Fact checking sul lavoro: che cosa c’è nel programma del centrosinistra

Il programma elettorale sui temi lavorativi dei partiti della coalizione di centrosinistra, dai contratti allo smart working. Enrico Letta, intervistato da SenzaFiltro: “Jobs Act figlio di un’altra epoca del PD. Va superato”.

Un po’ di anni fa un noto regista diffondeva un’incitazione destinata a diventare subito celebre. Se bisogna dire “qualcosa di sinistra” non si può non parlare di lavoro, uno dei temi più dibattuti da questo schieramento politico. Il 25 settembre è vicino, e anche in questa occasione, per i partiti della coalizione (formata da Partito Democratico, una lista unitaria di Sinistra Italiana e Verdi, +Europa e Impegno Civico) è un tema chiave.

Il Partito Democratico identifica nel lavoro il “secondo pilastro” del programma Italia 2027, in cui si afferma che “l’Italia deve dare sempre più dignità ai lavoratori e alle lavoratrici, soprattutto a quelli oggi più vulnerabili. Ciò risulta ancora più urgente alla luce della precarizzazione che caratterizza il nostro mercato del lavoro, specie per i più giovani e per le donne”. Vulnerabilità, precariato, donne e giovani: parole non casuali, soprattutto in un contesto come quello che stiamo vivendo. Anche Sinistra Italiana e Verdi inseriscono il lavoro tra le 12 priorità del proprio programma politico.

Abbiamo approfondito confrontandoci anche con il segretario del Partito Democratico Enrico Letta, leader della coalizione di centrosinistra, che quasi subito ha chiarito le priorità, sottolineando che “il PD è il partito del lavoro”.

Letta: “Il Jobs Act è figlio di un’altra epoca del PD. Contratti a intermittenza insostenibili e ingiusti”

Tutti i partiti della coalizione si impegnano per attuare disposizioni che favoriscano le assunzioni a tempo indeterminato, contrastando i contratti a termine.

Nello specifico, il programma del PD intende riproporre “sul modello di quanto fatto in Spagna, la necessità di introdurre la causale fin dall’inizio del rapporto di lavoro, rendendo strutturalmente più vantaggioso il contratto a tempo indeterminato rispetto a quello a tempo determinato”. In Spagna lo scorso anno è infatti entrata in vigore una riforma che ha limitato notevolmente il ricorso al contratto a tempo determinato, prevedendo una durata massima di sei mesi, a fronte dei nostri 24, e rendendone più onerosa l’adozione per le aziende.

Che cosa dicono i dati nel nostro Paese? Secondo l’ISTAT nel primo trimestre dell’anno si è registrata una crescita, rispetto a quello precedente, sia dell’occupazione a tempo indeterminato che, in modo più marcato, dei contratti a tempo determinato.

Da qui l’impegno per scoraggiare i contratti a termine. Va però sottolineato come lo stesso Partito Democratico, attraverso il Jobs Act e il contratto a tutele crescenti, abbia da un lato reso più vantaggiosi i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ma allo stesso tempo non sia riuscito ad arginare i contratti a termine, non prevedendo causali e quindi di fatto dando grande discrezionalità al datore di lavoro. Jobs Act che più di una volta l’attuale segretario del PD ha affermato di voler superare, attribuendone soprattutto la responsabilità al suo rivale politico Matteo Renzi, ma che tuttavia non è mai nominato nel programma del Partito Democratico.

Il Partito Democratico in questi due anni è profondamente cambiato. Il Jobs Act è figlio di un’altra epoca, anche del nostro partito”, ha spiegato Letta a SenzaFiltro. “La pandemia, la guerra della Russia contro l’Ucraina, la crisi energetica, l’inflazione hanno cambiato completamente gli scenari. I contratti a intermittenza sono insostenibili per le persone e ingiusti. E ora abbiamo una grande occasione, quella di rilanciare l’Italia e di renderla più moderna attraverso le risorse del PNRR, che è il più grande investimento dopo il Piano Marshall. Come PD abbiamo ottenuto due clausole che riteniamo fondamentali, che il 40% delle risorse venga investito al Sud e che il 30% dei posti generati vadano a donne e giovani. Vogliamo creare lavoro stabile, il lavoro a tempo indeterminato deve convenire di più alle imprese, attraverso la decontribuzione. Per il Mezzogiorno abbiamo proposto un taglio permanente del 30% ai contributi per chi assume giovani”.

Da tirocini ad apprendistati: i contratti secondo il Partito Democratico

Anche i riferimenti ai tirocini e al contratto di apprendistato vanno nella direzione di favorire l’inserimento lavorativo dei giovani attraverso modalità di accesso al mercato occupazionale più stabili possibili.

Nel primo caso, il PD propone “l’obbligo di retribuzione per stage curriculari e abolizione degli stage extracurriculari, salvo quelli attivati nei 12 mesi successivi alla conclusione di un percorso di studi, così da assicurare che lo strumento torni a rappresentare un’occasione di formazione”.

Sulla stessa linea anche gli altri partiti della coalizione. Per i tirocini curriculari, quelli cioè attivabili durante il percorso universitario, attualmente non è previsto un rimborso spese, termine più adatto rispetto a retribuzione quando si parla di stage, ma è già in discussione un testo di legge unificato, sostenuto anche dal PD, che prevede l’istituzione di un rimborso minimo di 300 euro.

Quello dell’abolizione degli stage extracurriculari a favore del contratto di apprendistato è un tema aperto da tempo e che fa leva sul potenziamento di una tipologia di contratto, l’apprendistato, ritenuta più “stabile” ai fini dell’inserimento a pieno titolo nel mondo del lavoro, spesso sostituita da una soluzione più “economica” come quella dello stage. Che tuttora dimostra di essere adottata senza dare segnali di arresto: secondo i dati ANPAL e INAPP relativi ai tirocini extracurriculari, dal 2014 al 2019 sono stati 1.970.000 i tirocini attivati, e il 20% di essi ha riguardato persone di età maggiore ai trent’anni.

Il Reddito di Cittadinanza, grande protagonista della campagna elettorale, è citato nei programmi di PD e +Europa, che propongono di rivederne alcuni aspetti, mentre è assente in quello di Verdi e Sinistra Italiana e di Impegno Civico.

Su questo tema abbiamo chiesto approfondimenti al segretario del PD: “Il Reddito di Cittadinanza è stato uno strumento prezioso, per evitare che milioni di persone finissero in povertà durante la pandemia e con la crisi energetica. Adesso bisogna fare in modo che chi può venga seriamente aiutato dallo Stato a trovare una buona occupazione, con politiche attive del lavoro. In troppe occasioni in questi anni abbiamo sentire esponenti della destra ma anche di Italia Viva, a partire da Renzi, sbraitare contro i poveri, quasi come se l’indigenza fosse una colpa e non una responsabilità di un intero sistema che evidentemente non funziona come dovrebbe”.

Occupazione femminile e conciliazione vita-lavoro, Letta: “Transizione digitale fondamentale, dallo smart working non si torna indietro”

Insieme ai giovani, anche quella delle donne rientra nelle categorie dei soggetti citati come più “vulnerabili” nel programma del PD, che propone “un piano straordinario per l’occupazione femminile”, che passa anche per la parità salariale.

A questo proposito è del 2021 la legge Gribaudo (dal nome della parlamentare del Partito Democratico che ne è promotrice), finalizzata a contrastare il cosiddetto gender gap, ossia il divario retributivo rispetto ai colleghi di sesso maschile. Viene citata la “clausola di premialità per l’occupazione femminile e giovanile estesa a tutti gli appalti pubblici”, per sostenere le imprese che si impegnano a creare lavoro stabile.

Il PD intende rendere strutturale una misura già prevista in via sperimentale dal PNRR, i cui criteri sono definiti dalle Linee Guida pubblicate alla fine dello scorso anno, che però fanno riferimento a “investimenti pubblici finanziati, in tutto o in parte, con le risorse previste nell’ambito del PNRR e del PNC (Piano Nazionale per gli investimenti Complementari)”.

Tuttavia lo stesso programma del PD riconosce che non può bastare a ridurre gli squilibri, ma bisogna “premiare le aziende virtuose che accompagnano il cambiamento” e creare “un nuovo equilibrio vita-lavoro”, citando congedi parentali e smart working agevolato per chi ha figli.

Su questi fronti qualcosa si è mosso nell’ultimo anno: è stata recepita la direttiva europea che estende a dieci giorni il congedo parentale obbligatorio e retribuito per i neopapà, senz’altro un passo in avanti ma non una grande rivoluzione se paragonata a quanto accade in altri Paesi europei. Per quanto riguarda lo smart working, c’è una proroga per i genitori con figli fino a 14 anni, almeno al 31 dicembre, mentre per le altre categorie di lavoratori tutto dipende dagli accordi delle singole aziende. L’obiettivo è rendere questa misura strutturale, smettendo del tutto di ricorrervi come strumento di “emergenza” e promuovendone l’uso in un’ottica di maggiore conciliazione vita-lavoro.

“La transizione digitale è un punto fondamentale del nostro programma”, chiarisce Letta. “Abbiamo inciso sul PNRR a tal punto da rendere il piano uno strumento di innovazione epocale. Questo per dire che dallo smart working non si torna indietro e che va normato per garantire i diritti dei lavoratori”. Anche qui, per il PD così come per gli altri partiti della coalizione che lo citano nei rispettivi programmi, non è specificato tuttavia con quali modalità – e soprattutto con quali risorse.

Spinta dei dem sul salario minimo, vaghezza su equo compenso e partite IVA

Altro tema caldo è quello del salario minimo, presente nei programmi di PD, Verdi e Sinistra Italiana e +Europa. Il Parlamento europeo ha approvato ormai mesi fa una proposta di direttiva a riguardo, lasciando però autonomia ai singoli Paesi. Stando ai dati di luglio 2020, l’Italia è uno dei sei Stati membri dell’UE che non ha un salario minimo. I restanti 21 lo hanno adottato con importi variabili, per un lavoro mensile full time, dai 2.202 euro del Lussemburgo ai 132 della Bulgaria. Il Partito Democratico punta a introdurre un salario minimo contrattuale con una soglia minima di 9 euro lordi, che arrivano a 10 nel programma di Verdi e Sinistra Italiana.

Una proposta di legge, ora bloccata, prevede che tutti i lavoratori debbano guadagnare almeno quanto previsto dal contratto collettivo nazionale in vigore per il proprio settore di riferimento, con un salario non inferiore a 9 euro all’ora, al lordo degli oneri contributivi e previdenziali. Il centrosinistra si mette quindi in scia rispetto a quanto già proposto nella legislatura che si sta concludendo, andando incontro agli oltre quattro milioni di lavoratori che a oggi sono sotto questa soglia minima.

Pochi riferimenti, invece, ai circa cinque milioni di lavoratori che non hanno un contratto di lavoro subordinato, i cosiddetti “autonomi”, tra cui ad esempio le partite IVA o chi lavora con contratti di collaborazione, per i quali non si può parlare di salario minimo ma di equo compenso. Aspetto non banale, considerati i numeri e una proposta di legge non ancora andata in porto, che vede oltretutto Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, tra i firmatari.

Un passaggio più dettagliato sui lavoratori autonomi è presente nel programma di Verdi e Sinistra Italiana, che citano un “equo compenso generalizzato e proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto”, insieme ad altre misure quali “predisposizione di schemi contrattuali con i clienti committenti, sistema sanzionatorio che scoraggi il ricorso a clausole e condotte abusive e un codice di condotta che regoli i rapporti tra committenti e lavoratori autonomi”.

Più generico il PD, che parla di “legge per garantire equo compenso in tutti i rapporti dove il committente non è persona fisica e che preveda la sanzione in capo esclusivamente al committente”.

Su questo fronte Letta sostiene di aver appoggiato la proposta di legge sull’equo compenso, ma “la responsabilità della sua mancata approvazione è delle destre e del M5S, che hanno rimandato a casa Draghi”.

Algoritmi trasparenti per i lavoratori delle piattaforme digitali

Se di lavoratori autonomi si parla poco e in modo molto generico in quasi tutti i programmi, nonostante i numeri nel nostro Paese reclamino attenzione, la stessa cosa si può dire per i cosiddetti “lavoratori delle piattaforme online”, un insieme di oltre 570.000 persone, secondo l’analisi INAPP per il 2020-2021, che va dai rider a chi affitta beni di proprietà o vende prodotti su piattaforme pubblicitarie. Nel complesso in Europa si parla di 28 milioni di persone. Da tempo si dibatte sull’effettivo inquadramento di questo tipo di lavori.

A riguardo, a dicembre dello scorso anno la Commissione europea ha proposto una direttiva che definisce una serie di criteri per stabilire se la piattaforma è un datore di lavoro e se è possibile inquadrare almeno parte di questi lavoratori come subordinati, con tutto ciò che comporta in termini di ferie, diritti pensionistici, malattie e quant’altro. Sono previsti anche obblighi di informazione sui sistemi di monitoraggio utilizzati dalla piattaforma per prendere o sostenere decisioni che incidono sulle condizioni di lavoro, oltre alla trasparenza sul numero di lavoratori che svolgono regolarmente un’attività mediante piattaforma.

Il programma del Partito Democratico si propone di anticipare l’intervento dell’UE “assicurando trasparenza sul funzionamento degli algoritmi delle piattaforme, che devono essere oggetto di contrattazione collettiva. In questo quadro occorre porre in capo alle piattaforme l’onere della prova circa l’identificazione del tipo di rapporto di lavoro che si presume subordinato”.

 Al momento l’Italia non ha ancora recepito la direttiva europea; in piedi c’è un disegno di legge, al momento in standby, che approfondisce questi aspetti. Anche qui, di fatto, si andrebbe in continuità con quanto già proposto durante la legislatura che si sta per concludere. È evidente, dati e ultimi episodi di attualità alla mano, quanto il fattore velocità sia fondamentale per arrivare a una soluzione condivisa in tempi utili.

Pensioni, le differenze programmatiche tra i partiti della coalizione di centrosinistra

Un nodo non di poco conto è anche quello delle pensioni. Da tempo il dibattito è aperto sul tema in vista di una nuova riforma. Gli ultimi anni hanno visto infatti protagonista Quota 100, che ha dato la possibilità di uscire dal mondo del lavoro a chi aveva almeno 38 anni di contributi e un’età anagrafica minima di 62 anni. Attualmente è possibile andare in pensione con almeno 64 anni d’età e 38 di contributi.

Sia il Partito Democratico che +Europa affrontano il tema nei propri programmi. Il PD individua i 63 anni come tetto minimo e punta a favorire chi ha svolto lavori gravosi o usuranti. Età pensionabile fissata invece a 62 anni, o con 41 di contributi, nel programma di Verdi e Sinistra Italiana.

Nel programma dem anche il riferimento a un altro tema molto dibattuto da tempo, quello della pensione di garanzia per chi ha carriere più discontinue, vedi i giovani. Non si tratta tuttavia di una novità: già nel 2016 c’era stata un’intesa governo-sindacati sul tema, con varie proposte che però non sono sfociate in una soluzione definitiva.

+Europa si spinge oltre, proponendo l’introduzione in Costituzione del “principio di equità generazionale rispetto alle finanze pubbliche”, sostenendo il tema dell’impegno verso le generazioni future: un punto poco presente negli altri programmi politici, ma citato nelle costituzioni di molti Paesi esteri.

Letta: “Le grandi crisi si risolvono con il dialogo tra parti sociali. Un suicidio rinegoziare il PNRR, come vuole la Meloni”

Il futuro dei giovani passa anche per quello delle nostre aziende. Che, stando ai tavoli di crisi attualmente sul tavolo del Mise (circa una settantina), non se la passano proprio benissimo. Parliamo di numerose imprese per oltre 80.000 lavoratori, concentrate in varie aree del territorio nazionale. Per fronteggiare le “grandi crisi” – monitorate da SenzaFiltro – è stato anche avviato un tavolo d’esperti.

Su questo fronte, la coalizione del centrosinistra parla di “introduzione di normative più stringenti contro le delocalizzazioni”. Un tema su cui anche il segretario del PD Enrico Letta si è speso in più di un’occasione, sostenendo che l’attuale governo dovesse adottare quanto prima una normativa più efficace. Quello presente nel programma è tuttavia solo un passaggio non approfondito. Le disposizioni attuali prevedono che un’azienda debba comunicare in anticipo alle parti sociali qualsiasi intenzione di delocalizzazione e adottare un piano preventivo per arginare il rischio licenziamenti, prevedendo sanzioni per le imprese inadempienti.

Ma, oltre alle delocalizzazioni, cos’altro c’è? “Per noi le crisi aziendali si affrontano attraverso il dialogo fra le parti sociali, con l’intervento del Governo nei tavoli finalizzati, risorse, buonsenso e politiche industriali chiare in un saldo quadro europeo. Abbiamo sempre agito in questo modo, spesso con ottimi risultati. La transizione ecologica e digitale, l’innovazione, il piano delle infrastrutture, le riforme, la prospettiva dell’autonomia energetica e tutti gli interventi previsti dal PNRR, e soprattutto i relativi fondi, avranno un ruolo decisivo per il futuro delle nostre aziende. Rinegoziare quel piano come vuole Giorgia Meloni sarebbe un suicidio per l’Italia, la priorità assoluta è evitarlo”, ha spiegato Letta.

Il “cambio di paradigma” del Sud secondo il PD

Un focus abbastanza approfondito anche sul Mezzogiorno, tra le aree tradizionalmente più penalizzate. Il PD parla di un “cambio di paradigma”, indicando l’intenzione di far rispettare “la quota di investimenti destinata al Mezzogiorno nei diversi ambiti del PNRR e nel bilancio ordinario dello Stato” e proponendo “la proroga, il potenziamento e la razionalizzazione dei diversi meccanismi di incentivazione per l’occupazione nel Sud Italia, puntando su giovani e donne”.

Tirando le somme, il centrosinistra affronta più o meno tutti i temi caldi del dibattito sul lavoro degli ultimi anni, dimostrando però in alcuni casi di non approfondire abbastanza quelli che al momento restano solo titoli, e proponendo soluzioni tutto sommato in continuità con quanto già discusso nell’attuale legislatura.

Confrontando anche i partiti della coalizione, nel programma del PD mancano ad esempio riferimenti al tema della sicurezza sul lavoro, presente in quello di Verdi e Sinistra Italiana, mentre +Europa fa focus maggiormente sui temi dell’istruzione e della formazione, mettendoli al primo punto del programma.

Insomma, il lavoro è sempre “qualcosa di sinistra”, ma con le opportune cautele e differenze.

Leggi gli altri articoli a tema Politica.

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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