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Le mutazioni pubblicitarie di Facebook
Tutto è cominciato con i Flyer. Era il 2004, Facebook era nato da poco, aveva ancora il “the” a precederne il nome e i suoi utenti erano esclusivamente universitari di alcuni college americani. I Flyer erano delle inserzioni presenti nella homepage del sito usate più che altro per promuovere eventi e feste in programma nei […]
Tutto è cominciato con i Flyer. Era il 2004, Facebook era nato da poco, aveva ancora il “the” a precederne il nome e i suoi utenti erano esclusivamente universitari di alcuni college americani. I Flyer erano delle inserzioni presenti nella homepage del sito usate più che altro per promuovere eventi e feste in programma nei campus. Gli inserzionisti pagavano fra i 10 e i 40 dollari al giorno e avevano la possibilità di rivolgere i propri Flyer a gruppi specifici di studenti. Quell’anno furono proprio loro a generare la maggior parte dei guadagni della piattaforma.
Così non molto tempo dopo arrivarono i Flyer Pro, che introdussero il sistema dell’asta e del costo per clic e una migliore capacità di targeting.
2005: il salto il lungo nei guadagni. E poi?
Nel 2005 entrano in gioco i primi grandi inserzionisti – Party Poker, Apple, Victoria’s Secrets e altri – e Facebook passa dai circa 500.000 dollari di guadagni a circa 9 milioni.
Dopo aver aperto le porte nel 2006 a tutti gli over 13, a fine 2007 Facebook lancia sia le pagine per il business che la propria piattaforma pubblicitaria. Quasi dieci anni di costante evoluzione l’hanno portata ad essere considerata uno strumento pressoché imprescindibile – o inevitabile – vuoi perché la copertura organica ha subito un crollo, vuoi perché le possibilità di targeting offerte sono estremamente dettagliate.
D’altra parte i numeri raccontano una crescente allocazione di budget per la social media advertising in genere: a livello globale la crescita è del 20% l’anno, e si stima che nel 2019 arriverà a 50,2 miliardi di dollari; in Italia l’internet advertising giunge a quota 2,36 miliardi di euro – con un aumento previsto per il 2017 del 10%, di cui il 16% è la spesa per la pubblicità sui social media.
“Metti in evidenza” il lato oscuro di Facebook
Eppure c’è ancora un diffuso scetticismo riguardo la reale efficacia della pubblicità su Facebook. Non di rado si trovano online resoconti di esperienze negative o giudizi decisamente tranchant. Tuttavia, approfondendo la questione, ciò che emerge è che il problema non è il mezzo ma l’uso che se ne fa. D’altronde non tutti gli strumenti nascono uguali e non tutti, per quanto possano avere incredibili potenzialità, sono utili a qualunque tipo di esigenza indistintamente. Bisogna aver chiari i propri obiettivi e conoscere a fondo il proprio target prima di poter immaginare campagne pubblicitarie mirate e canali adatti.
Certo, un lato negativo nella piattaforma pubblicitaria di Facebook c’è. Si tratta del “Boost Post” – “Metti in evidenza”, tradotto in italiano – ovvero la via semplice per creare un’inserzione. Semplice e pertanto anche limitata, ma non meno dispendiosa di una pubblicità creata nel Power Editor o Gestione inserzioni. Anzi, se usata con leggerezza e poca consapevolezza, può rivelarsi ben più costosa, a fronte tra l’altro di numeri che non rappresentano un reale ritorno sull’investimento ma che rimangono vanity metrics chiuse nell’ecosistema Facebook e probabilmente neanche troppo efficaci per la brand awareness.
C’è da dire poi che una campagna per Facebook va ideata seguendo un approccio diverso da quello che si userebbe per una classica pubblicità display. Perché sia efficace e perché abbia chances di raggiungere il pubblico, la pubblicità su Facebook non deve essere invasiva, non deve essere percepita come un’interruzione indesiderata. Deve invece fondersi con il flusso di notizie e di interessi dell’utente per non rovinarne l’esperienza sulla piattaforma. Così da mantenere utenti soddisfatti e attivi a cui proporre nuove inserzioni.
Il giornalismo, le tv e le dirette
La salvaguardia della user experience passa anche per la lotta alle fake news e ai link fuorvianti e, più in generale, per il Journalism Project. Iniziativa che si snoda su tre canali: la collaborazione tra Facebook ed editori per la creazione di formati news adatti alla fruizione da social, i corsi di formazione e gli strumenti per giornalisti e, infine, l’impegno per aiutare gli utenti a saper discernere fra fonti attendibili e non.
Con il Journalism Project Facebook fa un passo in avanti anche verso i publisher, consentendo loro di inserire negli Instant Articles più pubblicità, un form per l’iscrizione alla newsletter e una CTA per chiedere di mettere il like alla propria pagina. Inoltre, a breve arriverà la possibilità di abbonarsi alle pubblicazioni digitali direttamente all’interno della app di Facebook. A ben guardare, tali incentivi portano acqua al mulino di Facebook: più editori useranno gli Instant Articles e gli altri tool messi a disposizione, più dati sugli utenti potrà raccogliere Facebook e più spazi pubblicitari ci saranno.
Al di là del giornalismo scritto, però, è noto che il grande interesse di Facebook è da almeno un paio d’anni tutto per il video, in diretta e non. Tant’è che non solo è in fase di rollout una sezione dedicata esclusivamente ai video, ma è arrivata anche la Facebook TV, una app per Apple TV, Smart TV, FireTV e AndroidTV attraverso cui si può fruire dei contenuti video. Si sa già che, oltre ai video degli utenti, Facebook manderà in streaming una serie comedy e un reality e ci si aspetta, almeno secondo l’analisi dell’Hollywood Reporter, che anche i prossimi programmi messi in palinsesto non siano di particolare levatura quanto piuttosto di taglio generalista per intercettare un pubblico più ampio. Anche in questo caso Facebook trae enorme vantaggio, sempre in termini di revenue, dalla piattaforma pubblicitaria. Sono già disponibili, infatti, le inserzioni a metà dei contenuti video, sia live che non, ed è legittimo immaginare che con l’arrivo della Facebook TV verranno potenziate.
Facebook – che, nelle parole di Mark Zuckerberg, non è una technology company tradizionale, ma neanche una media company tradizionale – ha scelto di non essere più l’unico publisher e di aprire la propria piattaforma pubblicitaria a siti e app di terze parti. In questo modo l’ha rafforzata, ha aumentato i profitti e si è messo al riparo da un eventuale calo di coinvolgimento sulle proprietà dirette.
In questo quadro, così diversificato pur all’interno dello stesso ecosistema, appare chiaro che per ottenere un reale ritorno economico dalle azioni pubblicitarie fatte su Facebook è indispensabile avere una visione d’insieme lavorando su tutti gli elementi chiave del processo di vendita, buyer personas in primis.
Il che significa che, anche se un giorno di campagna volendo può costare solo 5 €, non deve passare il messaggio che si tratta di un’attività promozionale economica, come correttamente fa notare Franco Fantuzzi su questa testata. Non lo è in termini di impegno lavorativo e non lo è in termini di spesa, perché con un budget basso si può partire ma prima o poi lo si dovrà scalare.
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