Dunque, per inquadrare le ripercussioni psicologiche del lavoro minorile, è necessario distinguere le varie situazioni.
“Da una parte – spiega Anna Maria Ajello, docente di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione all’Università la Sapienza di Roma e già presidente INVALSI – vi sono le situazioni di famiglie fortemente disagiate dal punto di vista economico e sociale, in cui i figli vengono reclutati in età molto precoce dai genitori per fare lavori di manovalanza poco qualificati; dall’altra ci sono le realtà nelle quali la scelta di andare a lavorare consegue all’abbandono della scuola. In questi casi, che coinvolgono in genere adolescenti, di solito non siamo davanti a famiglie particolarmente disagiate, quanto piuttosto a un allontanamento volontario da una scuola che non presenta attrattive.”
Fasce d’età diverse corrispondono quindi a motivazioni differenti, e a conseguenze diverse sull’equilibrio psicofisico dei minorenni lavoratori. Sui più piccoli i rischi aumentano in modo esponenziale, perché i bambini non hanno competenze né cognitive, né emotive, né fisiche adeguate alla dimensione lavorativa, e i danni sono importanti: autosvalutazione, ansia, depressione sono il risultato di dover affrontare compiti troppo sfidanti rispetto agli strumenti di cui si dispone.
“Laddove i bambini sono piccoli e lavorano per contribuire al sostentamento della famiglia – continua Anna Maria Ajello – si induce uno squilibrio pericoloso, perché sono avviati a una ‘modalità adulta’ che non compete al loro sviluppo. Per non parlare del fatto che in tali contesti hanno come unico modello di riferimento persone adulte, e il loro percorso di crescita viene quindi privato della relazione con i loro pari.”
Questo è un impoverimento che ha di certo conseguenze negative sulla costruzione dell’identità dell’individuo. In una situazione normale, i modelli dovrebbero essere interiorizzati, acquisiti e poi, nell’adolescenza, rimessi in discussione. Se il modello è unico tutto questo viene alterato, soprattutto nella fase della contestazione, che è proprio quella nella quale, per differenziazione, si definisce l’identità personale.
“Questi giovanissimi magari guardano i loro coetanei come bambini, mentre loro si sentono già adulti perché fanno cose da grandi, ma proprio questo fare cose da grandi e questa disfunzione relazionale con i pari non li aiuta a crescere, perché nella preadolescenza, ma anche nell’adolescenza, i rapporti fra coetanei sono fondamentali. L’‘adultizzazione’ priva i giovanissimi di quella gradualità della crescita indispensabile per la formazione dell’identità, e determina un isolamento del bambino che impatta in negativo sul suo sviluppo.”