo al cinema non pensiamo al lavoro duro di tutti; vediamo gli attori, i registi e tutto lì. Per Vito Antonio Vitale, segretario generale della FISTEL CISL, che associa i lavoratori dell’informazione, dello spettacolo e delle telecomunicazioni, fare sindacato nel cinema è un discorso molto complesso: “È molto, molto difficile perché è tutto lavoro intermittente. Non c’è un rapporto costante con le persone, nel senso che i contratti sono a tempo determinato, quando non sono a partita iva. È un rapporto che deve essere consolidato anche se ci sono delle grosse difficoltà oggettive”.

 

 

Segretario, come mai il mondo della celluloide è cosi restio a riconoscere dignità ai lavoratori delle troupe?

Le parti datoriali hanno tre grossi problemi, e tutti e tre sono di natura negoziale. La prima riguarda i nuovi “player” che si affacciano sia come investimenti che come distributori. La seconda debolezza è nei confronti della committenza, perché sempre più applicano accordi commerciali non dico al ribasso ma quasi, e investono poco nella produzione. Il terzo è il rapporto tra “il sopra la linea e il sotto la linea”. Fatto cento un valore di investimento, il “sopra la linea” è quello che si dirotta verso la componente artistica – gli attori, gli autori, i registi –, il “sotto la linea” invece è quanto viene destinato alla parte materialmente produttiva. Se non si trova un equilibrio fra questi due valori è inevitabile che viene compresso il costo del lavoro della produzione.

A proposito dello stato di agitazione e degli scioperi di questa estate, nel comunicato congiunto CISL – CGIL del 1° agosto leggo: “Rimarchiamo atteggiamenti non corretti da parte di alcune produzioni nei confronti dei lavoratori che hanno aderito all’agitazione, ricordando a tutti che l’art. 40 della nostra Costituzione definisce lo sciopero un diritto”. Siamo alle ritorsioni?

Diciamo che ci sono delle forzature. È ovvio che tra i contraenti la parte debole sono i lavoratori, perché poi vengono segnati come i “monatti” e alla fine perdono, non vengono richiamati. C’è un po’ di pressione perché è sempre un lavoro a tempo determinato e la fila di chi vuole lavorare è lunga, quindi giocoforza c’è anche da considerare che si rischia di perdere o non veder rinnovato il lavoro.

Esiste un problema relativo alla formazione ormai non più in linea coi tempi e con l’evoluzione di macchinari e computer?

Sicuramente. Considera che questo su cui stiamo lottando è un contratto che non è rinnovato da vent’anni. È passata veramente un’era geologica: trasformazioni tecnologiche, cambio degli impianti, modifiche dell’organizzazione del lavoro, ristrutturazione delle professioni. È cambiato il mondo, in un settore in cui la formazione è un fattore fondamentale, altrimenti è impensabile competere con le major internazionali. Il grande problema è che siamo alla vigilia di grossi investimenti – almeno, questo è il sentore generale – da parte dei grossi player: Amazon, Netflix, stanno investendo in tutto il settore dei contenuti, non soltanto nel cinema, musica, audiovisivo. Ci sono all’orizzonte degli investimenti in un territorio che è a vocazione artistica, e bisogna prepararsi al meglio, altrimenti sei invaso, colonizzato, non solo economicamente ma anche professionalmente. Se non sei attrezzato a rispondere in modo qualitativo vieni colonizzato, diventi solo un portatore di cultura artistica, ma non di una cultura produttiva.

Quando parliamo di un lavoro praticamente a chiamata, di un mercato al ribasso, come si fa a dire a un lavoratore di scioperare? Forse il problema è la stessa struttura delle produzioni?

Questa è una debolezza che esiste in tutti i produttori di contenuti e nel mondo dello spettacolo in genere. Questo è un settore molto corporativo, nel senso che è pieno di associazioni professionali e in più c’è questa situazione consolidata di rapporti a tempo determinato che indebolisce ancora di più come potere contrattuale, questo è ovvio.

Si può dire che oggi il mondo del cinema ricorda le prime lotte operaie di fabbrica: quando la produzione detta legge i manovali o sono dentro o sono fuori. Si fa fatica a far capire il sindacato agli stessi lavoratori?

Intanto c’è un grosso problema di natura previdenziale. C’è un problema fondamentale: in questo tipo di rapporto di lavoro non esiste la rilevazione della presenza. Intendo quella informatizzata come ce l’hanno tutti i settori di lavoro. Qui c’è molto forfettario e non c’è una rilevazione della presenza che attesti, non tanto le giornate, ma le ore giornaliere che si fanno. È una battaglia di civiltà quella che vogliamo fare. Dati ex ENPALS, la media delle giornate lavorative è settanta. Considera che per ascrivere un anno previdenziale ne servono almeno centoventi. Quindi i lavoratori del cinema per fare i vent’anni minimi della Fornero ne dovrebbero lavorare quaranta, di anni effettivi, e a queste condizioni. Noi questa battaglia la stiamo facendo pretendendo la rilevazione delle presenze, delle ore effettive, perché se riusciamo ad avere un coefficiente orario giornaliero riusciamo ad allungare le giornate di lavoro. Siccome sui set si fanno anche dieci ore di lavoro, quella giornata può diventare una giornata e mezza, e quindi a fine produzione invece di avere tre o quattro settimane, cumulando le ore, se ne possono avere cinque o sei. Questo però non si può fare se non c’è la precondizione di rilevazioni orarie certe sui set, sia in fase di preparazione che di produzione. Lo ripeto: è una battaglia di civiltà, considerato che vent’anni fa le giornate venivano segnate su un pezzo di carta. Questi vent’anni di autogestione hanno determinato una serie di problemi sul piano sociale, economico, di diritto del lavoro che noi vorremmo cercare il più possibile di normalizzare. Per questo il conflitto con le parti datoriali è aspro.

Il 17 ottobre ci sarà il festival del cinema di Roma. Il confronto con le associazioni datoriali, così come lo stato di agitazione, è destinato a inasprirsi?

Io per mia natura, essendo un sindacalista, preferisco il tavolo, il negoziato; voglio essere ottimista e cercare di lavorare sulle cose che ci uniscono. Certo, a oggi – cioè i quattro giorni che abbiamo preso per chiudere l’accordo – ci sono ancora distanze siderali sulla parte economica. Per cui se negli ultimi due incontri che abbiamo non c’è una fase stringente di alta mediazione e di alta responsabilità c’è il rischio che il confronto si possa inasprire.

 

 

Cinecittà lustrini e paillettes, Fellini e la dolce vita. Cinecittà, dove il sogno del cinema rimane, sbiadito, solo nei titoli di coda dei kolossal hollywoodiani anni Cinquanta. Pizze arrugginite buttate in un angolo fuori da qualche studio, ormai coperte da cartacce e mozziconi di sigaretta. Cinecittà, turisti e visitatori di quello che fu lo splendore del cinema italiano. L’arte non si sporca coi contratti.

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